Pubblichiamo la versione integrale di un articolo apparso su «Il Manifesto» del 19 settembre 2014
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di GIORGIO GRAPPI
Sotto la guida del ministro della cultura Ravindra Singh, il
governo indiano ha recentemente lanciato un progetto di ricerca
quinquennale denominato «Mausam/Mawsim: vie marittime e paesaggi
culturali». Il progetto, promosso insieme al Centro Nazionale
Gandhi per le Arti, ambisce a rivitalizzare la memoria di un passato
glorioso, quando tra il cinquecento e il mille l’India era il punto di
snodo fondamentale dei commerci che attraversavano l’Oceano indiano. Il
nome del progetto fa riferimento alla stagione nella quale le navi
potevano navigare in modo sicuro: il Mausam, o Mawsim in arabo. È questa
l’origine del nome «monsone», una stagione segnata da venti
particolari, lungo i quali si disegnavano le rotte commerciali. Scopo del progetto è dunque di riscoprire le connessioni culturali prodotte da queste rotte tra le città costiere,
un tempo tappe di percorsi che univano località oggi appartenenti ai
diversi Stati che affacciano sull’Oceano indiano. Come si legge nella
presentazione, tuttavia, il progetto pone anche l’accento su come queste
connessioni avessero prodotto delle conoscenze e idee condivise che
andavano ben oltre la costa, per estendersi nelle regioni interne
dell’Asia, dell’Africa e della Penisola arabica. Il progetto, svolto in
collaborazione con l’UNESCO, parla di storia, ma pare avere uno sguardo
molto attento al presente e al futuro dello sviluppo capitalistico
globale.
La guerra delle mappe
Come osservato dal «Times of India», il progetto «Mausam» è il
primo segno del tentativo indiano di rispondere in modo organico
all’estensione delle operazioni a guida cinese nell’area. Il
«Mausam» sarebbe infatti lo strumento individuato dall’India per
lanciare una contronarrativa rispetto al discorso della «nuova via della
seta», intorno al quale la Cina ha costruito le premesse per
un’iniziativa politica e geoeconomica senza precedenti. L’idea di base
dietro la nuova «via della seta» è che l’attuale fase economica si fondi
sulla possibilità di avviare operazioni logistiche – inclusi corridoi
commerciali, di trasporti e infrastrutturali – su scala globale per
rafforzare supply chains ormai transnazionali. Attraverso
l’immagine della «via della seta», l’Asia centrale è divenuta un
potenziale partner strutturale della nuova ‘fabbrica del mondo’
e la Cina ha evocato la possibilità che siano molti i paesi
direttamente coinvolti nel suo processo di crescita. Ma non c’è solo
questo. L’evocazione dell’antica via terrestre deve scontare le
turbolenze geopolitiche delle zone attraversate – non da ultime quelle
che coinvolgono le zone di guerra della Mesopotamia e del Mar Nero – e
la difficoltà di pensare collegamenti capaci di attraversare regimi
giuridici, zone geografiche e standard tecnologici differenti senza
perdere in efficienza e velocità. Per questo il centro nevralgico della
nuova «via della seta» è oggi lo sviluppo di una via marittima tra Cina
ed Europa, che si basa sul mezzo di trasporto che più di tutti ha
contribuito a modificare la scala della produzione dagli anni ‘70: la
nave portacontainer, fattore ormai imprescindibile delle catene
produttive globali. La mappa della nuova «via della seta» marittima
individua anche la zona di Kolkata, nello Stato indiano del Bengala
occidentale, come scalo, ma ciò non può bastare per un paese che ormai
rifiuta il ruolo di comprimario e ha deciso di ritagliarsi il proprio
posto nel «secolo asiatico». Accanto all’evidente attrattiva delle
prospettive d’inclusione nei nuovi corridoi transnazionali a guida
cinese, l’India è infatti intenta a sviluppare una propria strategia che
vede insieme il rilancio della produzione interna, la ricerca di
partner nell’area e un’offensiva anche sul piano culturale. Si
comprende così come il progetto «Mausam» sia funzionale al disegno di
una diversa mappa dei commerci marittimi e dei possibili corridoi del
futuro nella quale il subcontinente, in tutta la sua estensione
costiera, rappresenta il fulcro e non solo un punto di passaggio.
La politica delle infrastrutture
Se da un lato è evidente il tentativo di
rafforzare la partnership economico-commerciale con il Giappone, dove
il premier Modi si è recato per una lunga visita ufficiale nella quale
la Cina era il convitato di pietra, il progetto «Musam» è forse
il primo reale tentativo da parte dell’India di costruire una
contronarrazione da opporre alla diplomazia economico-culturale
pragmatica sviluppata dalla Cina con il discorso della «nuova
via della seta». Questa si basa sull’immagine di una potenza economica
pacifica, che non pretende di promuovere valori superiori se non in
quello del mercato della produzione capitalistica globale. Non a caso,
le illustrazioni ufficiali della «nuova via della seta» pongono
l’accento sulla possibilità di creare, intorno alle rotte commerciali,
una comunità con «interessi, destino e responsabilità comuni».
Coerentemente con questo discorso, la Cina ha fatto dell’investimento in infrastrutture una nuova frontiera mobile al centro della sua politica geoeconomica più recente.
Se in Cina le politiche interne mirano a un prolungamento verso ovest
dei processi d’industrializzazione e modernizzazione, che si sono
concentrati nell’ultimo ventennio nelle zone e regioni a ridosso delle
grandi aree metropolitane della costa, è attraverso l’investimento
estero in infrastrutture che si sviluppa una decisa penetrazione in
settori strategici delle operazioni logistiche globali. La costruzione
di infrastrutture rappresenta tanto uno degli investimenti produttivi
per impegnare imprese del settore, quanto uno strumento per estendere in
modo coordinato le operazioni economiche del capitale cinese. Per fare
solo due esempi a noi più vicini: l’impegno nell’ammodernamento
della rete autostradale e ferroviaria di diversi paesi dell’Est Europa è
direttamente proporzionale alla presenza crescente di industrie cinesi
nelle zone economiche speciali che fanno ormai parte del
panorama europeo; d’altro canto, la concessione trentennale
all’operatore portuale e navale cinese Cosco del porto del Pireo, in
Grecia, è un’espressione concreta di ciò che rappresenta la nuova via
navale della seta. È, infatti, innanzi tutto una complessa ridefinizione della geografia dei porti a essere messa in gioco.
Non a caso la Cina è da anni il primo produttore mondiale di container e
tra i principali utilizzatori delle nuove gru post-post-panama, in
grado di accogliere e scaricare l’ultimo prodotto dell’industria navale,
le ULCC (navi portacontainer ultra-large con una capacità di oltre
dodicimila container). La corsa ad accaparrarsi le operazioni di carico
scarico delle navi portacontainer modifica le rotte commerciali e muove
investimenti e operazioni di ristrutturazione nei porti. Collegare
i corridoi del mare con i corridoi terrestri e le nuove zone produttive
sarà una delle poste in gioco dei prossimi decenni.
Una politica globale dei corridoi
Difficilmente un progetto come «Musam»
riuscirà a scalfire la posizione assunta dalla Cina. Esso è tuttavia
rivelatore di una direzione imboccata dal governo Modi, capace di
ridefinire il proprio background conservatore e ultranazionalista nella direzione di un uomo del mercato e del capitale globale,
radicalizzando politiche già avviate dal precedente governo. Lo sforzo
di recuperare il ritardo infrastrutturale è stato uno dei cavalli di
battaglia che hanno assicurato a Modi l’appoggio delle élite economiche
del paese e l’interesse degli investitori internazionali. A ciò si
accompagna la sicurezza di un governo pronto a usare la mano dura contro i diritti dei lavoratori e le proteste operaie.
Il consenso diffuso verso l’aria di cambiamento e modernizzazione che
Modi sembra portare, in particolare tra i giovani più istruiti, non sarà
infatti sufficiente a permettere la realizzazione dei grandi progetti
come il diamond quadrilateral project, l’ambizioso disegno di sviluppare la politica dei corridoi industriali
su scala continentale, affiancando alla direttrice Delhi-Mumbai, quelle
Amristar-Delhi-Kolkata, Bangalore-Chennai e Bangalore-Mumbai. Puntando
alla costruzione di reti ferroviarie ad alta velocità e capacità (TAV),
nuove zone e regioni industriali e città modello, questi
progetti sono grandi esercizi di una politica dei corridoi che si
sviluppa attraverso operazioni logistiche la cui scala non si misurerà
sul piano locale. L’enfasi con la quale l’India ha imboccato
questa strada pare alludere alla volontà di percorrere una via nuova,
che solo parzialmente ricalca il modello del boom cinese fondato sulle
zone economiche speciali e lo sfruttamento di manodopera migrante. La
posta in gioco per l’India è altissima, in particolare sul piano delle
risorse energetiche e del consumo di acqua, veri punti deboli di questi
progetti. Più che uno scontro aperto con la Cina, tuttavia, è possibile
immaginare una competizione che avrà come effetto quello di
radicalizzare le priorità geoeconomiche che ruotano intorno a operazioni
logistiche come la «nuova via della seta» e la politica dei corridoi,
approfondendo uno dei tratti centrali dello sviluppo capitalistico
contemporaneo. Queste politiche prefigurano un nuovo rapporto
tra le operazioni globali del capitale e le politiche degli Stati, dove
questi ultimi agiscono come attori all’interno di complessi assemblaggi di potere economico-finanziari.
Anche se questi sviluppi sono ancora poco considerati dai movimenti, ciò dovrebbe se non altro aiutarci a comprendere che pensare oggi alle politiche europee – che includono la realizzazione di una rete di corridoi infrastrutturali trans-europei (TEN-T) – o a quelle italiane senza considerare questo piano globale popolato da nuove politiche statali e catene della produzione transnazionali è un esercizio ormai velleitario.
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