Si è svolta giovedì senza particolari intoppi la prima seduta del
parlamento libanese senza la presenza di un presidente eletto. È da sei
giorni infatti che lo scranno presidenziale è vuoto, data l’incapacità
della Camera di eleggere il successore di Michel
Sulaiman entro i termini di scadenza del suo mandato, passando così “la
palla” all’esecutivo fino all’elezione di un nuovo Capo dello Stato. E
se USA, Francia e Nazioni Unite tuonano affinché una soluzione venga
trovata in tempi brevi nel timore di una nuova paralisi istituzionale
faccia a faccia alla crisi siriana, le preoccupazioni della classe
politica libanese sembrano muoversi invece su tutt’altro piano,
strettamente legato alla legittimità dell’impianto confessionale
costitutivo della Repubblica sin dalla sua fondazione e
istituzionalizzato costituzionalmente con i cosiddetti “Accordi di Taif”
del 1989.
In effetti, guardando da un punto di vista eminentemente
tecnico alla distribuzione dei poteri tra le diverse cariche
istituzionali sancita dalla Costituzione, la figura presidenziale non
dispone di alcuna autorità determinante tanto nell’iter legislativo
quanto esecutivo. Il presidente infatti, pur potendo presiedere
alle sedute parlamentari, non può né deciderne l’agenda né votarne le
decisioni, così come in caso di veto (che può opporre solo una volta) è
obbligato ad accettare le decisioni della Camera dopo una sola
revisione; infine, in caso di assenza come quello in corso, i suoi
poteri passano tout court al governo in carica.
Non avere un presidente dunque, non pregiudicherebbe affatto
lo svolgimento di una regolare vita istituzionale. Tuttavia, ammetterne
esplicitamente la non-indispensabilità, implicherebbe mettere
in discussione dalle fondamenta il principio di rappresentatività
confessionale alla base del sistema libanese tutto, privando la
componente cristiana dalla sua emanazione nella troika
istituzionale [secondo la Costituzione il Presidente della Repubblica
deve essere cristiano maronita, il Primo Ministro musulmano sunnita e il
Presidente della Camera musulmano sciita, n.d.a.] e minando così la
legittimità di qualsiasi provvedimento legislativo preso in sua assenza.
Ciò nonostante, una soluzione per uscire dall’impasse sembra ancora lontana dall’essere trovata. La consapevolezza della centralità della questione per la tenuta dello status quo
alla quale nessuna delle forze politiche in campo vuole e può
rinunciare per mantenersi al potere da un lato, e la consapevolezza di
poter prendere tempo dall’altra, sta infatti portando i leader
cristiani delle due coalizioni avversarie dell’8 e del 14 Marzo
(rispettivamente Michel Aoun del Movimento Patriottico Libero e Samir
Geagea delle Forze Libanesi) a sfruttare la corsa alla presidenza per
l’ultimo, disperato, tentativo di fare da traino per il cambiamento dei
rapporti di forza tra i due blocchi a fronte del basso profilo
sul quale, al contrario, i rispettivi alleati di maggioranza (il
Movimento Mustaqbal ed Hezbollah) stanno puntando.
Insomma, anche in questo caso, lo scenario più plausibile è che la
soluzione venga trovata tra Parigi e Riad attraverso la mediazione di
leaders altri (Jumblatt, Berri, Siniora, Salam) faccia a faccia agli
equilibri regionali contingenti, con buona pace dei diretti interessati.
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