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23/05/2014

India, la rivoluzione di Modi

di Michele Paris

Dopo il successo elettorale riconosciuto ufficialmente qualche giorno fa, il Partito Popolare Indiano (BJP, Bharatiya Janata Party) ha visto il proprio leader, Narendra Modi, ottenere la nomina a primo ministro dal presidente Pranab Mukherjee. Il partito suprematista indù ha insolitamente conquistato la maggioranza assoluta dei seggi della camera bassa (“Lok Sabha”) del Parlamento indiano, consentendo al nuovo governo di imporre un’agenda politica basata su una serie di “riforme” ultraliberiste che smaschereranno in fretta la retorica populista adottata durante la campagna elettorale appena conclusa.

I 282 seggi ottenuti sui 543 complessivi dal BJP sono principalmente il risultato dell’avversione diffusa tra l’elettorato indiano nei confronti del Partito del Congresso, correttamente ritenuto responsabile della situazione in cui versa ancora la grandissima maggioranza della popolazione, costretta a fare i conti con povertà endemica, disoccupazione, corruzione, clientelismo, inflazione alle stelle e crescenti disparità sociali.

La misura della vittoria del partito di Modi è però soprattutto il risultato del sistema elettorale maggioritario indiano, visto che complessivamente il BJP ha ottenuto 172 milioni di voti - pari ad appena il 31% dei consensi espressi - in un paese che conta 1,2 miliardi di abitanti. Il numero dei voti è comunque più del doppio rispetto a quello fatto registrare dal partito nel 2009 e quest’ultimo ha inflitto al Partito del Congresso di Sonia Gandhi la sconfitta più pesante della propria storia (19,3%, 44 seggi).

Il vero entusiasmo per il BJP in India, in sostanza, lo si è visto non tanto tra i ceti più poveri, bensì tra i vertici delle grandi aziende, tra la borghesia urbana e negli ambienti del fondamentalismo indù dove Modi ha mosso i primi passi della sua folgorante carriera politica. Il business indiano, infatti, così come gli ambienti finanziari internazionali, aveva da tempo scaricato il Partito del Congresso, ritenuto incapace di implementare le “riforme” di libero mercato richieste di fronte alla resistenza manifestata dalla sua base elettorale.

In cima alla lista dei provvedimenti che il nuovo governo sarà chiamato ad adottare ci sono misure estremamente impopolari, come la soppressione dei sussidi energetici pubblici, la flessibilizzazione del mercato del lavoro, le privatizzazioni, il passaggio ad una tassazione regressiva che favorirà i redditi più alti e la fine delle restrizione all’afflusso di capitali stranieri, il tutto nascosto dietro a proclami che prospettano iniziative per rinvigorire la crescita economica e la creazione di posti di lavoro.

Questa agenda era stata fondamentalmente accettata anche dal Partito del Congresso. Il suo governo, agli inizi degli anni Novanta, aveva peraltro già inaugurato la svolta neo-liberista che avrebbe gettato le basi per la trasformazione dell’India in un serbatoio di manodopera a basso costo per il capitale internazionale. Ma la sua implementazione è stata giudicata troppo lenta e incerta di fronte agli affanni dell’economia domestica.

Inoltre, il Partito della dinastia Gandhi ha avuto la colpa di continuare ad impiegare una certa retorica progressista, promettendo di allargare le maglie del welfare indiano e di aumentare la spesa pubblica per finanziare programmi contro la povertà.

In un clima internazionale profondamente mutato dopo la crisi finanziaria globale del 2008 e con l’acuirsi della competizione sui mercati internazionali, Narendra Modi e il BJP sono stati visti come gli strumenti più adatti per procedere con la terapia d’urto voluta dalla borghesia indiana.

All’interno del nuovo partito di governo c’è comunque una chiara percezione delle tensioni sociali che genereranno le politiche dei prossimi mesi, tanto che lo stesso Modi nella giornata di martedì ha ritenuto di doversi presentare in Parlamento come l’uomo dei poveri. Il premier in pectore ha affermato che la sua azione di governo sarà a favore “delle aree rurali, dei contadini, degli intoccabili, dei più deboli…” e la priorità sarà “la soddisfazione delle aspirazioni e delle speranze dei poveri”.

In realtà, quelle che attendono l’India saranno politiche di classe pressoché interamente orientate alla promozione del business e fatte di attacchi alle classi più povere. A confermarlo subito dopo la diffusione dei risultati delle elezioni è stato ad esempio il leader del BJP, Subramanian Swamy, il quale in un’intervista al quotidiano The Hindu ha prospettato la fine dei sussidi statali per i beni alimentari e le forniture di energia, la vendita di beni pubblici e delle risorse naturali, l’abolizione delle imposte sul reddito. Secondo Swamy, non sarebbe stato possibile discutere di simili idee “rivoluzionarie” in campagna elettorale, poiché il suo partito sarebbe stato accusato di essere “a favore dei ricchi”.

Alcune di queste ricette sono ricalcate su quelle adottate negli ultimi anni nello stato indiano di Gujarat, guidato proprio da Narendra Modi. Il modello Gujarat viene infatti esaltato per il clima estremamente favorevole al business e la drammatica compressione dei diritti dei lavoratori. Un modello di contenimento delle tensioni sociali basato anche sull’incoraggiamento del nazionalismo indù, sfociato nei pogrom anti-musulmani del 2002 che fecero centinaia di vittime e per i quali Modi viene da molti ritenuto in parte responsabile.

Proprio in relazione agli eventi del 2002, Modi era stato al centro di una controversia con il governo degli Stati Uniti, il quale nel 2005 gli aveva negato un visto di ingresso. Da quando Modi è stato selezionato dal suo partito come candidato premier e in seguito alla diffusione dei primi sondaggi che davano quasi certa una vittoria del BJP nelle elezioni, l’amministrazione Obama ha però lanciato più di un segnale di distensione, mostrandosi pronta a dimenticare il suo coinvolgimento nei crimini contro la minoranza musulmana nello stato di Gujarat.

Il tentativo americano di coinvolgere in maniera definitiva l’India nei propri disegni anti-cinesi nel continente asiatico dovrebbe infatti trovare un alleato più sicuro nel prossimo premier. Modi, d’altra parte, è stato protagonista in campagna elettorale di svariate dichiarazioni incendiarie contro i vicini dell’India, a cominciare proprio dalla Cina. Nel mese di febbraio, ad esempio, nel corso di una visita nello stato di Arunachal Pradesh, dove una parte del territorio di confine viene rivendicata da Pechino, aveva affermato che la Cina deve “rinunciare alle proprie attitudini espansioniste”.

Questa settimana, poi, il segretario di Stato americano, John Kerry, si è complimentato con il leader del BJP già sulla lista nera di Washington, definendo significativamente la partnership degli USA con l’India come “assolutamente vitale”. Inoltre, lo stesso presidente Obama la settimana scorsa aveva invitato Modi alla Casa Bianca “alla prima occasione”.

Anche l’altro caposaldo dell’arco di alleanze americane in Asia - il governo giapponese - ha mostrato apprezzamento nei confronti di Modi nei giorni scorsi. Il primo ministro di estrema destra, Shinzo Abe, ha affermato che i rapporti tra India e Giappone hanno “il più grande potenziale di sviluppo di qualsiasi altra relazione bilaterale nel pianeta”.

Dalla Cina e dal Pakistan, in ogni caso, non sono giunte per ora reazioni particolari al successo elettorale del BJP, a parte dichiarazioni ufficiali che esprimono meccanicamente la disponibilità a lavorare con il nuovo primo ministro.

Lo stesso Modi ha però invitato a Delhi il premier pakistano, Nawaz Sharif, in occasione del suo insediamento previsto per lunedì prossimo, mentre un think tank cinese ha salutato il prossimo capo di governo indiano come il “Nixon indiano”, in riferimento al cambiamento prodotto negli equilibri internazionali dopo la visita dell’ex presidente americano a Pechino nel 1972.

Modi, d’altra parte, ha già visitato la Cina in tre occasioni durante il suo incarico di primo ministro del Gujarat, principalmente per promuovere gli scambi commerciali tra il vicino settentrionale e il suo stato.

Sulle relazioni economiche sembra porre ora l’accento anche la dirigenza cinese per mantenere buoni rapporti con Delhi, ma la svolta verso destra del governo entrante di Narendra Modi e l’inasprirsi della rivalità con gli Stati Uniti e i loro alleati in Asia promettono più di una scintilla sul fronte diplomatico tra i due paesi più popolosi del pianeta.

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