di Michele Paris
Soltanto tre mesi fa, i leader di Stati Uniti e Unione Europea erano
intenti a condannare con toni molto duri il governo dell’allora
presidente ucraino Viktor Yanukovich per la presunta repressione messa
in atto contro i manifestanti anti-governativi nelle strade di Kiev.
Oggi, al contrario, da Obama alla Merkel, da Cameron a Hollande, gli
sponsor occidentali del regime golpista e del neo-presidente, Petro
Poroshenko, l’oligarca uscito vincitore dalle elezioni-farsa di domenica
scorsa, si complimentano per le operazioni militari in corso contro i
ribelli “filo-russi” nelle regioni orientali dell’Ucraina, risoltesi in
un numero di vittime tra i civili già di gran lunga superiore a quello
registrato durante gli scontri che avevano preceduto il colpo di stato
di febbraio.
L’invio di carri armati, aerei ed elicotteri da
guerra era iniziato lunedì in concomitanza con la conquista momentanea
dell’aeroporto di Donetsk da parte dei ribelli. L’iniziativa di Kiev si è
risolta in un bagno di sangue, con un bilancio provvisorio di un
centinaio di morti, di cui almeno la metà civili. Secondo il vice-primo
ministro ucraino, Vitaly Yarema, “l’operazione anti-terrorismo
continuerà fino a che non rimarrà un solo terrorista sul territorio” del
paese, così che ancora mercoledì sono state segnalate incursioni aeree
ed esplosioni nella stessa Donetsk, ma anche a Slovyansk e in altre
città orientali.
L’escalation decisa a Kiev è coincisa
soprattutto con l’esito del voto per le presidenziali, come aveva
chiarito lo stesso Poroshenko già nel suo discorso seguito alla diffusione dei risultati. Il miliardario ucraino, arricchitosi grazie al
saccheggio delle proprietà dello stato dopo il crollo del comunismo,
aveva infatti promesso di rinvigorire una campagna anti-terrorismo in
fase di stallo, così da spegnere la rivolta in un periodo di tempo
calcolabile in “ore” piuttosto che in mesi.
Quello che sta
accadendo in Ucraina orientale con l’avallo dell’Occidente conferma
quindi come il voto di domenica sia stato precisamente lo strumento non
solo per legittimare un regime installato illegalmente e con il
contributo decisivo di forze apertamente neo-naziste, ma anche per
fornire alle nuove autorità la copertura necessaria a portare a termine
un autentico massacro.
A questo scopo viene ripetutamente
sottolineato nei media occidentali il solido mandato che il presidente
eletto Poroshenko avrebbe ricevuto dai cittadini ucraini. Il 54% delle
preferenze ottenute non può però far dimenticare le condizioni in cui il
voto ha avuto luogo. Per cominciare, le presidenziali si sono svolte
con le operazioni militari già in corso contro i ribelli, condotte sia
dalle forze regolari che da milizie di estrema destra giunte in Ucraina
orientale da Kiev, responsabili della morte di oltre 40 “filo-russi” -
tra cui donne incinte e bambini - in un singolo cruento episodio
registrato il 2 maggio scorso a Odessa.
Inoltre,
le elezioni si sono tenute alla presenza in territorio ucraino di
personale militare e di intelligence degli Stati Uniti con il compito di
coordinare la repressione con le autorità di Kiev, nonché nel pieno di
un’escalation militare americana e della NATO rivolta contro la Russia
che ha interessato svariati paesi dell’ex blocco sovietico e le acque
del Mar Nero.
Il voto, infine, è stato sostanzialmente boicottato
dalle popolazioni dell’Ucraina orientale, in larghissima misura ostili
al nuovo regime di Kiev, nonostante la propaganda ufficiale descriva i
disordini in corso come opera di un ristretto numero di separatisti
sostenuti da Mosca se non addirittura “terroristi”.
La
repressione in atto, in ogni caso, non è diretta solo contro i
“filo-russi” ma serve anche a rafforzare il governo e a intimidire tutta
la popolazione in vista dell’implementazione delle misure di
liberalizzazione dell’economia richieste come condizione per il prestito
da 17 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale.
Alle
consuete devastanti “riforme” ha fatto riferimento lo stesso Obama
nella dichiarazione rilasciata per salutare il successo di Poroshenko.
Quest’ultimo, a sua volta, già domenica aveva prospettato iniziative per
creare un “ottimo clima per gli investimenti” e ogni altra misura
“necessaria ad attirare il business”, presumibilmente inclusa la
repressione violenta ai danni dei ribelli anti-governativi.
Sugli
effetti delle ricette imposte dal Fondo Monetario e dall’Occidente
sembra puntare la Russia, apparsa in questi giorni tutt’altro che
intenzionata a forzare la mano nonostante le promesse di Putin di agire
in caso di violenze ai danni della minoranza russofona in Ucraina.
In
definitiva, le tensioni sociali che saranno provocate, tra l’altro,
dall’aumento delle tariffe energetiche, dalla fine dei sussidi statali o
dalle privatizzazioni delle compagnie pubbliche - vale a dire tutto ciò
che la partnership con l’Unione Europea porterà in dono agli ucraini -
potrebbero fare il gioco del Cremlino, provocando nuove proteste contro
le autorità di Kiev nel prossimo futuro e, possibilmente, un nuovo
riavvicinamento a Mosca.
La Russia, d’altra parte, ha lanciato
più di un segnale di disponibilità a cercare un accomodamento con il
nuovo regime di Kiev e con l’Occidente, come conferma la decisione di
riconoscere il voto di domenica scorsa e le aperture verso Poroshenko.
Putin si trova tuttavia sotto pressione vista la mano pesante mostrata
dal governo ucraino nei confronti dei ribelli.
I
leader di questi ultimi nella cosiddetta Repubblica Popolare di
Donetsk, proclamata dopo il referendum sull’autodeterminazione dell’11
maggio, hanno infatti chiesto disperatamente l’aiuto di Mosca per
fronteggiare gli assalti di Kiev. Il Cremlino, però, a parte le
richieste ufficiali di mettere fine alle operazioni militari per
lasciare spazio al dialogo, continua a mostrare poco interesse per
un’iniziativa simile a quella messa in atto in Crimea o per un qualche
coinvolgimento oltreconfine.
La conferma di questa attitudine
russa è giunta ancora mercoledì, quando il braccio destro di Putin, Yuri
Ushakov, ha sostenuto di non avere ricevuto nessuna richiesta d’aiuto
ufficiale dalla Repubblica Popolare di Donetsk. Sempre mercoledì, però,
il ministero degli Esteri russo ha fatto sapere di avere ricevuto
richieste urgenti di aiuti umanitari da “persone e organizzazioni nelle
aree interessate dal conflitto in Ucraina orientale” e ha promesso che
il governo di Mosca intende agire in risposta a questo appello.
L’evoluzione
della crisi ucraina svela comunque per l’ennesima volta la vera faccia
dell’interventismo dei governi occidentali, interessati a promuovere
“rivoluzioni democratiche” o a difendere i “diritti umani” solo quando
in gioco ci sono i loro interessi strategici, senza alcuno scrupolo
nell’assecondare - come nel caso ucraino - massacri di civili per mano
di forze neo-fasciste e regimi golpisti o - come in Libia e in Siria -
nell’appoggiare più o meno tacitamente organizzazioni legate al
terrorismo internazionale.
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