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07/06/2015

Turchia, torna lo Stato della paura

Le bombe, i morti - Le bombe, il sangue, i morti, addirittura quattro, rendono l’aria pesante non solo nelle ore che separano dal voto, ma dopo quello che le urne determineranno. Perché il risultato più gettonato dai sondaggisti prevede una tenuta, dunque non un successo assoluto, per il partito islamico e un’avanzata della coalizione dei kurdi e della sinistra democratica, quell’Hdp sul cui corpo militante sono stati collocati gli ordigni. Uomini da lacerare, a vantaggio di chi? Erdoğan ha parlato di provocazione, ma ha colto l’occasione per riaprire polemiche, con Demirtaş inanzitutto che non avrebbe risposto alla sua chiamata di solidarietà e condoglianze per le vittime. Quest’ultimo, pur invitando gli elettori (l’aveva fatto anche a caldo nella Diyarbakır insanguinata) a non farsi travolgere dagli eventi, volti a seminare terrore e innescare una conflittualità che il governo può gestire in funzione antidemocratica, ha risposto sostenendo come il compito d’un presidente sia scusarsi col popolo. Al suo popolo Demirtaş ha detto di votare per conquistare l’agognato 10% e forse anche di più.

A chi giova? - Ma chi ha programmato un attentato che allungherà la sua ombra oltre la scia di sangue che si lascia alle spalle? L’analisi degli ordigni li scopre artigianali: piccole bombole di gas imbottite di sfere e chiodi, comunque mortali. Se non lo fossero state la strage avrebbe assunto proporzioni catastrofiche. Chi le ha collocate? Quei Servizi scoperti dal Cumhuriyet smistare armi e munizioni verso i più fondamentalisti fra i combattenti di Siria? E’ presto per dirlo, sebbene un passo simile andrebbe a colpire il governo in carica. Sevizi deviati? E quali? Gli agenti amici di Fethullah Gülen e perciò nemici del presidente o i residuati di quello ‘Stato profondo’ del ‘partito dei militari’ in odore di golpismo contro cui proprio Erdoğan ha condotto una dura lotta otto anni or sono? Certo, dal riflesso emotivo il partito islamico non guadagna; quei kurdi, di cui taluni sondaggi dei giorni scorsi evidenziavano un’incertezza nella scelta di lista, restano attoniti. Come loro tanti cittadini, che oggi toccano con mano insicurezza fisica e progettuale nella società, potrebbero abbandonare le certezze dell’erdoğanismo.

L’economia confronto scottante - Radicate sul boom economico a doppia cifra, successivo alla crisi di fine anni Novanta, che, fatte le debite proporzioni numeriche, lanciava l’ambìto paragone con la Cina. Una corsa con relativi sogni direttamente gestito dall’islamismo di governo, che negli ultimi tempi ha registrato frenate e incide sulla scalata sociale dei ceti umili, non solo quelli rurali e dell’Anatolia profonda. Incide sulla stessa componente operaia urbana che, grazie al quel boom, ha potuto sostenere l’ultima generazione verso studi superiori e addirittura universitari, nella speranza di collocare i figli in un circuito lavorativo di tecnologia, marketing e business. Lo smottamento occupazionale ha toccato marginalmente le grandi opere, di cui si serve il populismo del partito di maggioranza e che anche l’opposizione laica prova a cavalcare (il programma repubblicano propone di fondare una nuova città dei servizi e hub dell’energia) ma la disoccupazione è una presenza inquietante anche in Turchia, ora raggiunge l’11.3%. Così il blocco sociale interclassista su cui l’Akp ha conquistato e tenuto per 13 anni il potere, può incrinarsi. A discapito, come ovunque nel globo, di classi umili e piccola borghesia.

Paese a due velocità - Non sono temi nuovi, i dati statistici hanno evidenziato già da anni il trend in ribasso. S’è passati da un tasso di crescita del 6.8 fra il 2002 e 2007, all’attuale 3.2 nella flessione iniziata dal 2008. Annus horribilis della crisi mondiale, che la Turchia erdoğaniana ammortizzava meglio di qualsiasi nazione europea, considerando anche la mole della sua società (78 milioni di cittadini). Il beneficio dei numeri e della crescita, non erano però per tutti eguali. A Diyarbakır, e in tante province kurde del sud-est, raccontano altre storie. Ricordano mancanze strutturali volute, punizioni ideologiche e collettive, inferiori solo alla “guerra sporca” e alle deportazioni verso le comunità locali compiute dai governi di Ankara nel corso degli anni Novanta. Un periodo al quale Erdoğan si vanta di non appartenere, perseguitato anche lui dai kemalisti più duri, sicuramente perché schierato su un altro fronte considerato avverso. Fra l’antica Turchia dei militari golpisti e l’islamismo conservatore dell’Akp, i kurdi non scelgono partnership. E’ la realtà politica che poteva mettere di fronte, come abbiamo detto, Akp e Hdp, unici partiti interessati a un dialogo su cui veglia da anni il carismatico prigioniero Öcalan. Queste bombe mettono tutto in forse.

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