di Michele Paris
Dopo il
successo elettorale riconosciuto ufficialmente qualche giorno fa, il
Partito Popolare Indiano (BJP, Bharatiya Janata Party) ha visto il
proprio leader, Narendra Modi, ottenere la nomina a primo ministro dal
presidente Pranab Mukherjee. Il partito suprematista indù ha
insolitamente conquistato la maggioranza assoluta dei seggi della camera
bassa (“Lok Sabha”) del Parlamento indiano, consentendo al nuovo
governo di imporre un’agenda politica basata su una serie di “riforme”
ultraliberiste che smaschereranno in fretta la retorica populista
adottata durante la campagna elettorale appena conclusa.
I 282
seggi ottenuti sui 543 complessivi dal BJP sono principalmente il
risultato dell’avversione diffusa tra l’elettorato indiano nei confronti
del Partito del Congresso, correttamente ritenuto responsabile della
situazione in cui versa ancora la grandissima maggioranza della
popolazione, costretta a fare i conti con povertà endemica,
disoccupazione, corruzione, clientelismo, inflazione alle stelle e
crescenti disparità sociali.
La misura della vittoria del partito
di Modi è però soprattutto il risultato del sistema elettorale
maggioritario indiano, visto che complessivamente il BJP ha ottenuto 172
milioni di voti - pari ad appena il 31% dei consensi espressi - in un
paese che conta 1,2 miliardi di abitanti. Il numero dei voti è comunque
più del doppio rispetto a quello fatto registrare dal partito nel 2009 e
quest’ultimo ha inflitto al Partito del Congresso di Sonia Gandhi la
sconfitta più pesante della propria storia (19,3%, 44 seggi).
Il
vero entusiasmo per il BJP in India, in sostanza, lo si è visto non
tanto tra i ceti più poveri, bensì tra i vertici delle grandi aziende,
tra la borghesia urbana e negli ambienti del fondamentalismo indù dove
Modi ha mosso i primi passi della sua folgorante carriera politica. Il
business indiano, infatti, così come gli ambienti finanziari
internazionali, aveva da tempo scaricato il Partito del Congresso,
ritenuto incapace di implementare le “riforme” di libero mercato
richieste di fronte alla resistenza manifestata dalla sua base
elettorale.
In cima alla lista dei provvedimenti che il nuovo
governo sarà chiamato ad adottare ci sono misure estremamente
impopolari, come la soppressione dei sussidi energetici pubblici, la
flessibilizzazione del mercato del lavoro, le privatizzazioni, il
passaggio ad una tassazione regressiva che favorirà i redditi più alti e
la fine delle restrizione all’afflusso di capitali stranieri, il tutto
nascosto dietro a proclami che prospettano iniziative per rinvigorire la
crescita economica e la creazione di posti di lavoro.
Questa
agenda era stata fondamentalmente accettata anche dal Partito del
Congresso. Il suo governo, agli inizi degli anni Novanta, aveva peraltro
già inaugurato la svolta neo-liberista che avrebbe gettato le basi per
la trasformazione dell’India in un serbatoio di manodopera a basso costo
per il capitale internazionale. Ma la sua implementazione è stata
giudicata troppo lenta e incerta di fronte agli affanni dell’economia
domestica.
Inoltre, il Partito della dinastia Gandhi ha avuto la
colpa di continuare ad impiegare una certa retorica progressista,
promettendo di allargare le maglie del welfare indiano e di aumentare la
spesa pubblica per finanziare programmi contro la povertà.
In un
clima internazionale profondamente mutato dopo la crisi finanziaria
globale del 2008 e con l’acuirsi della competizione sui mercati
internazionali, Narendra Modi e il BJP sono stati visti come gli
strumenti più adatti per procedere con la terapia d’urto voluta dalla
borghesia indiana.
All’interno
del nuovo partito di governo c’è comunque una chiara percezione delle
tensioni sociali che genereranno le politiche dei prossimi mesi, tanto
che lo stesso Modi nella giornata di martedì ha ritenuto di doversi
presentare in Parlamento come l’uomo dei poveri. Il premier in pectore
ha affermato che la sua azione di governo sarà a favore “delle aree
rurali, dei contadini, degli intoccabili, dei più deboli…” e la priorità
sarà “la soddisfazione delle aspirazioni e delle speranze dei poveri”.
In
realtà, quelle che attendono l’India saranno politiche di classe
pressoché interamente orientate alla promozione del business e fatte di
attacchi alle classi più povere. A confermarlo subito dopo la diffusione
dei risultati delle elezioni è stato ad esempio il leader del BJP,
Subramanian Swamy, il quale in un’intervista al quotidiano The Hindu
ha prospettato la fine dei sussidi statali per i beni alimentari e le
forniture di energia, la vendita di beni pubblici e delle risorse
naturali, l’abolizione delle imposte sul reddito. Secondo Swamy, non
sarebbe stato possibile discutere di simili idee “rivoluzionarie” in
campagna elettorale, poiché il suo partito sarebbe stato accusato di
essere “a favore dei ricchi”.
Alcune di queste ricette sono
ricalcate su quelle adottate negli ultimi anni nello stato indiano di
Gujarat, guidato proprio da Narendra Modi. Il modello Gujarat viene
infatti esaltato per il clima estremamente favorevole al business e la
drammatica compressione dei diritti dei lavoratori. Un modello di
contenimento delle tensioni sociali basato anche sull’incoraggiamento
del nazionalismo indù, sfociato nei pogrom anti-musulmani del 2002 che
fecero centinaia di vittime e per i quali Modi viene da molti ritenuto
in parte responsabile.
Proprio in relazione agli eventi del 2002,
Modi era stato al centro di una controversia con il governo degli Stati
Uniti, il quale nel 2005 gli aveva negato un visto di ingresso. Da
quando Modi è stato selezionato dal suo partito come candidato premier e
in seguito alla diffusione dei primi sondaggi che davano quasi certa
una vittoria del BJP nelle elezioni, l’amministrazione Obama ha però
lanciato più di un segnale di distensione, mostrandosi pronta a
dimenticare il suo coinvolgimento nei crimini contro la minoranza
musulmana nello stato di Gujarat.
Il tentativo americano di
coinvolgere in maniera definitiva l’India nei propri disegni anti-cinesi
nel continente asiatico dovrebbe infatti trovare un alleato più sicuro
nel prossimo premier. Modi, d’altra parte, è stato protagonista in
campagna elettorale di svariate dichiarazioni incendiarie contro i
vicini dell’India, a cominciare proprio dalla Cina. Nel mese di
febbraio, ad esempio, nel corso di una visita nello stato di Arunachal
Pradesh, dove una parte del territorio di confine viene rivendicata da
Pechino, aveva affermato che la Cina deve “rinunciare alle proprie
attitudini espansioniste”.
Questa
settimana, poi, il segretario di Stato americano, John Kerry, si è
complimentato con il leader del BJP già sulla lista nera di Washington,
definendo significativamente la partnership degli USA con l’India come
“assolutamente vitale”. Inoltre, lo stesso presidente Obama la settimana
scorsa aveva invitato Modi alla Casa Bianca “alla prima occasione”.
Anche
l’altro caposaldo dell’arco di alleanze americane in Asia - il governo
giapponese - ha mostrato apprezzamento nei confronti di Modi nei giorni
scorsi. Il primo ministro di estrema destra, Shinzo Abe, ha affermato
che i rapporti tra India e Giappone hanno “il più grande potenziale di
sviluppo di qualsiasi altra relazione bilaterale nel pianeta”.
Dalla
Cina e dal Pakistan, in ogni caso, non sono giunte per ora reazioni
particolari al successo elettorale del BJP, a parte dichiarazioni
ufficiali che esprimono meccanicamente la disponibilità a lavorare con
il nuovo primo ministro.
Lo stesso Modi ha però invitato a Delhi
il premier pakistano, Nawaz Sharif, in occasione del suo insediamento
previsto per lunedì prossimo, mentre un think tank cinese ha salutato il
prossimo capo di governo indiano come il “Nixon indiano”, in
riferimento al cambiamento prodotto negli equilibri internazionali dopo
la visita dell’ex presidente americano a Pechino nel 1972.
Modi,
d’altra parte, ha già visitato la Cina in tre occasioni durante il suo
incarico di primo ministro del Gujarat, principalmente per promuovere
gli scambi commerciali tra il vicino settentrionale e il suo stato.
Sulle
relazioni economiche sembra porre ora l’accento anche la dirigenza
cinese per mantenere buoni rapporti con Delhi, ma la svolta verso destra
del governo entrante di Narendra Modi e l’inasprirsi della rivalità con
gli Stati Uniti e i loro alleati in Asia promettono più di una
scintilla sul fronte diplomatico tra i due paesi più popolosi del
pianeta.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento