E’ noto che Ministero della Difesa e Ministero dell’Istruzione, hanno firmato un protocollo che consentirà ad ufficiali e propagandisti delle forze armate di andare a fare lezioni e conferenze nelle scuole il prossimo anno proprio sulla Prima Guerra Mondiale. Operazione pericolosa da almeno due punti di vista: la storia della Prima Guerra Mondiale e della partecipazione italiana sarà priva di ogni analisi critica sulle cause e le conseguenze del Grande Massacro del 1914-18. In secondo luogo la guerra, la politica militare, gli interventi bellici all’estero, sono ormai rientrati alla grande nell’agenda politica ed ideologica dei governi europei. Intorno a questa va costruito consenso, legittimazione, sostegno, soprattutto tra i ragazzi, gli alunni, le nuove generazioni che non possono avere memoria diretta (i nonni e i bisnonni sono tutti morti) delle due devastanti guerre mondiali.
Infine, ma non per importanza, la denuncia della Prima Guerra Mondiale come guerra interimperialista, è stata del tutto ripulita da ogni approfondimento e da ogni attualizzazione nel contesto delle tensioni e delle guerre che oggi incombono intorno all’Europa, da est a sud.
I compagni della Rete dei Comunisti, e pochissimi altri, stanno realizzando una serie di conferenze in diverse città italiane sul centenario del grande massacro della prima guerra mondiale. In molti casi alla discussione si sono affiancate iniziative di piazza contro le guerre e il militarismo di oggi, in Ucraina e Medio Oriente soprattutto, come a Pisa, a Venezia, a Roma.
Il 21 settembre scorso, la Rete dei Comunisti ha organizzato una conferenza con due storici marxisti – Giorgio Gattei e Giuseppe Aragno – le cui relazioni – insieme ad altri contributi – verranno pubblicate sul prossimo numero della rivista Contropiano. Venerdì prossimo – 7 novembre – a Roma, si svolgerà la seconda parte di quella conferenza, più incentrata sulla dimensione del contesto culturale e artistico intorno alla Prima Guerra Mondiale.
In questi anni è stato costruito un senso comune innocuo e una narrazione ufficiale strumentale intorno al grande massacro di quel conflitto. Ripulendo la storia anche dai suoi dettagli ignobili e scomodi che stridono con ogni retorica nazionalista.
La storica Giovanna Procacci, ad esempio, ha dimostrato senza ombra di dubbi che centomila dei seicentomila soldati italiani morti nella Prima Guerra Mondiale, non li fece il «nemico», ma lo Stato Maggiore e i governi del re. Erano prigionieri di guerra ridotti alla fame sia dalla brutalità del nemico che da quella del loro governo. La Croce Rossa Internazionale chiese invano all’Italia cibo e coperte per i soldati italiani prigionieri, ma essi furono lasciati al loro destino e morirono di stenti. Chi aveva voluto la guerra ritenne la loro resa sui campi di battaglia un “tradimento” e lasciò morire i soldati caduti in mano al nemico. Quei centomila uomini sono stati espulsi dalla memoria di Stato, figuriamoci dalle celebrazioni del 4 novembre o dalle lezioni che gli ufficiali delle forze armate faranno nelle scuole il prossimo anno.
Per informazione e controinformazione riportiamo alcuni materiali pubblicata da Giovanna Procacci nel suo libro “Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra”:
“Le testimonianze che ci provengono dalle pagine della relazione della CIV, o dalle memorie dei sopravvissuti, ci trasmettono immagini di orrore. Nelle «città dei morenti» - come vennero definiti i campi esseri inebetiti dalla fame si aggiravano fra mucchi di rifiuti, razzolavano alla ricerca di avanzi putrefatti, si gettavano gli uni contro gli altri per afferrare il pezzo di pane che il nemico gettava nel loro gruppo. Per lenire la fame i soldati ingerivano grandi quantità di acqua, e ingoiavano erba, terra e anche sassi, legno, carta, con conseguenze letali: «Molti morivano di dissenteria e di polmonite, prendevano la dissenteria mangiando l'erba del campo come pure gli avanzi delle casse di spazzature», riferì un prigioniero francese rimpatriato. A Mauthausen «noi ufficiali vedevamo spesso i soldati prigionieri che dal loro gruppo venivano ogni mattina nel nostro reparto a raccogliere le immondizie; li vedevamo spesso slanciarsi nei canali di scolo e verso le casse dei rifiuti a raccattare spine e teste di aringa, rimasugli di patate e ogni sorta di roba cruda, sporca e fradicia». «Anche noi soffrivamo la fame, come soffrivamo il freddo e tutti gli altri disagi della prigionia; ma la condizione dei soldati ha qualche cosa di particolare che la nostra parola non ha il coraggio di riferire».I nomi – Mathausen – e le immagini descritte – "folle amorfe di uomini scheletriti" – sembrano attagliarsi più agli orrori dei lager nazisti che al periodo 1914-1918. Eppure di questo si tratta. Forse il nazismo non si è inventato niente che gli stati imperialisti non avessero già praticato nelle colonie e sui prigionieri di guerra prima, durante e dopo la Prima Guerra Mondiale. La Rivoluzione d'Ottobre fu l'unica e potente alternativa a tutto questo. Ma ci sarà qualcuno che avrà il coraggio di dirlo alle nuove generazioni?
Gli osservatori esterni restavano inorriditi alla vista di quelle folle amorfe di uomini, scheletriti, coperti di stracci, che si adunavano intorno a loro chiedendo da mangiare. A Lamsdorf, in Slesia, i visitatori che vi si recarono dopo l'armistizio «arretrarono allibiti dinnanzi a certi paurosi spettri che videro uscire carponi di sotterra», da buche scavate per resistere al freddo. Un ufficiale medico rimpatriato da Sigmundsherberger (Italiani morti 2363) riferì come gli ufficiali, che avevano creato una commissione di beneficenza a favore dei soldati, dopo una prima visita nelle baracche, non si fossero sentiti più la forza di tornarvi: «...senza più nulla di umano quei disgraziati muoiono in proporzioni veramente impressionanti - o contraggono gravi malattie polmonari - o hanno arti congelati che poi vanno in cancrena, senza che si possa curarli per difetto di medicinali. Il nutrimento è assolutamente insufficiente (non si superavano quando andava bene le 900 calorie) qualitativamente e quantitativamente». Un'infermiera della CRI, trattenuta dopo Caporetto nel cortile del castello di Lubiana, così descrisse un gruppo di prigionieri italiani: «Erano circa trecento: tutti laceri sporchi, denutriti. Sembravano scheletri ambulanti che si muovessero per forza d'inerzia, inconsci ed insensibili oramai ad ogni espressione di vita civile e ad ogni ricordo”.
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