Molti pesi e diverse misure. Dietro il rigore di facciata dell'Unione Europea si articola sempre una complessa rete di contrappesi individualizzati che dipendono dalla forza economica relativa dei diversi paesi, dall'abilità dei rispettivi ministri e naturalmente dalle “storie” di ogni classe politica nazionale. Dopo oltre 20 anni di cucù berlusconiani (con firma di qualsiasi trattato, tanto non c'era chi potesse leggerlo e interpretarlo) intervallati da quanche signorsì prodiano (non si contrattava, per “recuperare la credibilità” dilapidata dal Caimano), il giovincello di Pontassieve conta come il due di bastoni quando regna denari. Ha un incarico serio – mantenere consenso intorno alle politiche dell'Unione Europea e fare del paese un paradiso per gli investitori multinazionali – ma sulle grandi questioni non può proprio metter bocca.
Si comprende forse meglio, dopo questa premessa, perché la Commissione europea stia mostrando due facce completamente diverse davanti alle scombicchierate manovre di Italia e Francia, con la prima teoricamente dentro i parametri di Maastricht (in realtà il solo rapporto deficit/Pil al limite del 3%) e i transalpini decisamente “fuori come un poggiolo” (il 4,4%).
Stando alle regole scritte nei trattati, insomma, è apparentemente paradossale che sia l'Italia a correre il rischio di ricevere numerosi “rilievi” Ue alla legge di stabilità. Non c'è pericolo di “bocciatura”, invece, se non altro perché significherebbe aprire una crisi di credibilità dell'eurozona di dimensioni colossali, con ricadute pesanti per tutti i paesi. Ma i “rilievi” Ue – potenza del linguaggio diplomatico – hanno la stessa obbligatorietà delle prescrizioni. Se il governo e il Parlamento (per quel che ormai conta) non dovessero correggere la manovra alla luce di quelle raccomandazioni, sarebbero in primo luogo “i mercati” a premere su titoli del debito pubblico, spread, investimenti esteri, ecc. Basta ricordare come abbiano “premuto” sugli scozzesi alla vigili del referendum sull'indipendenza per averne una qualche idea...
È un sistema di condizionamento ancora agli inizi (la prima volta è stato applicato per la legge di stabilità del 2013), per vincolare la dinamica dei debiti pubblici dei paesi che condividono la stessa moneta, ma che punta a diventare molto rapidamente il sistema di gestione del debito pubblico senza peraltro “mutualizzare” i rischi connessi.
Il doppio volto della Commissione è tutto “merito” della Germania. I fessi avevano pensato che se Roma e Parigi si presentavano “unite” nel disegnare “manovre” contenenti molte spese, per “sostenere la crescita” (senza entrare ora nel merito della coerenza tra obiettivi e strumenti messi in campo), Berlino sarebbe stata chiusa in un angolo e “costretta” a cedere, rinunciando almeno agli spigoli più graffianti dell'”austerità”.
Al contrario, Merkel sta agendo come ogni “padrone” che ha in mano il gioco: divide et impera. E quindi: correzioni serie da “consigliare” all'italietta renziana, per tramite di Barroso, e “piano di investimenti congiunti” tra Francia e Germania contando anche su gran parte dei “300 miliardi” promessi da Juncker nella prossima legislatura continentale (che si aprirà ufficialmente il primo novembre, con il passaggio di consegne tra Barroso e lo stesso Juncker).
I due paesi “asse” della Ue, infatti, hanno raggiunto un accordo, ieri a Berlino, nel corso di un vertice tra i ministri delle finanze e dell'economia (Wolfgang Schäuble, Sigmar Gabriel, Michel Sapin, Emmanuel Macron), impegnandosi a presentare entro novembre un documento congiunto sugli investimenti da realizzare nei due Paesi per “rilanciare la crescita”. Un normale e antico “patto bilaterale”, che bypassa allegramente l'Unione Europea e qualsiasi possibile politica comunitaria.
Con questo patto alle spalle sarà davvero difficile che la nuova Commissione possa esagerare nelle critiche alla legge di stabilità francese, che pure prevede un deficit al 4,3% del Pil, il rinvio di altri due anni del target del 3% e soprattutto una riduzione di appena lo 0,2% del deficit strutturale rispetto allo 0,8% chiesto da Bruxelles. Che invece sta facendo la faccia feroce, nei corridoi, perché l'Italia riduca il deficit dello 0,5% anziché dello 0,1 indicato nelle tabelle.
Parigi, oltretutto, non ha neppure presentato un vero e proprio “piano di tagli” (al contrario di quanto vanno facendo i maggiordomi italici da diversi anni a questa parte, con pesanti ricadute su welfare, pensioni e servizi pubblici in genere), ma semplicemente un rallentamento della progressione automatica della spesa pubblica.
Altri sacrifici la Francia non può fare, senza approfondire la sua crisi sociale e politica, che in questo momento vorrebbe dire consegnare il paese alla destra parafascista di Marine Le Pen. Ma non pensate che ciò sia dovuto a un “sentimento antifascista” residuo all'interno della Ue; banalmente, quel partitazzo nero ha in programma – almeno sulla carta – l'”uscita dall'euro”; quindi rappresenta un “pericolo comunitario”.
Il rilancio degli investimenti pubblici infrastrutturali, in Europa, dovrebbe essere supportato soprattutto da quei 300 miliardi di cui ha parlato il nuovo presidente della Commissione Juncker. Ma guarda caso, la Germania è l'unico Paese europeo a vantare risorse proprie con cui implementare e varare un programma di grandi proporzioni. Insomma: per poter usare parte delle risorse comunitarie per grandi opere che interesseranno soprattutto la Germania e qualche direttrice che coinvolga anche la Francia.
Il guitto di Pontassieve si avvia dunque a completare il "semestre europeo a presidenza italiana" senza aver conseguito alcun risultato. Men che meno quello di costruire un'alleanza sufficiente a scalfire l'"austerità" tedesca. Anche se, ci mancherebbe..., ci racconterà il contrario.
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