E non stiamo alle solite promesse, perché qualcosa di sostanzioso – anzi di decisivo – è già stato realizzato dal duo Renzi-Poletti. L'anticipo di jobs act rappresentato dalla “riforma” dei contratti a termine e dell'apprendistato è di un'importanza tale che Confindustria dice fin d'ora: inutile fare il contratto unico a tutele crescenti (la vecchia proposta di Pietro Ichino, “ormai superata”), ci basta e avanza quel che già ci avete dato. Le cose da aggiungere ormai sono altre.
L'editoriale di Alberto Orioli, sul IlSole24Ore di oggi, è una sintesi horror di quel che ha in testa l'imprenditore medio italiano, di quello che passa nei neuroni del governo e del futuro di questo paese. Dismessa ogni remora, è tutto un fiorire di sepolture. Addio al mondo dei diritti del lavoro (“una nuvola di diritti, garanzie e procedure astratti e non come un'attività di persone in carne e ossa che dal lavoro devono trarre identità sociale e reddito”), alla rappresentanza sociale e sindacale dei lavoratori, alla contrattazione (sostituita dalla “sperimentazione del salario minimo orario stabilito per legge” e ridotta alla sola dimensione aziendale), agli ammortizzatori sociali, ecc.
L'idea è semplicissima: esiste solo l'impresa, tutto nasce e muore con lei. Il lavoro “non dipende dalle regole”, ma dalla loro assenza. Si evoca persino l'immaginario postmoderno e “il popolo delle partite Iva” per giustificare – sul piano politico e valoriale – un mondo fatto di rapporti di lavoro usa-e-getta. Perché tanto “Non ho mai visto imprenditori ansiosi di poter licenziare i propri dipendenti per capriccio”, garantisce il neoministro Guidi, casualmente ex presidente dei giovani industriali, qualche anno fa.
Per capriccio magari no, ma per stabilire chi comanda in fabbrica certamente sì. E tutto il nuovo assetto regolativo dei rapporti di lavoro dovrebbe essere, in questa logica, orientato esclusivamente alla “massima valorizzazione del capitale umano”, perché – ci sembra la prima volta che un imprenditore lo dice così chiaramente – «il capitale umano è la ricchezza più grande che noi imprenditori abbiamo».
Qui conviene uscire dalla retorica industriale e andare al sodo. In effetti è vero: “il capitale umano è la ricchezza più grande che noi imprenditori abbiamo”. Spremerlo al meglio è l'unica possibilità di essere “competitivi”. L'unico equivoco da evitare riguarda la “valorizzazione” di questo capitale. Che non è, come qualche cervello spento prova a spiegare, un “riconoscimento delle competenze individuali” (c'è anche questo, naturalmente; anzi, è la premessa necessaria per poter spremere al meglio ogni singolo “collaboratore”), ossia una valorizzazione delle individualità. Ma il suo esatto opposto: la messa a valore di quelle competenze per estrarne il massimo della profittabilità. Finché dura e poi via. In fondo “noi imprenditori” non siamo mica sposati a vita con i nostri dipendenti... (sembra di risentire Marlon Brando in Queimada).
La lista dei desiderata di Confindustria, dunque, si accorcia a poche cose decisamente fattibili con poco sforzo legislativo (e pesanti ricadute sulla redistribuzione delle poche risorse pubbliche), soprattutto in ambito fiscale. Ma l'obiettivo finale, addirittura epocale, è perfettamente condiviso: disintermediare la società, costringere i singoli a misurarsi individualmente col datore di lavoro e subirne perciò tutt'intero il potere vessatorio.
Benvenuti in America! Scusa, ma dove hai lasciato la valigia di cartone?
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Il test di riformismo e la sfida ai sindacati
di Alberto Orioli
Ha ragione Matteo Renzi quando parla del lavoro come della «madre di tutte le battaglie». Perché è il lavoro il tema che più definisce il profilo riformista di un governo. Soprattutto perché è venuto il tempo di uscire dall'astrattezza – tutta ad uso politico – del considerarlo come una nuvola di diritti, garanzie e procedure astratti e non come un'attività di persone in carne e ossa che dal lavoro devono trarre identità sociale e reddito.
La priorità dev'essere la creazione del lavoro di cui oggi c'è scarsità e la sua remunerazione. Non la regolazione dei rapporti di lavoro, che è questione successiva ed è stata per troppo tempo una coltre soffocante e ingannatrice sulle reali priorità. Vedremo se lo slogan di Renzi troverà una prima applicazione razionale nel Ddl delega per il riordino degli ammortizzatori sociali, per la creazione dell'Agenzia nazionale per l'impiego e per l'introduzione del contratto unico a tutele crescenti e per la sperimentazione del salario minimo orario stabilito per legge.
Non sono le regole a fare il lavoro ma – come ha detto ieri il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi – «con regole sbagliate lo si può distruggere». Oggi serve lavoro in grado di valorizzare al massimo il capitale umano dell'Italia, anche perché la concorrenza della conoscenza sta arrivando, oltre che dai Paesi tradizionalmente competitor del nostro, anche dai Paesi emergenti ormai in grado di offrire lavori anche molto qualificati a costi imbattibili (ma a remunerazione vicina agli standard del mercato). Flessibilità e qualità del lavoro sono dunque prioritari: l'opera di semplificazione e di allungamento dei contratti a termine senza causale svolta dal decreto Poletti è stata meritoria e, ancora ieri all'assemblea annuale degli industriali, è stata salutata come un grande passo riformista. Ci si aspetta che "restituisca" al mercato molti nuovi posti di lavoro certo non ascrivibili alla cosiddetta area della precarietà. Con quella norma ha perso di senso – perché superata – anche la discussione sul contratto unico a tutele crescenti.
Il lavoro è stato per troppo tempo disegnato sui "faticatori ottocenteschi" – come diceva sempre anche Gino Giugni – archetipo utile alle ideologie comuniste o socialiste centrate su un'idea di giustizia sociale, di contenimento del sopruso, di divisibilità del lavoro che, col tempo, realizzati alcuni grandi e nobili traguardi, hanno sviato negli ultimi decenni la discussione dai ritmi e dai temi del progresso tumultuoso delle tecnologie. Che, tra l'altro, hanno trasformato sempre più il lavoro da subordinato ad autonomo fino a farlo diventare esso stesso impresa (come accade per i cosiddetti makers della "generazione start up"). Una tendenza che, nel medio periodo, porrà anche un serio problema di rappresentanza sociale.
Cosa debba essere l'Italia del lavoro tra cinque o dieci anni coincide con cosa si vuole che sia l'Italia dell'industria alla stessa altezza di tempo: i due temi sono uno solo anche perché – come hanno detto ieri sia Squinzi sia il ministro Federica Guidi – «l'occupazione la fanno le aziende, le fabbriche». Quindi è fondamentale azionare le politiche dei fattori (dal fisco all'energia, dal credito alla ricerca scientifica e al trasferimento tecnologico) in modo che siano tutte orientate all'innovazione, agli investimenti e allo sviluppo imprenditoriale.
Non è solo questione di rendere più semplici i licenziamenti per superare l'antico timore dell'imprenditore che non vuole rischiare il "matrimonio a vita" con i propri dipendenti; né è solo questione di incentivare questa o quella modalità di assunzione. «Non ho mai visto un imprenditore fare un'assunzione solo sulla base di un incentivo. Né ho mai visto imprenditori ansiosi di poter licenziare i propri dipendenti per capriccio» ha detto Guidi.
Il presidente della Confindustria aveva poco prima spiegato con chiarezza che «il capitale umano è la ricchezza più grande che noi imprenditori abbiamo». Se il lavoro è il mezzo con cui si massimizza il capitale umano ciò mette in gioco le politiche di istruzione e formazione, ma naturalmente anche quella della corretta remunerazione di quel capitale. Per questa strada si arriva all'urgenza di ridurre ancora di più il peso del cuneo fiscale e parafiscale sul lavoro italiano a tempo indeterminato (perché come è oggi risulta spiazzato dai costi dei concorrenti, se è di 10 punti sopra la media Ue e di 17 su quella dei Paesi Ocse) e alla necessità di ancorare con maggiore precisione le retribuzioni alla produttività e al merito. La prima condizione è appannaggio delle politiche fiscali del Governo, la seconda è propria della dialettica tra le parti sociali sottesa alla contrattazione.
Dalla relazione del presidente della Confindustria è uscita una sfida aperta e positiva al mondo sindacale per un drastico cambio di agenda, secondo i ritmi che ormai sono i ritmi (incalzanti) del mondo intero: non liturgie negoziali, ma una diffusione veloce di intese di secondo livello sul salario di produttività.
La concertazione è pratica che il Governo ha archiviato e, anzi, nell'impeto di disintermediazione della società, l'Esecutivo rischia di gettare oltre all'acqua sporca dei veti paralizzanti, anche il bambino della coesione sociale.
Lo spazio per il dialogo tra imprese e sindacati non può che essere quello di una contrattazione baricentrata sui luoghi di lavoro, più moderna, più "liberale" e meno massimalista. Altrimenti toccherà al Governo stabilire forme di incentivazione del salario di merito che finirà con l'essere elargito unilateralmente dall'impresa. Sarà anche questo un modo per disintermediare la società. L'altro potrebbe essere il salario minimo orario definito per legge, ma non a caso di questo non hanno parlato né Squinzi, né Guidi. Sarebbe un modo per superare di fatto i contratti nazionali, forse un passaggio ancora un po' troppo prematuro (anche perché lascerebbe all'attore politico uno spazio di discrezionalità molto ampio).
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