03/06/2014
La perversa "morale del potere" davanti all'atto rivoluzionario
«Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato». George Orwell (1984)
In un’intervista, rilasciata alcuni giorni fa al Corriere di Romagna, in occasione della presentazione del suo ultimo romanzo “Lascia che il mare entri”, Barbara Balzerani, scrittrice, ex militante delle Brigate Rosse, che ha pagato le sue scelte con 30 anni di carcere duro e senza mai pentirsi, dice: «Il vincitore, oltre alla resa, pretende tutte le ragioni e fa della ricostruzione storica un’arma per l’esercizio del suo potere. Infatti, la nostra vicenda è stata talmente trasfigurata e decontestualizzata che viene usata come deterrente per il presente. Come se l’ipotesi stessa del conflitto sociale abbia esaurito la sua legittimità una volta e per sempre. La mia scrittura non può che partire da qui perché la storia dell’insorgenza degli anni ’60 e ’70 è il prodotto di violenza, illibertà e ingiustizie di antica memoria. Le responsabilità politiche di chi ha governato questo paese, anche con le stragi, e di chi se ne è fatto alleato, ne hanno costituito le ragioni. Io non intendo cercare giustificazioni per le mie scelte ma neanche darne a nessuno». E poi, di seguito: «Nella sostanza, sono ignorata dalla critica letteraria e ai margini del mercato editoriale, quando non direttamente sanzionata per la mia presunzione di esistenza in vita, ossia con facoltà di parola. Ma non mi lamento, voglio solo scrivere per chi, come me, soffre la povertà dei valori oggi dominanti, che fanno del mercato di tutto e di tutti la misura del bene e del male». Dunque, prendo spunto da queste parole per proporre delle brevi riflessioni sul Potere, le sue logiche, i suoi strumenti di controllo, la sua implicita morale e sull’imprescindibilità, dolorosa ma necessaria, dell’atto rivoluzionario, essenzialmente di matrice marxista e finalizzato proprio al sovvertimento del potere in questione.
Ma procediamo con ordine.
Come ho più volte ribadito, non tollero i moralismi e ho sempre considerato il Bene e il Male categorie, morali appunto, mai assolute ma sempre cangianti e, soprattutto, il prodotto di un’epoca, di un periodo storico, di una cultura dominante e della società da essa plasmata. Scriveva Foucault in “Sorvegliare e Punire”: «L’individuo è senza dubbio l’atomo fittizio di una rappresentazione “ideologica” della società, ma è anche una realtà fabbricata da quella tecnologia specifica del potere, che si chiama “la disciplina”. Bisogna smettere di descrivere sempre gli effetti del potere in termini negativi: il potere produce; produce il reale; produce campi di oggetti e rituali di verità. L’individuo e la conoscenza che possiamo assumerne derivano da questa produzione». Stando, dunque, a quanto dice Foucault, il potere produce innanzitutto sovrastrutture, morali e culturali, codici di comportamento, simboli, linguaggio e, di conseguenza, senso. Ecco, il potere produce senso e quindi, com’è facile comprendere, determina la differenza – storica e culturale – tra il Bene e il Male, tra ciò che è legale e ciò che non lo è, tra lecito e illecito, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. In una parola, stabilisce e precisa l’ethos all’interno di una società e di un particolare momento storico. Ne deriva che una delle principali peculiarità e finalità del potere – e specifichiamo che, quando Foucault parla del potere, si riferisce a quello dello stato borghese e liberale – risiede in ciò che egli definisce governamentalità, concetto che racchiude in sé quelli di sovranità e disciplina, affermatosi in Occidente proprio con la nascita del liberalismo e che, inequivocabilmente, conduce ad una gestione analitica, economica e disciplinare appunto delle masse. Con l’avvento dello stato liberale, insomma, siamo entrati nell’era della biopolitica e del biopotere. Del resto, secondo il filosofo e psicologo francese, tra la nascita del capitalismo e l’instaurazione del potere disciplinare esiste una causalità irriducibile e biunivoca: ciascuno dei due fenomeni ha alimentato l’altro e nessuno dei due avrebbe potuto mai assumere le proporzioni che ha assunto se non si fosse potuto poggiare sulle acquisizioni e sugli effetti dell’altro.
Ci sono momenti, però, in cui i codici morali, prodotti dal potere vigente, possono e anzi devono essere sovvertiti, nel nome di una più intima morale, di una più complessa, particolare e meno conformista idea di Bene e di Male. Sono i momenti rivoluzionari, di ribellione alle regole, così come ci vengono dettate dall’autorità, sia essa paterna o statale; i momenti di sovvertimento dell’ordine personale, familiare, politico e sociale; quei momenti che determinano un salutare slittamento, proprio di quel senso morale, su terreni di valutazione, al tempo stesso, più ampi, poiché ci permettono di considerare la nostra soggettività all’interno della dimensione sociale e della scala valoriale in cui ci troviamo a vivere e ad agire, e più individuali, giacché ci consentono di comprendere quanto quella stessa dimensione, sociale e morale, ci stia cambiando o ci abbia già cambiato, snaturandoci e alienando la nostra essenza ed umanità. E' ciò che Nietzsche – filosofo controverso e spesso frainteso, a destra come a sinistra – chiamava trasvalutazione dei valori.
Ora, assumiamo questo concetto e trasferiamolo su un terreno prettamente politico. Mi spiego. Il singolo individuo o il gruppo sociale – come viene giustamente evidenziato da Deleuze e Guattari ne “L’Anti Edipo. Capitalismo e Schizofrenia" – non sono altro che la risultante di quei rapporti di forza, di quella struttura economica e di quella cultura/morale dominante all’interno del sistema di produzione “capitalistico”, il cui potere si fonda, sostanzialmente, sulla fabbricazione della paura e sul controllo del soggetto desiderante e del desiderio stesso; per giungere fino alla repressione dei desideri inconsci a scopi di normalizzazione sociale. Il desiderio però, afferma Deleuze, è una rivendicazione di libertà assoluta e, dunque, lo si può interpretare nel senso di istanza rivoluzionaria. Se ciò è vero, cosa c’è di più rivoluzionario, allora, del desiderio di cambiare il mondo? Di sovvertire quell’ordine costituito e repressivo che, da sempre, nell’incessante dialettica dei fenomeni storici, ha visto gli oppressi soccombere ai loro oppressori e alle forme di potere da questi instaurate? Siano essi monarchi, imperatori, aristocratici, oligarchi, dittatori o borghesi. Tutto è politico, dicono ancora Deleuze e Guattari e pertanto lo è, a maggior ragione considerando ciò che si è detto finora, il desiderio. Ma una rivoluzione che voglia essere veramente tale – dunque, fondamentalmente politica, nel significato etimologico del termine – non può certo limitarsi ad un singolo soggetto e ad una trasformazione personale, ancorché profonda. Ha bisogno di interconnettere soggettività pervase dagli stessi desideri rivoluzionari. “Cambia te stesso e cambierai il mondo”, mi è sempre suonato come un bellissimo concetto, ma essenzialmente banale, venato di misticismo ed imbevuto di quell’individualismo che finisce, poi, per fare sempre il gioco del potere. Una Rivoluzione, quindi, così come la si vuole intendere in questa sede, quand’anche guidata da un’avanguardia, deve necessariamente coinvolgere le masse, consapevoli del loro ruolo di forza rivoluzionaria, ed aggredire radicalmente, sovvertendole, le strutture del potere e dell’ordine costituito, contro cui si scaglia e lotta. E questo può implicare, e spesso anzi ha implicato, nel corso della Storia, l’utilizzo di mezzi non certo pacifici.
Ebbene, pur senza voler fare qui un’apologia della violenza fine a sé stessa, è un dato di fatto che essa sia stata e sia una presenza costante nello svolgersi dinamico della storia: nel duplice significato di fattore genetico della società classista, in particolare di quella borghese, e come forza generatrice di nuove società. Ed è quest’ultimo passaggio che c’ interessa, in tale contesto. Negarlo, significherebbe negare il dato stesso dell’esperienza che la storia ci fornisce.
Scriveva Marx: «La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classe». In queste parole del Manifesto è già ravvisabile la concezione marx-engelsiana di violenza, che parte dalla constatazione della sua esistenza nella società e nella storia, e più precisamente nel rapporto economico. Essa non dipende da una scelta soggettiva o politica, ma dal fatto che la società divisa in classi, e soprattutto la società borghese, è fondata sull'antagonismo tra forze e mezzi di produzione, tra proprietà privata e produzione sociale. La violenza, insomma, come «levatrice della storia». Ecco quindi che il marxismo, pur ponendosi, come obiettivo finale da conseguire, la pace, non espelle, ipocritamente direi, l’utilizzo della violenza come strumento di realizzazione di quei valori di Libertà, Giustizia Sociale ed Uguaglianza, in opposizione all’autocrazia, al servaggio della gleba o, in tempi più recenti, all’oppressione, al dominio di una classe su un’altra, all’elitarismo sociale impliciti, come si accennava già in precedenza, al regime capitalistico. Fintantoché, quindi, la società sarà divisa in classi ed il capitale, finanziario e monopolistico, imporrà le sue regole per permettere sempre più la concentrazione, nelle mani di pochi, di grandi ricchezze, sussisteranno l’imperialismo – cioè il capitalismo al suo più alto grado di sviluppo, per citare Lenin – e lo sfruttamento, più o meno violento ed autoritario, di quello che, oggi, viene ignobilmente definito “il capitale umano” – formula che sintetizza alla perfezione il concetto mercantile di reificazione, esteso all’uomo – e delle risorse naturali, mediante guerre colonialistiche. Accentramento delle ricchezze, sfruttamento del lavoro e dominio coloniale che le borghesie imperialiste – prime fra tutte quelle USA ed europee – si sono garantite e continuano a garantirsi grazie alla complicità delle cosiddette democrazie liberali e dei loro governi, di cui, tra l’altro, sono i maggiori azionisti; alla repressione feroce del dissenso, specie se di indirizzo marxista, fino a giungere alla criminalizzazione terroristica delle frange più radicali e per loro più pericolose; all’attuazione di politiche economiche, di modello liberista e neoliberista, manipolate da lobby, comitati d’affari e banche; grazie alla correità di quegli organismi politico-economici, creati d’altronde dalle stesse borghesie, aventi dimensione internazionale: FMI, Banca Mondiale, BCE, UE, agenzie di rating ecc; ed infine, con l’utilizzo mirato di guerre di stampo coloniale, ignobilmente mascherate, oramai, da missioni di pace o da benefici processi di esportazione democratica. Mistificazioni volte a celare il vero ed unico obiettivo: la globalizzazione dei mercati e delle forze lavoro da mungere. Fintantoché saranno questi i principi regolatori delle nostre esistenze non si potrà parlare, dunque, di pace, né in un’ottica internazionale né in seno ai singoli paesi, ed il conflitto sociale, esteso o circoscritto, non soltanto sarà ineluttabile, ma necessario ed imprescindibile. E’ questo che, prima Marx e, in un secondo momento, Lenin – con “Il socialismo e la guerra” – intendevano circa l’utilizzo della violenza. Essa può e deve essere esclusivo strumento rivoluzionario di difesa contro l’aggressione e l’oppressione, classista ed imperialista, di quella borghesia che, per mantenere i propri privilegi, il potere di controllo ed accumulare sempre maggiori ricchezze, non disdegna qualunque mezzo: dallo sfruttamento generico al più vessatorio schiavismo – ormai tornato di attualità – dalla semplice repressione, entro i patri confini, all’allargamento, su scala mondiale, dei conflitti regionali o della guerra. Di fronte ad una situazione siffatta, appare evidente che parlare di pacifismo o di pacificazione sociale risulta quanto meno illusorio, quando non voglia dire perfino tollerare ed assecondare la pratica della violenza classista e padronale. Il pacifismo – meglio sarebbe definirlo moda o epifenomeno culturale, dettato dall’omologante pensiero dominante – ha assunto, oggi come non mai, connotazioni chiaramente borghesi e funzionali al sistema. Viviamo in “regimi democratici” in cui si invoca il pacifismo ad ogni manifestazione, ma in cui si accetta e si pratica volentieri, viceversa, l'uso della violenza statuale da parte delle Forze dell'Ordine. Pertanto se, come si diceva più sopra, il fine ultimo del marxismo e di una società comunista deve essere la pace, non si può invocare, di contro, il pacifismo quando la violenza delle classi dominanti si manifesta in tutta la sua spietatezza e non lascia, il più delle volte, altra soluzione che una risposta altrettanto violenta. E' doloroso ammetterlo, ma è così. Cos’è, d’altronde, la Lotta di Classe se non il punto cruciale di un conflitto sociale, con cui la classe lavoratrice tenta di conquistare o riconquistare, attraverso ogni mezzo e spesso a prezzo della vita, quei diritti che lo stato liberale e il padronato mirano a sottrargli o quanto meno a limitare, con strumenti legislativi o mediante la repressione violenta delle lotte per l’acquisizione di quei diritti?
Fatte tali premesse, si comprenderà perciò che se non uccidere è, o dovrebbe essere, prima ancora che una prescrizione giuridica, un imperativo etico e non scritto, risiedente nel nostro sentimento di umanità, uccidere un oppressore, un aguzzino, un tiranno, un criminale affamatore e sfruttatore del popolo, può essere, anzi è senz’altro, in una prospettiva rivoluzionaria, giusto. Se rapinare una banca è, secondo la legge, sbagliato, rapinare una banca, responsabile del disastro economico in cui ci troviamo ad arrancare e del massacro sociale in atto, di cui pagano il prezzo i più poveri, può diventare, inquadrato nell’ottica rivoluzionaria, giusto. Il nazismo era legale e legali erano il suo razzismo, i suoi massacri, le sue camere a gas, in base alle leggi vigenti nel Terzo Reich. Ma ciò non vuol dire che fossero giuste e coincidessero con l’idea di Bene, non dico assoluta o ontologica ma neanche con quella empirica e comunemente avvertita. Quindi, era giusto sovvertirlo, quel potere, e ucciderne il Fuhrer. Si tratta, in tutti questi casi, come può essere facile intuire, di gesti rivoluzionari che trascendono la mera categoria politica e affondano le loro radici in qualcosa di ben più profondo, come l’istinto di sopravvivenza e la dignità della propria stessa esistenza. E' il sogno, necessario e vitale, di un mondo diverso, di una società diversa, di un diverso modo di intendere i rapporti umani, che s’impone in questi casi.
In tal senso, l’ “Atto” rivoluzionario – per riprendere il concetto di atto elaborato da Carmelo Bene – è un momento sublime, di sospensione del tempo storico a favore di un presente “eterno” che si condensa nella Bellezza, seppur terribile, e nella Purezza, oserei dire quasi fanciullesca, del gesto rivoluzionario. La Storia e la linearità del tempo si annullano nel compiersi di quel gesto, lasciando il posto all’ebbrezza del godimento immediato del desiderio sovversivo. Si badi bene che qui non si parla di una qualunque forma rivoluzionaria, ma di quella di matrice marxista. Ci troviamo in una dimensione simile a quella che Bataille definisce, nella postfazione di “Lettera al padre”: «L’universo gioioso di Kafka». In un tale universo, l’innocenza del desiderio ed il sogno fanciullesco della Rivoluzione – la borghesia lo definirebbe romantico – coincidono, fatalmente, con il desiderio di morte. E già, perché chi intraprende quel cammino finisce per assecondare, consapevolmente o meno, quell’intimo desiderio di morte che pervade ogni essere umano. Ma lo fa, a differenza di Kafka, ponendosi un duplice obiettivo: la distruzione del potere, borghese ed oppressivo, e la liberazione personale e di altri esseri umani. Diceva Che Guevara: «Il guerrigliero è un riformatore sociale, che prende le armi rispondendo alla protesta carica d'ira del popolo contro i suoi oppressori, e lotta per mutare il regime sociale che mantiene nell'umiliazione e nella miseria tutti i suoi fratelli disarmati»; e ancora: «Lasciami dire, a rischio di sembrare ridicolo, che il vero rivoluzionario è guidato da grandi sentimenti d'amore». Negli anni ’70, un gruppo di compagne e di compagni, giovani donne e giovani uomini, tra cui Barbara Balzerani, assunse su di sé questo arduo compito e questo sogno rivoluzionario. Lottarono, come altri in altri paesi nello stesso periodo, per la liberazione di un popolo – nel loro caso, quello italiano – dalle avvilenti catene del capitalismo, dalle sue logiche mercantili, dallo sfruttamento e dalla riduzione a merce degli stessi esseri umani. Furono sconfitti, probabilmente prima ancora che dallo stato borghese, da un loro stesso errore di valutazione politica – non certo di analisi – e dalla mancanza di prospettiva di chi avrebbe dovuto seguirli, e che loro speravano li seguissero: il proletariato, la classe operaia e, perché no, quel gruppo dirigente del PCI che intendevano ridestare dal torpore in cui era piombato. Non ci riuscirono e allora la giustizia “democratica” e borghese li prese e li gettò in galera, bollandoli come terroristi. Termine ambiguo, se pronunciato da governi e uomini politici che del terrorismo e della paura hanno fatto la prassi per il loro dominio. La speranza era di annientarne la forza e di cancellarne addirittura la memoria, strumentalizzando quegli eventi per controllare il presente e per destituire di fondamento l’idea stessa di conflitto sociale, di lotta di classe, di opposizione e di dissenso. Bisognava sradicarli, una volta e per sempre, facendo passare l’equazione dissenso-conflitto uguale terrorismo; comunismo uguale barbarie. è la stessa Barbara Balzerani a dichiararlo, più o meno esplicitamente, nell’intervista citata all’inizio. E noi, ne abbiamo un esempio quasi tutti i giorni, oramai, con la repressione di ogni contestazione, messa in atto dallo stato, oggi come allora, attraverso l’utilizzo delle forze dell’ordine. Oppure, basta considerare cosa sta accadendo in Val di Susa, con le inchieste della magistratura che accusano alcuni attivisti del Movimento NO TAV – e persino lo scrittore Erri De Luca – di terrorismo.
Ma Barbara Balzerani va oltre, denunciando addirittura quello che è il tentativo di annichilimento totale, messo in atto dal potere “democratico” dello stato liberale italiano, nei suoi confronti e di chi, come lei, ha preso parte all’esperienza della lotta armata. Una volta scontata la pena, il peso del passato deve incombere come un macigno morale su di loro e, quindi, bisogna ridurli al silenzio. «Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato», scriveva George Orwell in 1984. Ma Barbara non ci sta e scrive. Scrive della sua vita e delle sue esperienze; della lotta e del carcere. E i giovani l’ascoltano, perché intuiscono che ha qualcosa da dire e da insegnare, in un mondo in cui a dominare sono solo il denaro ed il mercato ed in cui, come detto, noi stessi siamo ridotti a pura merce di scambio. Questo diritto di parola non può esserle negato e noi glielo riconosciamo tutto. Per l’ordine costituito, quindi, la Balzerani è stata e resta una terrorista. Per noi, compagni e comunisti, Barbara è stata una combattente per il comunismo e per la libertà. Ma, prima di tutto, Barbara è una cittadina, una donna che ha pagato la sua pena, secondo le leggi di questo stato, ed ora è libera. Libera di vivere, di scrivere e di parlare. E come dice Majakovskij: «Nostra arma sono le nostre canzoni. Nostro oro sono le voci squillanti».
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