Alla crisi del 2007 l’UE ha reagito con interventi di natura economico-finanziari e monetari tali da richiedere ulteriori radicali innovazioni istituzionali, sempre voluti dal duo franco-tedesco, nelle persone di Sarkozy e Merkel. Nella gestione degli interventi, ripeto e di politica economica e di natura istituzionale, essi hanno agito di concerto nella definizione del Semestre europeo e nella preparazione del Fiscal Compact e del MES, così come nel sostegno agli interventi convenzionali e non-convenzionali della BCE. L’asse Merkel-Sarkozy trovò la sua massima espressione nel Manifesto comune per le elezioni europee del 2009, dal titolo "Per un’Europa che protegge", in cui si rivendicava la risposta alla crisi bancaria e si preannunciavano le grandi scelte di riorganizzazione della governance europea, intraprese a partire dall’ECOFIN del 7 settembre 2010. A sottolineare i loro legami politici e personali, la Merkel giunse a schierarsi attivamente a fianco di Sarkozy contro Hollande nelle elezioni presidenziali del 2012, e nel febbraio del 2014 venne organizzato un pubblico incontro per ricordare la sua stretta collaborazione con Sarkozy. Non per caso, dunque, con Hollande la Germania della Cancelliera non sta trovando l’intesa profonda che hanno caratterizzato i precedenti cicli di integrazione europea. Ciò è dovuto anche alla politica di Hollande il quale, ripiegato sui problemi interni alla Francia, è incapace di proporre una sua visione dell’evoluzione dell’UE. Tenta dei ‘distinguo’ rispetto alle scelte di austerità della Germania, tuttavia al pari di tutti gli altri ‘capi di Stato e di governo’ firma i patti che obbligano alle politiche di austerità, come hanno notato Allegri e Bronzini.
Alla fine di agosto Hollande ha spinto alle dimissioni il ministro dell’Economia Arnaud Montebourg, reo di aver criticato le politiche tedesche, sostituito con Emmanuel Macron (ex banchiere della Rothschild), per allinearsi così al vangelo della Merkel e di Draghi: consolidamento fiscale e riforme di struttura.
Della strategia della Germania si suole dire che essa sia finalizzata a egemonizzare l’UE, anzi a plasmare un’Europa tedesca: un disegno di rafforzamento nazionale a spese degli altri Paesi membri. Non credo che le cose stiano così, non tanto e non solo per le dichiarazione dei massimi esponenti del governo tedesco a cominciare dalla Merkel, che, il 18 dicembre 2013, nel presentare la Große Koalition disse: ‘la Germania sarà forte se anche l’Europa sarà forte. In un mondo globalizzato, l’Europa è la nostra comune patria’; o di Wolfgang Schäuble, che in un’intervista a la Repubblica ha ripetuto di volere ‘un’Europa forte, non un’Europa tedesca’. Le parole dei politici servono spesso a manipolare la realtà o a nascondere le loro intenzioni, questa volta però ci sono i fatti a suffragarle: il disegno è una governance sovranazionale, disegno condiviso dalle classi dirigenti dell’intera UE. Ed esso poggia su basi tanto politiche quanto economico-sociali. Il Rapporto Towards a Genuine Economic and Monetary Union del 25 giugno 2012, predisposto da Van Rompuy, Barroso, Draghi e Juncker, esplicita l’obiettivo politico di un’unione sempre più stretta per consentire una governance centralizzata in modo da garantire all’UE un ruolo da protagonista nei mercati globali. Le trasformazioni politico-istituzionali – la CECA, la Conferenza di Messina e il Trattato di Roma, il Consiglio Europeo, l’Atto Singolo Europeo, il Trattato di Maastricht, il Semestre Europeo e la preparazione del Fiscal Compact – sono state funzionali alle grandi innovazioni economico-finanziarie – il mercato comune prima del carbone e dell’acciaio e poi esteso all’insieme dei settori economici, il Serpente monetario e lo SME, il mercato unico, l’euro e la BCE, infine la governance fiscale e bancaria centralizzata a Bruxelles e a Francoforte. Tutte sono avvenute grazie all’intesa tra Germania e Francia.
Dal 2012 i due paesi non sono più la leva dei processi di integrazione europea. Ciò non è dovuto alla diversità delle famiglie politiche di Hollande e della Merkel, perché nel passato governanti gollisti e conservatori francesi sono stati alleati di cancellieri sia socialdemocratici sia cristiano-democratici. È dovuto a una concezione diversa del ruolo dell’UE nel processo di globalizzazione: Hollande chiuso ancora in una prospettiva di integrazione delle nazioni, rispetto alla Merkel che vuole più integrazione sovranazionale, soprattutto dell’Eurozona per renderla competitiva nei mercati mondiali.
Angela Merkel è consapevole che in un mondo globalizzato l’UE debba funzionare come un grande spazio economico continentale dove più efficiente è la divisione del lavoro e più profittevoli sono gli scambi di mercato e, per questo, sostiene una prospettiva di politica economica e monetaria di sostegno alle catene produttive sovranazionali. Hollande, su questo terreno, non può avventurarsi perché più debole e meno competitivo è il tessuto economico francese, specialmente quello industriale. Da qui nasce il suo atteggiamento riluttante e difensivo di fronte all’operatività della Merkel che continua a promuovere e a guidare la riorganizzazione della governance europea: prima il Semestre europeo, il Fiscal Compact, il MES, e l’Unione bancaria, e ora il controllo centralizzato delle riforme di struttura. Non è cinismo quello che guida il governo tedesco nel chiedere disciplina fiscale e riforme del mercato del lavoro dei Paesi dell’Eurozona: la prima serve per garantire la stabilità dell’euro necessaria per la sicurezza degli scambi e degli investimenti; le riforme servono per contenere e possibilmente abbassare il costo del lavoro dei settori produttivi legati alla subfornitura dell’industria tedesca. Dunque il contenimento dei costi lungo tutta le catene produttive – Est e Sud Europa – è un elemento cruciale per mantenere bassi e concorrenziali i costi dei prodotti tedeschi che incorporano beni intermedi provenienti dall’area europea. Hanno ben descritto questi fenomeni Andrea Ginsburg e Annamaria Simonazzi parlando della capacità del sistema industriale tedesco di utilizzare l’allargamento a Est con il decentramento di fasi di produzione, accompagnato dalle riforme del mercato del lavoro che hanno reso possibile flessibilità della forza lavoro, riduzione dei salari, e mini-jobs. Si potrebbe pensare, e molti commentatori lo pensano, che si stia ripetendo il disegno del Groβraum tedesco di tragica memoria. Di certo, nelle scelte della classe dirigente tedesca sussistono elementi di egemonia, che provocano frizioni con gli altri paesi europei suscitando proteste in nome della difesa delle economie nazionali. Non sono però elementi determinanti. Si farebbe un grave errore di analisi e di prospettiva politica se si accettasse la visione di una volontà unilaterale tedesca nell’imporre le politiche di austerità e di riforme di struttura, e se per questo si ricorresse a difese nazionali e ‘sovraniste’ per contenerla. Basta seguire con attenzione gli sviluppi e le strategie economiche di settori significativi della borghesia industriale dei più importanti paesi europei per accorgersi che non si tratta di un disegno egemone della Germania, si tratta di un processo di integrazione produttiva che sorregge le scelte di politica economica e istituzionale dell’insieme delle élite europee, politiche imprenditoriali e tecnocratiche.
La stretta integrazione tra Germania e Italia
Prendiamo proprio il caso italiano. Si può facilmente constatare che i più dinamici settori industriali sono strettamente integrati con quelli tedeschi, e consapevolmente i suoi padroni e manager perseguono la costruzione di piattaforme produttive europee. Scrive Paolo Bricco: ‘dall’introduzione dell’euro i sistemi industriali di Italia e Germania si sono intrecciati sempre di più. Il rallentamento dell’industria europea genera ombre sull’evoluzione di questa dinamica, che però resta una tendenza strutturale’. Certo, i dati della produzione integrata Italia-Germania o del loro interscambio, non sono tali da indicare un fenomeno generalizzato all’universo delle imprese, ma sono tali da segnalare una tendenza di fondo in quanto coinvolgono le aree regionali e i comparti industriali più dinamici del sistema italiano.
Da una ricerca del servizio Studi di Intesa Sanpaolo, si scopre che in Germania le 1762 imprese partecipate da gruppi italiani occupano 97 mila dipendenti, fatturano 50 miliardi di euro che rappresenta circa il 2% del PIL tedesco. Le imprese in Italia partecipate da gruppi tedeschi sono 1319, occupano 124mila dipendenti e fatturano 73,2 miliardi di euro pari al 4,7% del PIL italiano. Le importazioni italiane dalla Germania rappresentano il 15% del loro totale, e il flusso dei beni verso la Germania è circa il 14% delle esportazioni italiane. A che si devono questi flussi se non alla tendenza a creare un sistema industriale sovranazionale a trazione tedesca? La Germania è al centro di un sistema produttivo che si articola su scala europea, e i cui costi di produzione non dipendono solo da quelli tedeschi ma anche da quelli delle filiere produttive dei diversi paesi. Ancora Paolo Bricco scrive: “Nella nuova geografia economica i flussi commerciali restano fondamentali, ma contano molto anche l’intrecciarsi dei capitali (in questo caso equity di marca tedesca in Italia e quello di marca italiana in Germania) e la co-generazione della parte nobile delle global value chains: quanto valore aggiunto di matrice italiana ho nell’export tedesco, e viceversa”. Questo calcolo, elaborato da OECD e WTO (Made in the World), dice che il valore aggiunto di origine italiana nell’export di manufatti tedeschi è in media il 6%, raggiunge l’8% nei macchinari, il 9,5% nel tessile, l’8% nei mezzi di trasporto e il 7,5% nell’edilizia. Si tenga a mente che si sta parlando del solo comparto manifatturiero, dato che nei servizi la Germania persevera in una politica di protezione, oggetto per questo di critiche perfino da parte della Commissione. Si tenga, comunque, a mente che quasi conclusa è l’integrazione del fondamentale settore dei servizi bancari con sorveglianza e meccanismi di risoluzione unici, affidati alla BCE. Di questo settore, vero cervello delle strategie capitalistiche (come ebbe a dire Schumpeter), dove si crea la moneta attraverso l’erogazione di credito, non si può più parlare di dimensione nazionale: le banche hanno una funzione sovranazionale essendo esse, e non la BCE, a creare la più ampia quota della base monetaria nell’eurozona, la cosiddetta moneta endogena. E la moneta conta nell’economia capitalistica.
Tornando al ‘manifatturiero’, Maurizio Marchesini, presidente della Confindustria dell’Emilia-Romagna, immagina un sistema integrato tra l’industria italiana e quella tedesca “perché la sfida oggi non è tra paesi europei ma con le altre macroaree mondiali e pur nelle differenze Italia e Germania restano due protagoniste del manifatturiero europeo, e hanno un obiettivo comune di riposizionamento sui mercati globali”. Alberto Baban, vicepresidente della Confindustria, parla di una prima piattaforma del made in Europe, frutto dell’integrazione dei due sistemi, e Matthias Kramer, direttore operativo della BDI propone un’azione di pressione su Bruxelles per potenziare le filiere produttive dell’industria a partire dalle questioni della politica energetica e del cambio euro-dollaro. La Deutsche Bank, grande protagonista nei finanziamenti dell’industria, ha ben chiaro che il Sud della Germania unito al Nord dell’Italia crea ‘un’unica zona, un’area manifatturiera di eccellenze e gli imprenditori italiani e tedeschi vanno molto d’accordo’ come ha dichiarato Flavio Valeri, suo Chief Country Officer in Italia.
All’8° Forum Economico Italo-Tedesco, tenutosi il 5 giugno 2014 a Milano, la Camera di Commercio ha calcolato che sono coinvolte in rapporti commerciali 50 mila aziende tedesche e 40 mila italiane. Ciò che voglio mettere in rilievo, sulla base di questi elementi, è soprattutto il disegno strategico di settori imprenditoriali come esplicitato dal Presidente della Confindustria dell’Emilia-Romagna: con la globalizzazione, l’integrazione e la competizione non sono più tra singoli paesi ma tra macroaree. Una macroarea è l’Unione Europea costruita dalle borghesie delle imprese e della finanza, non più nazionali: le borghesie dei paesi europei hanno acquisito un carattere sovranazionale. Già solo per questo attardarsi in ipotesi ‘sovraniste’ per contrastare l’UE è culturalmente arretrato – dove sono più i mercati e gli Stati nazionali? – e politicamente inefficaci – con le sole forze sociali nazionali, chiuse nei vecchi confini, si può davvero contrastare il modo di produzione capitalistico sovranazionale?
In questo disegno di innalzamento permanente della competitività della macroarea europea è pienamente coinvolto Mario Draghi, che da presidente della BCE ha operato per mettere in sicurezza l’euro e il sistema bancario. Da convinto sostenitore della linea di Angela Merkel, sta operando per consolidare i bilanci pubblici e imponendo nei fatti politiche di ‘svalutazione interna’ con l’abbattimento del costo del lavoro e la flessibilità del lavoro; ora sta attuando l’unione bancaria in modo da riorganizzare e gestire su scala europea l’intero sistema finanziario. Sulla prossima tappa dell’integrazione Merkel e Draghi sono in perfetta sintonia: dopo l’unione fiscale e quella bancaria, è all’ordine del giorno la governance comune delle riforme di strutture, quelle necessarie per elevare la capacità concorrenziale dell’economia dell’UE rimuovendo tutte le ‘rigidità’ dei mercati, innanzitutto quelle del lavoro. A Londra il 9 luglio 2014 nel commemorare Tommaso Padoa-Schioppa, Draghi ha detto: il “nostro futuro è in una maggiore integrazione, non nella rinazionalizzazione delle nostre economie”. Di questo discorso, che meriterebbe un ampio commento per la vastità dei temi discussi, faccio rilevare l’insistenza sulla necessità di realizzare sotto la regia dell’UE le riforme di struttura – oltre al mercato del lavoro, la liberalizzazione e privatizzazione dei servizi, la realizzazione delle grandi reti infrastrutturali europea, una comune politica energetica, il nuovo trattato di libero scambio con gli USA. Che Draghi sia attivo per raggiungere questi obiettivi risulta chiaro da tutti i suoi ultimi interventi. Nel suo discorso al PE il 14 luglio, nel suo speech introduttivo della conferenza stampa del 7 agosto, nella relazione tenuta a Jackson Hole il 22 agosto ha battuto su due chiodi: il consolidamento fiscale con la governance centralizzata delle politiche pubbliche, e la governance sovranazionale delle riforme di struttura.
La strategia di integrazione come risposta alla Grande Recessione − attraverso l’unificazione sempre più stretta dei mercati del lavoro, dei capitali, delle merci e dei servizi, attraverso le filiere produttive europee e attraverso una sempre più consolidata governance sovranazionale − è portata avanti dall’insieme delle élite europee e non solo da quelle tedesche. E in questo quadro non è affatto azzardato parlare di un nuovo asse tra Merkel e Draghi, tra la Cancelliera del più potente dei Paesi membri e il Presidente della BCE, la più potente istituzione dell’UE.
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