di Michele Paris
L’inizio di
questa settimana ha fatto segnare un significativo aumento dell’impegno
degli Stati Uniti nella guerra contro lo Stato Islamico (IS) in
territorio siriano e iracheno, assieme a un’apparente svolta da parte
della Turchia nel rispondere alle sollecitazioni occidentali per
intervenire nella crisi in atto oltre il proprio confine meridionale.
Già
domenica scorsa, Washington ha recapitato ai curdi siriani che si
battono contro l’ISIS nella città di Kobane una serie di carichi con
armi, munizioni e materiale medico. La decisione era stata comunicata il
giorno prima dallo stesso presidente Obama al suo omologo turco
Erdogan, nonostante quest’ultimo si fosse mostrato ripetutamente
contrario a un’iniziativa simile.
Secondo l’ex premier, infatti,
il Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdo in Siria e il suo braccio
armato - Unità di Protezione Popolare (YPG) - sarebbero organizzazioni
terroristiche né più né meno come il Partito dei Lavoratori del
Kurdistan turco (PKK), ritenuto tale anche da USA e UE.
L’accettazione
da parte del governo di Ankara dei rifornimenti americani ai curdi
siriani potrebbe dunque essere il risultato di un accordo con gli Stati
Uniti. I contorni di esso, tuttavia, non sono chiari, anche se la
Turchia chiede da tempo che l’intervento militare in corso in Siria
venga utilizzato da subito per rimuovere il regime di Assad.
La
concentrazione delle ostilità in Siria tra l’ISIS e i suoi oppositori
nella città di Kobane a maggioranza curda sta portando in ogni caso alla
luce tutte le divisioni esistenti tra la Turchia e gli Stati Uniti su
un conflitto per il quale i due governi sono in larga misura
responsabili.
Erdogan continua a escludere l’ipotesi sia di
fornire aiuti materiali al PYD e all’YPG in Siria sia di consentire ai
militanti del PKK in territorio turco di oltrepassare il confine per
unirsi alla lotta contro l’ISIS condotta dagli appartenenti alla loro
etnia in Siria.
Una delle tante contraddizioni in cui rischia di
affogare il governo turco riguarda d’altra parte i rapporti con le forze
curde. Mentre ha stabilito ottimi rapporti con i curdi della regione
autonoma dell’Iraq, Ankara continua a considerare una grave minaccia
alla propria stabilità un eventuale successo contro l’ISIS dei curdi
siriani. Questi ultimi hanno infatti legami molto stretti con il PKK,
protagonista da tre decenni di una lotta spesso sanguinosa con le
autorità centrali turche.
Per questa ragione, malgrado le
richieste degli USA di agire per arginare l’avanzata dell’ISIS su Kobane
nel Kurdistan siriano, il governo Erdogan ha visto finora con una certa
soddisfazione le imprese dello Stato Islamico oltre i propri confini.
La settimana scorsa, forze aeree turche avevano addirittura bombardato
postazioni del PKK nei pressi del confine con l’Iraq, mettendo a serio
rischio la tregua siglata dalle due parti nel marzo del 2013.
Settimane
di pressioni e varie visite ad Ankara di delegazioni americane hanno
però alla fine convinto la Turchia a consentire almeno il transito dei
peshmerga curdi dell’Iraq sul territorio turco per raggiungere Kobane e
partecipare alla guerra contro l’ISIS.
La
concessione, tuttavia, appare come un tentativo da parte turca di
togliersi di dosso le critiche per non avere fatto nulla di fronte
all’assedio dei curdi siriani da parte dei jihadisti pur mantenendo
sostanzialmente invariata la propria posizione sulla crisi in atto.
Anche
i media ufficiali in Occidente hanno sottolineato come la decisione di
Erdogan sia poco più di una mossa propagandistica, visto che il
possibile afflusso dei peshmerga in Siria servirebbe anche a
controbilanciare l’influenza delle formazioni legate al PKK. Inoltre,
non sembra essere stata presa ancora nessuna iniziativa da parte del
governo autonomo curdo in Iraq sull’invio dei peshmerga in Siria, tanto
più che questi ultimi sono a loro volta duramente impegnati contro
l’ISIS sul proprio territorio.
Se il governo turco è costretto
quindi a una serie di acrobazie diplomatiche nei confronti delle varie
fazioni curde per mantenere una facciata di coerenza nella gestione
schizofrenica della propria politica estera, gli Stati Uniti sembrano
puntare sempre più apertamente sulle milizie curde per fermare l’ISIS e
avanzare i propri interessi in Medio Oriente, senza troppi imbarazzi se
alcune di esse sono da loro stessi bollate come organizzazioni
“terroristiche”.
Dal momento che il reale obiettivo di Washington
nel lancio della guerra all’ISIS è rappresentato dalla deposizione del
regime di Damasco, le forze curde in Siria potrebbero essere dirottate
in un secondo momento verso uno scontro frontale con le forze regolari.
Ciò appare tanto più probabile quanto l’opposizione “moderata” al regime
di Assad, che avrebbe dovuto teoricamente costituire la forza terrestre
da affiancare alle incursioni aeree degli USA, risulta del tutto
inefficiente.
Gli USA potrebbero cercare così di spingere i curdi
siriani a stabilire una qualche collaborazione con alcune forze
“ribelli” selezionate, a cominciare dal Libero Esercito della Siria. Un
simile piano comporterebbe però la rottura non solo dei legami con
l’Iran ma anche di quella sorta di patto di non aggressione tra il
regime siriano e i curdi del PYD che ha permesso a questi ultimi di
ritagliarsi uno spazio di fatto autonomo nel nord della Siria.
Gli
Stati Uniti e i paesi della “coalizione” anti-ISIS potrebbero comunque
prospettare maggiori spazi per la minoranza curda in una Siria privata
di Assad, così forse da convincere i leader di questa etnia a schierarsi
senza riserve a fianco dell’opposizione al regime e trasformarsi a
tutti gli effetti in una forza al servizio dell’Occidente.
Come
appare evidente, dunque, l’agenda siriana di Washington e Ankara
coincide in maniera sostanziale, poiché entrambi i governi operano per
mettere da parte Assad e instaurare un governo-fantoccio che ribalti a
loro favore il gioco di alleanze in Medio Oriente. Le differenze che
stanno emergendo in queste settimane sono invece di natura puramente
tattica, sulle modalità cioè con cui combattere o servirsi dell’ISIS per
raggiungere uno scopo condiviso.
Che
l’evoluzione del conflitto possa avere assunto una dinamica che
riflette le aspettative immediate della Turchia sembra essere suggerito,
tra l’altro, da una notizia diffusa qualche giorno fa dal cosiddetto
Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, di stanza in Gran Bretagna.
Quest’ultimo ha sostenuto che l’ISIS sarebbe entrato in possesso di tre
aerei da guerra e, con l’aiuto di ex ufficiali dell’esercito iracheno,
starebbe addestrando alcuni suoi membri per poterli pilotare.
La
notizia, sia pure non confermata dal governo americano, potrebbe fornire
la giustificazione per imporre una no-fly zone sulla Siria, come chiede
da tempo proprio la Turchia, così da colpire principalmente le forze
aeree e contraeree del regime.
La più recente escalation del
conflitto in Medio Oriente è stata registrata infine martedì, con il
governo britannico che ha reso nota la decisione di operare “a breve”
missioni di ricognizione con i droni sui cieli della Siria. L’obiettivo
ufficiale sarebbe quello di raccogliere informazioni di intelligence
sull’ISIS e, come ha sostenuto il ministro della Difesa di Londra,
Michael Fallon, di “proteggere la nostra sicurezza nazionale dalla
minaccia del terrorismo proveniente” dal teatro di guerra siriano.
Nel
mese di settembre, il parlamento della Gran Bretagna aveva approvato a
larga maggioranza le incursioni aeree contro l’ISIS in Iraq ma non in
Siria. La decisione di martedì, se anche non autorizza ancora il lancio
di bombe sulla Siria, coinvolge sempre più il governo di Londra nel
nuovo conflitto orchestrato dagli Stati Uniti per rimuovere con la forza
il regime di Bashar al-Assad.
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