di Michele Paris
Secondo un interessante articolo pubblicato questa settimana dal Washington Post,
i membri dell’ufficio stampa della Casa Bianca starebbero da qualche
tempo filtrando in maniera più severa del solito le notizie prodotte
quotidianamente dai corrispondenti dei media americani che seguono
l’attività giornaliera del presidente Obama. Agli eventi pubblici o
semi-pubblici a cui partecipa quest’ultimo assiste solitamente solo un
gruppo ristretto di giornalisti (“press-pool”), scelti tra quelli che si
occupano regolarmente dell’inquilino della Casa Bianca. Ciò accade per
evitare che una folla di reporter si presenti puntualmente alle
apparizioni del presidente, creando una serie di problemi logistici.
Il
gruppo, i cui componenti sono scelti periodicamente e a rotazione, gode
di un accesso relativamente privilegiato al presidente e i resoconti
degli eventi che ne scaturiscono vengono poi diffusi al resto dello
stampa americana che ne può usufruire a piacimento.
Prima di
raggiungere tutti i giornalisti interessati, tuttavia, gli articoli
realizzati dai membri di turno del “press-pool” vengono inviati
all’ufficio stampa della Casa Bianca, da dove sono inoltrati - dopo
attenta lettura - ai destinatari che fanno parte di un database di
migliaia di indirizzi e-mail.
Se già questa pratica può essere
considerata normale solo per gli standard dei media “mainstream”, essa
solleva anche un ulteriore interrogativo, visto che la Casa Bianca in
varie occasioni ha chiesto, e quasi sempre ottenuto, modifiche agli
articoli ricevuti riguardanti il presidente, ovviamente per ottenere una
copertura più favorevole.
Il pezzo del Washington Post
si basa sulle testimonianze preoccupate di alcuni giornalisti che
lavorano alla Casa Bianca, anche se viene sottolineato come le richieste
di cambiare il contenuto di determinati passaggi degli articoli abbiano
quasi sempre a che fare, almeno finora, con questioni apparentemente di
secondaria importanza.
Un certo allarme tra la stampa, anche
solo per il fatto che questi interventi abbiano luogo, è comunque già
diffuso, come conferma la richiesta fatta all’amministrazione
dall’Associazione dei Corrispondenti dalla Casa Bianca per rivedere
l’approccio verso i resoconti dei giornalisti.
Gli episodi citati dal Post sono molteplici. Ad esempio, la corrispondente dalla Casa Bianca per l’agenzia di stampa McClatchy,
Anita Kumar, lo scorso anno aveva realizzato un articolo sulla
registrazione dell’apparizione di Obama nel programma televisivo della NBC,
“The Tonight Show”. Come di consueto, la giornalista lo aveva
recapitato all’ufficio stampa della Casa Bianca, da dove però le era
stato comunicato che il pezzo doveva essere ridotto, poiché nella forma
originale risultava troppo lungo e violava quindi gli accordi presi con
la produzione del programma per limitare la diffusione del contenuto
dell’intervista del presidente prima della messa in onda.
Un altro caso è quello accaduto a Todd Gillman del Dallas Morning News,
il quale aveva riportato in un suo articolo una scena accaduta a bordo
dell’aereo presidenziale nel 2012. A un certo punto durante il volo,
Obama aveva raggiunto la sezione del velivolo riservata alla stampa per
consegnare un dolce con una candelina a un giornalista che sarebbe
andato in pensione di lì a poco. Obama, nel pieno della campagna
elettorale per la rielezione, aveva poi invitato il festeggiato a
spegnere la candelina e a esprimere un desiderio, aggiungendo che esso
avrebbe dovuto “preferibilmente avere a che fare con il numero 270”, in
riferimento al numero minimo di collegi elettorali necessari per vincere
le elezioni presidenziali americane.
Il particolare, ritenuto
del tutto innocuo dal giornalista del quotidiano del Texas, secondo la
Casa Bianca avrebbe dovuto essere rimosso. Gillman si era impuntato,
rivolgendosi direttamente all’allora primo portavoce di Obama, Jay
Carney, il quale aveva alla fine dato il via libera alla distribuzione
del pezzo, avvenuta però solo quando la scadenza fissata dal resto dei
giornalisti era passata da tempo.
Decisamente di maggior peso è stato invece l’intervento che ha riguardato David Nakamura del Washington Post
nel 2011. Il vice di Carney, Josh Earnest, aveva in questo caso ripreso
il giornalista per avere accostato la decisione di Obama di limitare
l’accesso dei fotografi agli eventi a cui avrebbe partecipato durante il
viaggio allora in corso in Asia a un discorso di appena due giorni
prima nel quale aveva celebrato pubblicamente la libertà di stampa.
La
doppia ironia dell’intervento censoreo del futuro primo portavoce di
Obama aveva probabilmente scosso il reporter del Post, spingendolo a
protestare in maniera accesa, sia pure senza successo.
I rapporti tra il centro del potere negli Stati Uniti e la stampa “mainstream” raccontati dal Washington Post invitano
a considerazioni di un certo rilievo. Ancor prima della vera e propria
censura operata dalla Casa Bianca, è estremamente significativo e
tutt’altro che rassicurante che le notizie relative al presidente
vengano inviate all’ufficio stampa di Obama e solo successivamente
diffuse al resto dei giornalisti per la pubblicazione.
Questo
sistema a dir poco discutibile risulta al contrario perfettamente
plausibile per tutti i media ufficiali, in primo luogo perché questi
ultimi operano in larga misura come organi di propaganda del governo
americano, le cui posizioni vengono accettate e diffuse quasi sempre
senza critiche sostanziali.
In un simile scenario appare tutto
sommato poco sorprendente che la Casa Bianca filtri i pezzi ricevuti dai
corrispondenti che coprono l’attvità del presidente e, quando lo
ritenga necessario, chieda di rettificare determinati passaggi sgraditi.
Il fatto che le testimonianze riportate questa settimana dal Washington Post
si riferiscano spesso a dettagli considerati trascurabili non cambia la
sostanza della questione. Se l’ufficio stampa di Obama non ha bisogno
di intervenire in maniera pesante sugli articoli dei reporter del
“press-pool” è dovuto infatti all’autocensura di fatto praticata dalla
stampa ufficiale americana, incapace di svolgere un ruolo autenticamente
critico nei confronti del potere, proprio quando ce ne sarebbe più
bisogno, perché espressione in larghissima parte degli stessi grandi
interessi economico-finanziari che rappresentano il punto di riferimento
unico della classe politica d’oltreoceano.
Nella
routine dell’attività giornalistica che ruota attorno al presidente
degli Stati Uniti, i censori della Casa Bianca non hanno dunque da
preoccuparsi troppo, anche se il loro occhio vigile non manca di posarsi
su particolari che possono apparire di secondaria importanza.
In tal caso, il giornalista di turno viene richiamato all’ordine, sia
per evitare che qualsiasi dettaglio anche lontanamente lesivo
dell’immagine di un presidente già impopolare possa filtrare
all’esterno, sia soprattutto per lanciare un messaggio benevolmente
intimidatorio a coloro che potrebbero manifestare qualche inclinazione
vagamente critica sulle questioni sostanziali del sistema di potere
negli USA.
Il rapporto tra stampa e potere in questo paese era
stato d’altra parte già messo clamorosamente in evidenza poche settimane
fa, quando una rivelazione della testata on-line The Intercept,
co-diretta da Glenn Greenwald, aveva descritto come svariati
giornalisti americani si consultino in maniera regolare con la CIA prima
di pubblicare i loro pezzi rigurdanti le questioni della sicurezza
nazionale.
Fonte
Lo
chiamano il paese delle libertà poi mettono il veto anche su cazzate
come un dolcetto con la candelina sopra. Madonna che nazione farlocca.
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