Pubblichiamo un altro articolo dal nostro ultimo numero cartaceo:
DROGA, DROGA DROGA, DROGA!
L’abuso di droga, di sostanze stupefacenti, è senza dubbio una delle cifre del mondo di oggi.
Imprenditori e muratori consumano
quotidianamente cocaina per aumentare le prestazioni lavorative,
trentenni nostalgici del periodo in cui andavano a fumare nei giardini
trovano nel passare tutta la sera a farsi le canne con gli amici
sparando cazzate l’unico momento di evasione da un preoccupante presente
di precariato e dalla prospettiva di un futuro ancora più incerto,
adolescenti si sbronzano fino all’incoscenza o fino a piantarsi in un
albero, ragazzini nati nel ventunesimo secolo chiedono ai ragazzi più
grandi nei giardini se hanno un po’ di MDMA.
Davanti a tale proliferazione del
consumo di sostanze stupefacenti gli approcci di questa società sono stati diversi, e
sono cambiati col tempo.
C’è l’approccio moralista, tipicamente cattolico,
che condanna l’uso di droga come male assoluto, propinando slogan
idioti come “il vero sballo è dire no”. Chi si sia sballato almeno una
volta nella vita sa che è una cazzata enorme.
C’è l’approccio criminalizzante, più tipico dei paesi protestanti,
ma che ha avuto il suo momento anche da noi: il drogato viene
considerato un delinquente e sbattuto in carcere, insieme ai veri
delinquenti o presunti tali. Si è visto dove porta una politica del
genere: sovraffollamento delle carceri, come se ce ne fosse bisogno.
La palese futilità di questi due
approcci ha portato allo sviluppo di atteggiamenti più morbidi da parte
della società in cui viviamo, sostenuti da ambienti più o meno di
sinistra. Così è nato l’approccio medicalizzante: il
drogato è un deviante, paragonabile o identificabile con un soggetto che
ha disturbi psichici, e va perciò aiutato, curato da specialisti,
medici, psicologi, assistenti sociali. È l’approccio dei nostri SerT,
Servizi per le Tossicodipendenze, i servizi delle ASL dove finisce in
generale chiunque sia trovato in possesso di sostanze illegali. La
reale utilità di questi servizi è quantomeno dubbia, soprattutto quando
si tratta di droghe leggere o di usi sporadici di sostanze che non
generano un alto grado di dipendenza.
Ma poi, chi fa uso di droghe ha davvero
bisogno di essere “aiutato”? Quello che preoccupa senz’altro le
istituzioni e il pubblico sono i comportamenti socialmente pericolosi
che conseguono all’uso delle sostanze, la guida in stato di alterazione
psicofisica e così via. Tuttavia è facile notare che ci sono usi accettati socialmente e che si integrano “perfettamente” nel mondo in cui viviamo:
la cocaina è la droga del successo, e il suo uso per fini lavorativi
non può che essere salutato con gioia da un sistema che ha fatto della
produttività un mantra indiscutibile. L’alcol, d’altra parte, che è ben
più pericoloso di tante altre sostanze, è perfettamente legale; l’LSD
invece, il cui uso a fini terapeutici e addirittura di crescita
personale è ben documentato dal lavoro di Stanislav Groff, psichiatra di
origine ceca, è proibito non solo nel suo uso “di strada”, ma perfino
in ambito medico, ed il suo utilizzo è rimasto un’esclusiva dei militari
e dei servizi segreti, che ne hanno fatto un uso tutt’altro che
apprezzabile (come gli esperimenti di controllo mentale della CIA noti
come progetto MKULTRA). Le istituzioni sanitarie, d’altro canto, non si
peritano di somministrare morfina ai pazienti con la cosiddetta terapia
del dolore. Perfino la ketamina è un farmaco riconosciuto.
Anche in questo campo, come ovunque, lo stato di cose presente è gravido di contraddizioni.
L’approccio più recente escogitato per affrontare la diffusione dell’uso di sostanze è quello della riduzione del danno:
si tratta di un approccio pragmatico, che vede nella diffusione delle
droghe un mero dato di fatto irriducibile e si limita a proporre
soluzioni per evitare che l’assunzione di droga diventi qualcosa di
pericoloso per sé e per gli altri, o quanto meno ridurre il danno,
appunto. Si va dalla distribuzione di materiale sterile per i
tossicodipendenti per evitare la diffusione di malattie infettive fino
all’allestimento di chill out rooms, ovvero stanze dove smaltire la
botta, in contesti quali le discoteche e i rave party.
Una parte importante è svolta dall’informazione sugli effetti delle sostanze.
A Firenze esiste l’interessante caso del
Centro Java, che si trova in centro all’angolo fra via Pietrapiana e
via Fiesolana, che sostanzialmente porta avanti la linea della riduzione
del danno. Abbiamo pubblicato un’intervista ai suoi operatori sul nostro sito. Purtroppo, benché si tratti di un progetto basato su fondi
pubblici, i politici della nostra città non si sono mai dimostrati molto
interessati ad esso, preferendo usare la città come tramplino di lancio
per la politica nazionale o semplicemente troppo impegnati nel
combattere il “degrado” scacciando i lavavetri e mettendo sempre più
telecamere e polizia ad ogni angolo.
Benché la riduzione del danno
costituisca un notevole passo in avanti rispetto agli altri approcci, a
nostro avviso è necessario fare un salto di qualità nell’analisi del
fenomeno delle sostanze. Altrimenti restiamo in una prospettiva di mero
contenimento e gestione della situazione senza andare al cuore dei
problemi soggiacenti.
Innanzi tutto vi sono questioni strutturali: la produzione e il commercio di sostanze è un’attività economica non diversa da tante altre,
ed anzi sempre fiorente e che non conosce crisi. Ne è la prova il
crescente potere della criminalità organizzata, in Italia come altrove.
In Messico i narcos sono ormai delle entità statali che controllano il
territorio con il proprio esercito (uno di questi gruppi pare possegga
perfino un sottomarino). In Giappone la Yakuza è solo l’altra faccia del
potere statale. Nel nostro paese poi la situazione è ben nota e non ci
dilungheremo su questo. Ci limitiamo a sottolineare che quando si parla
di droga si parla innanzi tutto di interessi economici.
Vi è poi un aspetto di controllo sociale
al quale abbiamo già accennato: la proibizione dell’uso di LSD
all’indomani della rivoluzione psichedelica o la nuova ondata di eroina
seguita all’invasione statunitense dell’Afghanistan non possono essere
solo dei casi.
Abbiamo parlato anche dell’uso
performativo delle sostanze, ed entriamo quindi nella dimensione
lavorativa che oggi domina la vita della maggior parte degli uomini. Una
dimensione dominata dalla alienazione, ovvero dalla separazione
dell’uomo dal prodotto del suo lavoro; detto in altre parole dalla
mancanza di senso della propria attività. Una mancanza di senso che non può che portare al disagio esistenziale, e quindi all’abuso di sostanze.
Queste ultime considerazioni ci
permettono di intravedere il cuore della questione: la presenza di
pratiche di alterazione della coscienza, di cui l’assunzione di
stupefacenti è un sottoinsieme, ha caratterizzato tutte le civiltà. Ma
il ruolo assegnato a queste pratiche è stato diverso a seconda della
cultura. Oggi, specie in occidente, tali pratiche sono ridotte a
fenomeni di devianza sociale, ma in altri tempi e in altri luoghi sono
state strumenti di iniziazione e di ricerca spirituale.
Lo sciamanesimo e i riti di possessione
sono presenti in molte culture definite “primitive”; sono culture che
prevedono per la coscienza diverse fasi, tutte ugualmente accettate. Ciò
che da noi viene interpretata come pazzia (o psicosi, come preferiscono
esprimersi gli specialisti della mente) viene vista come contatto con
l’invisibile, con il sacro: e mentre da noi la società non ha altro da
offrire al soggetto “impazzito” che una sterile terapia e una
separazione dalla propria famiglia e dalla propria comunità, altrove si
propongono vie d’uscita che comportano una assunzione di responsabilità
da parte dei gruppi sociali e addirittura la formazione di nuovi.
Recentemente questi differenti approcci
alle patologie della mente sono stati recuperati in ambito psichiatrico
con l’etnopsichiatria, che prevede al posto delle terapie convenzionali
la messa in atto di veri e propri riti tratti dalle tradizioni di
appartenenza dei soggetti. Purtroppo sono pratiche che valgono solo per
le etnie che mantengono il ricordo di queste tradizioni, cosa che non
vale per gli occidentali.
L’occidente infatti, con il capitalismo,
ha prodotto una civiltà che invece prevede un’unica fase per la
coscienza, che possiamo riassumere così: lavorare, consumare e non
rompere i coglioni. Tutto ciò che esce dal binario della produttività
viene vista come devianza, al limite come pazzia. Non stupisce che poi
le persone, giovani e meno giovani, cerchino l’evasione da questa
prigione mentale nei modi più estremi, dalla partecipazione ai rave
party, che quanto meno mantengono un aspetto gioioso e di condivisione,
fino ai disperati che passano il tempo premendo un bottone davanti allo
schermo di un videopoker (ma quelli sono legali, per carità, e sono in
tutti i bar).
La modernità tecnologica ci ha resi
tracotanti, pensiamo di sapere tutto e di potere tutto. Ci mancano gli
strumenti per interagire con l’ignoto, con ciò che trascende la nostra
potenza; non lo rispettiamo, per questo ci schiaccia non appena irrompe
nelle nostre vite sotto la forma di un banale imprevisto o di una
disgrazia.
Sarei pronto a scommettere che, se
l’esame di maturità prevedesse anche un viaggio di dodici ore in stato
alterato di coscienza, cose come il “disagio giovanile” diverrebbero
presto un lontano ricordo. Ma finché persiste il capitalismo, una
prospettiva del genere, a livello di massa, è impensabile.
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