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01/11/2014

Una delle cifre del mondo di oggi: droga, droga, droga, droga



Pubblichiamo un altro articolo dal nostro ultimo numero cartaceo:

DROGA, DROGA DROGA, DROGA!

L’abuso di droga, di sostanze stupefacenti, è senza dubbio una delle cifre del mondo di oggi.

Imprenditori e muratori consumano quotidianamente cocaina per aumentare le prestazioni lavorative, trentenni nostalgici del periodo in cui andavano a fumare nei giardini trovano nel passare tutta la sera a farsi le canne con gli amici sparando cazzate l’unico momento di evasione da un preoccupante presente di precariato e dalla prospettiva di un futuro ancora più incerto, adolescenti si sbronzano fino all’incoscenza o fino a piantarsi in un albero, ragazzini nati nel ventunesimo secolo chiedono ai ragazzi più grandi nei giardini se hanno un po’ di MDMA.

Davanti a tale proliferazione del consumo di sostanze stupefacenti gli approcci di questa società sono stati diversi, e sono cambiati col tempo.

C’è l’approccio moralista, tipicamente cattolico, che condanna l’uso di droga come male assoluto, propinando slogan idioti come “il vero sballo è dire no”. Chi si sia sballato almeno una volta nella vita sa che è una cazzata enorme.

C’è l’approccio criminalizzante, più tipico dei paesi protestanti, ma che ha avuto il suo momento anche da noi: il drogato viene considerato un delinquente e sbattuto in carcere, insieme ai veri delinquenti o presunti tali. Si è visto dove porta una politica del genere: sovraffollamento delle carceri, come se ce ne fosse bisogno.

La palese futilità di questi due approcci ha portato allo sviluppo di atteggiamenti più morbidi da parte della società in cui viviamo, sostenuti da ambienti più o meno di sinistra. Così è nato l’approccio medicalizzante: il drogato è un deviante, paragonabile o identificabile con un soggetto che ha disturbi psichici, e va perciò aiutato, curato da specialisti, medici, psicologi, assistenti sociali. È l’approccio dei nostri SerT, Servizi per le Tossicodipendenze, i servizi delle ASL dove finisce in generale chiunque sia trovato in possesso di sostanze illegali. La reale utilità di questi servizi è quantomeno dubbia, soprattutto quando si tratta di droghe leggere o di usi sporadici di sostanze che non generano un alto grado di dipendenza.

Ma poi, chi fa uso di droghe ha davvero bisogno di essere “aiutato”? Quello che preoccupa senz’altro le istituzioni e il pubblico sono i comportamenti socialmente pericolosi che conseguono all’uso delle sostanze, la guida in stato di alterazione psicofisica e così via. Tuttavia è facile notare che ci sono usi accettati socialmente e che si integrano “perfettamente” nel mondo in cui viviamo: la cocaina è la droga del successo, e il suo uso per fini lavorativi non può che essere salutato con gioia da un sistema che ha fatto della produttività un mantra indiscutibile. L’alcol, d’altra parte, che è ben più pericoloso di tante altre sostanze, è perfettamente legale; l’LSD invece, il cui uso a fini terapeutici e addirittura di crescita personale è ben documentato dal lavoro di Stanislav Groff, psichiatra di origine ceca, è proibito non solo nel suo uso “di strada”, ma perfino in ambito medico, ed il suo utilizzo è rimasto un’esclusiva dei militari e dei servizi segreti, che ne hanno fatto un uso tutt’altro che apprezzabile (come gli esperimenti di controllo mentale della CIA noti come progetto MKULTRA). Le istituzioni sanitarie, d’altro canto, non si peritano di somministrare morfina ai pazienti con la cosiddetta terapia del dolore. Perfino la ketamina è un farmaco riconosciuto.

Anche in questo campo, come ovunque, lo stato di cose presente è gravido di contraddizioni.

L’approccio più recente escogitato per affrontare la diffusione dell’uso di sostanze è quello della riduzione del danno: si tratta di un approccio pragmatico, che vede nella diffusione delle droghe un mero dato di fatto irriducibile e si limita a proporre soluzioni per evitare che l’assunzione di droga diventi qualcosa di pericoloso per sé e per gli altri, o quanto meno ridurre il danno, appunto. Si va dalla distribuzione di materiale sterile per i tossicodipendenti per evitare la diffusione di malattie infettive fino all’allestimento di chill out rooms, ovvero stanze dove smaltire la botta, in contesti quali le discoteche e i rave party.

Una parte importante è svolta dall’informazione sugli effetti delle sostanze.

A Firenze esiste l’interessante caso del Centro Java, che si trova in centro all’angolo fra via Pietrapiana e via Fiesolana, che sostanzialmente porta avanti la linea della riduzione del danno. Abbiamo pubblicato un’intervista ai suoi operatori sul nostro sito. Purtroppo, benché si tratti di un progetto basato su fondi pubblici, i politici della nostra città non si sono mai dimostrati molto interessati ad esso, preferendo usare la città come tramplino di lancio per la politica nazionale o semplicemente troppo impegnati nel combattere il “degrado” scacciando i lavavetri e mettendo sempre più telecamere e polizia ad ogni angolo.

Benché la riduzione del danno costituisca un notevole passo in avanti rispetto agli altri approcci, a nostro avviso è necessario fare un salto di qualità nell’analisi del fenomeno delle sostanze. Altrimenti restiamo in una prospettiva di mero contenimento e gestione della situazione senza andare al cuore dei problemi soggiacenti.

Innanzi tutto vi sono questioni strutturali: la produzione e il commercio di sostanze è un’attività economica non diversa da tante altre, ed anzi sempre fiorente e che non conosce crisi. Ne è la prova il crescente potere della criminalità organizzata, in Italia come altrove. In Messico i narcos sono ormai delle entità statali che controllano il territorio con il proprio esercito (uno di questi gruppi pare possegga perfino un sottomarino). In Giappone la Yakuza è solo l’altra faccia del potere statale. Nel nostro paese poi la situazione è ben nota e non ci dilungheremo su questo. Ci limitiamo a sottolineare che quando si parla di droga si parla innanzi tutto di interessi economici.

Vi è poi un aspetto di controllo sociale al quale abbiamo già accennato: la proibizione dell’uso di LSD all’indomani della rivoluzione psichedelica o la nuova ondata di eroina seguita all’invasione statunitense dell’Afghanistan non possono essere solo dei casi.

Abbiamo parlato anche dell’uso performativo delle sostanze, ed entriamo quindi nella dimensione lavorativa che oggi domina la vita della maggior parte degli uomini. Una dimensione dominata dalla alienazione, ovvero dalla separazione dell’uomo dal prodotto del suo lavoro; detto in altre parole dalla mancanza di senso della propria attività. Una mancanza di senso che non può che portare al disagio esistenziale, e quindi all’abuso di sostanze.

Queste ultime considerazioni ci permettono di intravedere il cuore della questione: la presenza di pratiche di alterazione della coscienza, di cui l’assunzione di stupefacenti è un sottoinsieme, ha caratterizzato tutte le civiltà. Ma il ruolo assegnato a queste pratiche è stato diverso a seconda della cultura. Oggi, specie in occidente, tali pratiche sono ridotte a fenomeni di devianza sociale, ma in altri tempi e in altri luoghi sono state strumenti di iniziazione e di ricerca spirituale.

Lo sciamanesimo e i riti di possessione sono presenti in molte culture definite “primitive”; sono culture che prevedono per la coscienza diverse fasi, tutte ugualmente accettate. Ciò che da noi viene interpretata come pazzia (o psicosi, come preferiscono esprimersi gli specialisti della mente) viene vista come contatto con l’invisibile, con il sacro: e mentre da noi la società non ha altro da offrire al soggetto “impazzito” che una sterile terapia e una separazione dalla propria famiglia e dalla propria comunità, altrove si propongono vie d’uscita che comportano una assunzione di responsabilità da parte dei gruppi sociali e addirittura la formazione di nuovi.

Recentemente questi differenti approcci alle patologie della mente sono stati recuperati in ambito psichiatrico con l’etnopsichiatria, che prevede al posto delle terapie convenzionali la messa in atto di veri e propri riti tratti dalle tradizioni di appartenenza dei soggetti. Purtroppo sono pratiche che valgono solo per le etnie che mantengono il ricordo di queste tradizioni, cosa che non vale per gli occidentali.

L’occidente infatti, con il capitalismo, ha prodotto una civiltà che invece prevede un’unica fase per la coscienza, che possiamo riassumere così: lavorare, consumare e non rompere i coglioni. Tutto ciò che esce dal binario della produttività viene vista come devianza, al limite come pazzia. Non stupisce che poi le persone, giovani e meno giovani, cerchino l’evasione da questa prigione mentale nei modi più estremi, dalla partecipazione ai rave party, che quanto meno mantengono un aspetto gioioso e di condivisione, fino ai disperati che passano il tempo premendo un bottone davanti allo schermo di un videopoker (ma quelli sono legali, per carità, e sono in tutti i bar).

La modernità tecnologica ci ha resi tracotanti, pensiamo di sapere tutto e di potere tutto. Ci mancano gli strumenti per interagire con l’ignoto, con ciò che trascende la nostra potenza; non lo rispettiamo, per questo ci schiaccia non appena irrompe nelle nostre vite sotto la forma di un banale imprevisto o di una disgrazia.

Sarei pronto a scommettere che, se l’esame di maturità prevedesse anche un viaggio di dodici ore in stato alterato di coscienza, cose come il “disagio giovanile” diverrebbero presto un lontano ricordo. Ma finché persiste il capitalismo, una prospettiva del genere, a livello di massa, è impensabile.

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