27/05/2014
L'Unione senza l'Europa
Il giorno dopo si ragiona meglio. Il quadro è più completo, le aspettative e le incazzature lasciano il posto a una valutazione più “soppesata”.
Le elezioni sono state un mega-sondaggio sul rapporto che i cittadini d'Europa intrattengono con l'Unione Europea, lo stato multinazionale in costruzione al di fuori di ogni loro possibile controllo. Tutto infatti resta affidato alla concertazione intergovernativa, quindi dei paesi economicamente più forti, ma soprattutto alla pressione dei “mercati”.
A livello d'insieme, il sondaggio ha mostrato un Continente diviso in “nazioni”, preoccupato del futuro dipinto dai tecnocrati di Bruxelles e – per mancanza di alternative chiare – tentato dal semplice ritorno al nazionalismo. Lo avevano in qualche modo dimostrato le campagne elettorali di tutti i partiti, in ogni paese, incentrate esclusivamente sui problemi e le dinamiche interne, anziché su quelle comunitarie. Gli unici paesi relativamente stabili sono la Germania, come ampiamente previsto, e l'Italia renziana (molto a sorpresa).
Nel complesso, dunque, l'Europa non c'è come “spirito pubblico”, mentre esiste una Unione Europea fin qui arcigna custode di regole e conti che non tornano più. Tra le due entità si è manifestata una faglia che si va allargando. Non ancora una frattura irrecuperabile, ma qualcosa in più dell'espressione di un “malessere”. E la retorica europeista degli spot istituzionali – quelli che mettevano in evidenza solo gli indubbi lati positivi della libera circolazione delle persone “ben inserite” (dagli studenti ai professionisti, dalle imprese ai turisti, ecc), mentre dimenticavano completamente i disastri materiali provocati sia dalla crisi che dalla sua gestione “differenziante” – non basta più a far da collante.
Le preoccupazioni espresse immediatamente da Barroso (presidente uscente della Commissione) sono ben più realistiche dell'ottimismo di facciata sparso dai media mainstream italiani. Con le politiche fin qui adottate la “costruzione europea” è a rischio. Quella costruzione aveva due pilastri fondamentali: Francia e Germania. La prima è in frantumi, avendo subito tutti gli svantaggi della costruzione comune; la seconda è relativamente stabile solo perché ha beneficiato in modo clamoroso della sua posizione “centrale” sul piano produttivo, manifatturiero, finanziario e monetario. Ma anche qui qualche scricchiolio si è avvertito, con i centristi anti-euro di Alternative fur Deutschland arrivati al 7%.
Dagli altri paesi – anche senza calcolare l'evidente fuga transatlantica della Gran Bretagna, da sempre ostile all'integrazione effettiva col resto d'Europa – sono arrivati segnali univoci: così non si va avanti. E i governi in carica hanno dappertutto pagato dazio alle misure di austerità imposte a schiaffi, ricatti e manganellate in piazza. Le contromisure, da spacciare come “riforme” dei trattati europei sono già in via di definizione. È più che probabile un innalzamento di alcuni dei parametri di Maastricht (in primo luogo quel ridicolo 3% nel rapporto tra deficit e Pil). Ma intanto si è approvato un trucco statistico-contabile di immense proporzioni: da ottobre si quest'anno tra i fattori economici validi per il calcolo del Pil di un paese saranno compresi anche “attività economiche” come la prostituzione, lo spaccio di droga e il contrabbando. Una dose incredibile di droga “statistica” per un paese come l'Italia, dove queste voci sono stimate intorno al 27% del Pil (senza calcolare le ricadute da “indotto” su buona parte dell'economia sommersa). E contribuiranno, dunque, ad abbassare sia il rapporto deficit/Pil che quello tra debito e Pil. Un “successo economico” straordinario senza aver toccato alcunché nella struttura profonda del paese. Resta il problema di far pagare le tasse alle varie mafie e ai “papponi”, ma basterà attingere alle legislazioni di altri paesi Ue per raccogliere qualche risultato “vendibile” al grande pubblico.
Un “regalo” dell'Unione Europea che non costa nulla alla Ue. L'Italia non è la Grecia. Il costo di un suo eventuale salvataggio sarebbe insostenibile. Ed anche quello di un “sostegno” in un passaggio difficile sarebbe molto oneroso per le non brillanti finanze comunitarie. Meglio agevolare la revisione dei conti con un po' di “statistica creativa”, poi si vedrà.
L'Italia, in questa tornata elettorale, fa dunque eccezione. Qui è in corso un'operazione reazionaria assai più complessa, quasi da manuale. Il governo Renzi era troppo recente per poter essere riconosciuto colpevole delle peggiorate condizioni di vita e lavoro. Nonostante la sua perfetta continuità con i governi precedenti – sia “politici” che “tecnici” – ha giocato con spregiudicatezza la carta della “rottamazione” delle vecchie facce dell'establishment per mantenere al posto di comando esattamente gli stessi assetti di potere. Un'operazione di chirurgia estetica fondata su uno sforzo comunicativo eccezionale per dimensioni, intensità, capacità innovativa.
Sembra l'eterno ritorno del pessimo destino italiota: tutto deve cambiare perché tutto resti uguale. Lo scambio tra figura e sfondo – tra “facce” e assetti di potere – è riuscito ancora una volta. Una parte considerevole del blocco sociale ex berlusconiano ha piantato le tende in campo renziano, dando dimensioni “eccezionali” a una vittoria giocata sullo stesso campo degli avversari più temuti, i grillini. Stesso “tutti a casa”, stesso giovanilismo esteriore, stesse incompetenze messe davanti alle telecamere. Ma nel primo caso c'è stata una regia ferrea, “rassicurante”, di potere e per il potere, con un progetto chiaro (le riforme anticostituzionali e la dissoluzione delle regole del mercato del lavoro, la blindatura della rappresentanza politica e sindacale). Dall'altra un agitarsi alla giornata, ondivago e verboso, che ha conquistato meno cuori di quante menti è riuscito a inquietare. E molti di quelli che lo avevano sostenuto nella prima ondata sono tornati all'astensionismo indifferente.
Resta per noi una domanda: come mai in questo paese il peggioramento evidente delle condizioni di vita non si traduce in opposizione palese - persino elettorale - al governo e all'Unione Europea?
Lasciamo per un attimo da parte ogni considerazione sui deficit spaventosi della “soggettività” antagonista e/o radicale, dispersa in mille gocce di “estraneità” più che di “opposizione” razionale. C'è da fare i conti con una struttura sociale che tutti conosciamo ma che abbiamo studiato davvero poco. Incluso quel 27% di Pil fantasma che fin qui non lascia tracce cartacee ma che ha un effetto reale sulla ricchezza disponibile e la struttura dei redditi.
C'è inoltre da considerare che una buona parte della popolazione mette ancora insieme redditi “spurii”, cioè provenienti da fonti diverse: case di proprietà, risparmio investito in titoli di stato, lavoro nero che affianca quello ufficiale, ecc. Oltre a una “flessibilità” comportamentale che permette di adottare strategie di sopravvivenza più o meno complesse (dalla “riscoperta della coabitazione” all'utilizzo dei pensionati come ammortizzatore sociale familiare).
Di fatto, la crisi ha fin qui “asfaltato” in modo selettivo, colpendo soprattutto i percettori di un solo reddito: quello da lavoro, in primo luogo dipendente, ma non esclusivamente questo. “Persone” che sono, si sentono e rappresentano come singoli, privi di coperture e sostegno “spurio”, che fanno fatica a trovare altri nelle stesse condizioni, a coalizzarsi e organizzarsi collettivamente. Una condizione che istiga al suicidio, più che alla lotta. Mentre nella maggioranza della popolazione che stringe la cinghia prevale ancora un atteggiamento alla “io speriamo che me la cavo”, dove la riduzione delle entrate è affrontata con la contrazione dei consumi e l'erosione del “patrimonio”; oltre che con la disponibilità al lavoro senza regole e tutele.
Se così è, la stessa forza politica di Renzi è altamente volatile. Regge sulla eventuale disponibilità tedesca ad allentare alcuni parametri e su questo fronte potrà farsi forte della debolezza francese (e spagnola). Si glorierà del miglioramento statistico dei conti truccati. Ma resta in balia di una crisi globale che non passa e che sta per celebrare l'ingresso nell'ottavo anno consecutivo (tra pochi “alti” e paurosi “bassi”).
Di sicuro, il “nuovo” potere andrà avanti come un treno inarrestabile. O almeno ci proverà. Il “semestre europeo” a guida Renzi è da questo punto di vista sia un banco di prova sia un'assicurazione contro “nervosismi” interni al blocco dominante.
È anche il nostro banco di prova. La sinistra antagonista può e deve animare un “controsemestre”, avendo chiare le opportunità e i rapporti di forza contingenti. A noi sembra chiaro, comunque, che un'epoca è definitivamente chiusa. Siamo già in un contesto post-costituzionale e ben poco “democratico”. I margini che tutti abbiamo utilizzato per anni a favore di una conflittualità politica, sociale, sindacale anche pulviscolare non sono più “garantiti”.
L'epoca del “piccolo è bello” non è finita solo per il modello produttivo italiano. E' finita anche per le forze antagoniste l'idea dell'autosufficienza di ogni struttura (politica, sindacale, di movimento). Questo non è un “appello all'unità”. È la constatazione di uno stato di fatto. La via della cooperazione nel conflitto sociale è senza alternative.
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