di Michele Paris
L’allargamento
al territorio siriano della campagna militare americana contro lo Stato
Islamico (IS) ha preso il via ufficialmente nelle primissime ore di
martedì con giorni o forse settimane di anticipo rispetto a quanto
ipotizzato dalla gran parte degli osservatori. Le prime incursioni delle
forze aeree degli Stati Uniti e di una manciata di alleati arabi hanno
già sciolto ogni dubbio sia sull’intensità degli attacchi sia sugli
obiettivi, decisamente più ampi rispetto a quanto annunciato un paio di
settimane fa dal presidente Obama.
Nel diffondere la notizia
dell’apertura del fronte siriano, il comando militare statunitense ha
fatto sapere che altri cinque paesi arabi, non esattamente campioni di
democrazia, hanno “partecipato o appoggiato” le prime operazioni -
Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi, Giordania e Qatar - alcuni dei
quali responsabili di avere fornito denaro e armi agli stessi
fondamentalisti dell’ISIS che ora sostengono di combattere.
Gli
attacchi in Siria contro le postazioni dell’ISIS sono stati condotti con
missili Cruise, lanciati da due navi da guerra americane nel Mar Rosso e
nel Golfo Persico, ma anche utilizzando droni e velivoli da
combattimento. Gli obiettivi colpiti includerebbero strutture di comando
e altre dedicate all’addestramento, depositi di armi, veicoli vari e,
ovviamente, un certo numero di guerriglieri jihadisti.
Un primo
bilancio delle vittime provocate dalle incursioni americane è stato
fornito dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani con sede in Gran
Bretagna e conferma il nuovo sicuro massacro che attende la popolazione
siriana. I morti sarebbero stati già più di 50, tra cui una decina di
civili inclusi alcuni bambini. Secondo la testimonianza di un residente
della città di Raqqa, considerata la roccaforte dell’ISIS in Siria,
sarebbe subito iniziato anche una sorta di esodo della popolazione
civile verso la campagna per evitare i bombardamenti.
L’inizio
delle operazioni americane è stato al centro di un’apparizione pubblica,
nel pomeriggio di martedì, del presidente Obama, poco prima della sua
partenza per New York, dove parteciperà all’annuale assemblea generale
delle Nazioni Unite.
Obama ha giustificato l’aggressione contro
la Siria con l’urgenza di prendere le misure “necessarie per combattere
questo gruppo di terroristi”. Con sarcasmo apparentemente involontario,
l’inquilino della Casa Bianca ha poi citato i cinque regimi arabi che
stanno collaborando con gli USA, dichiarandosi “orgoglioso di essere a
fianco di questi paesi per difendere la nostra sicurezza” e aggiungendo
che “la forza di questa coalizione chiarisce a tutto il mondo che questa
non è soltanto la guerra degli Stati Uniti”.
Gli
obiettivi delle bombe USA, in ogni caso, non sono stati soltanto quelli
annunciati, cioè nei pressi di Raqqa e lungo in confine con l’Iraq, ma
anche nella provincia settentrionale di Idlib contro un altro gruppo integralista, il Fronte al-Nusra, ufficialmente affiliato ad al-Qaeda.
Inoltre,
gli americani hanno bombardato la città di Aleppo, prendendo di mira
l’organizzazione terroristica denominata Khorasan, formata in seguito a
defezioni dal Fronte al-Nusra. Questa organizzazione è stata
opportunamente introdotta alla maggior parte dell’opinione pubblica
internazionale solo pochi giorni fa, quando alcuni media americani ne
hanno parlato definendola ancora più pericolosa dell’ISIS, poiché i suoi
membri starebbero realmente progettando attentati “imminenti” contro
obiettivi occidentali.
Già durante il primo giorno di operazioni,
dunque, le forze americane sono andate ben al di là del mandato che
Obama aveva autorizzato - almeno a livello ufficiale - in relazione alla
Siria, visto che né il Fronte al-Nusra né Khorasan erano mai state
citate pubblicamente come possibili obiettivi.
L’ampiezza del
raggio d’azione degli Stati Uniti entro i confini siriani ha suscitato
molte aspettative per le reazioni del regime di Damasco. Nonostante le
smentite di Washington circa il possibile coordinamento con le forze di
Assad per colpire l’ISIS, il ministero degli Esteri della Siria nella
giornata di martedì ha affermato che gli USA avrebbero informato
l’ambasciatore di Damasco alle Nazioni Unite dell’operazione militare
poco prima che prendesse il via.
Successivamente, il Dipartimento
di Stato americano ha confermato questa versione, rivelando che
l’inviata all’ONU di Obama, il falco dell’interventismo “umanitario”
Samantha Power, aveva discusso dell’attacco con la sua controparte
siriana, aggiungendo però che gli USA “non hanno chiesto il permesso al
regime”.
Nei giorni scorsi, il regime di Assad aveva avvertito,
con più di una ragione, che un attacco unilaterale sul proprio
territorio sarebbe stato considerato come un’aggressione alla sovranità
del paese, pur senza minacciare ritorsioni.
I toni di martedì
sono apparsi ancora più cauti, anche se il ministro degli Esteri, Walid
al-Moallem, ha ricordato che “simili azioni [militari] possono essere
condotte solo nel rispetto del diritto internazionale” e ciò comporta
una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU o l’esplicito consenso
della Siria. Non essendoci stato né l’una né l’altro, Moallem ha
sottolineato come l’attacco americano contribuisca a “inasprire le
tensioni e a destabilizzare ulteriormente la situazione”.
Ancora
una volta, inoltre, i vertici del governo siriano hanno evitato di fare
riferimento a improbabili reazioni, ribadendo anzi la disponibilità del
regime a collaborare con “qualsiasi sforzo internazionale nella lotta al
terrorismo”, compreso quello messo in atto dagli USA.
Al di là
degli illusori appelli di Damasco agli Stati Uniti, vi sono ben pochi
dubbi che l’iniziativa decisa dalla Casa Bianca rappresenti una nuova
aggressione illegale di un paese sovrano, che in nessun modo rappresenta
una minaccia per gli americani, giustificandola con la necessità di
combattere i terroristi dell’ISIS, diretta emanazione, oltretutto, della
politica americana in Siria.
Washington sta infatti operando
ancora una volta per i propri interessi strategici - e quelli dei suoi
alleati, a cominciare dalle dittature del Golfo Persico - senza alcuna
autorizzazione del Palazzo di Vetro né, per quello che può valere, dello
stesso Congresso degli Stati Uniti.
Tant’è vero che, secondo il
presidente Obama, l’autorizzazione all’uso della forza votata dal
Congresso a favore dell’allora presidente Bush nel 2001, poco dopo l’11
settembre, sarebbe sufficiente a ordinare una nuova guerra in Siria
senza altri interventi del potere legislativo.
Questo ulteriore
svuotamento dei poteri del Congresso non ha comunque allarmato in
maniera particolare deputati e senatori a Washington, i quali hanno
quasi unanimemente applaudito alle bombe sulla Siria dopo avere
decretato la sospensione delle loro attività per due mesi, così da
potere svolgere la campagna per le elezioni di “medio termine” senza il
peso di un voto per autorizzare una nuova guerra.
L’unica
iniziativa approvata dal Congresso in merito al conflitto in Medio
Oriente è stata qualche giorno fa il piano di addestramento e
finanziamento della fantomatica opposizione “moderata” anti-Assad, che
Obama e il Pentagono vorrebbero spacciare come la forza di terra che
dovrebbe farsi carico di capitalizzare le incursioni aeree americane e
sconfiggere l’ISIS in Siria.
In realtà, come conferma anche
l’appena nata “alleanza” con le monarchie del Golfo sul fronte siriano,
la campagna bellica inaugurata martedì è un tentativo mascherato da
parte degli Stati Uniti di innescare un conflitto con il regime di
Assad, sfruttando qualsiasi episodio - reale o fabbricato - o creando un
apposito pretesto per estendere le operazioni militari contro le forze
regolari di Damasco.
La vigilia di guerra era stata infatti
segnata, tra l’altro, dalle nuove accuse rivolte alla Siria da parte del
segretario di Stato americano, John Kerry, di avere fatto uso di armi
chimiche (gas cloro) contro i civili, come in precedenza senza alcuna
prova concreta. Da Israele, il principale alleato degli USA in Medio
Oriente, sempre martedì è giunta inoltre la notizia dell’abbattimento di
un jet siriano che sarebbe entrato brevemente nello spazio aereo di Tel
Aviv sopra le Alture del Golan.
Questo episodio e le accuse di
Kerry dimostrano dunque ancora una volta quali e quante siano le opzioni
a disposizione di Washington per imprimere una svolta alla campagna
militare appena iniziata, così da puntare direttamente contro Damasco e
il regime di Assad nel momento più opportuno, come sempre dietro le
spalle degli americani e dell’opinione pubblica internazionale.
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