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02/09/2015

Sul caporalato e dintorni

Il dibattito apertosi sul caporalato, dopo la morte in Puglia di alcuni braccianti italiani e stranieri, solleva alcune questioni centrali. E, tuttavia, ci pare che la riduzione del fenomeno del caporalato all’agricoltura meridionale e all’alleanza tra mafia e aziende conserviere operata da alcuni autorevoli commentatori finisca per occultare la questione delle condizioni e dei rapporti di lavoro. Il riemergere di forme di intermediazione illegali è infatti diffuso in vari settori produttivi e in diverse aree italiane. Le prolungate lotte nella logistica, in particolare quella emiliana e veneta, portate avanti dai lavoratori migranti assunti da cooperative, etichettate prontamente come spurie, hanno svelato un sistema relativamente analogo; così anche nel turismo romagnolo agenzie di intermediazione rumene hanno rifornito per diversi anni gli albergatori di manodopera fresca e possibilmente a digiuno di esperienze all’estero. L’edilizia è poi un settore in cui l’intermediazione illegale o semi-legale di manodopera è diffusa dal nord al sud del paese. 

Certo, non tutte queste situazioni sono etichettabili sotto la forma del caporalato, ma tutte sono caratterizzate da una capacità di rapida movimentazione di manodopera e da un doppio comando sul lavoro che può poi estendersi nel territorio fino alle comunità di provenienza dei lavoratori in Italia come all’estero. Non si tratta solo di padroni o caporali crudeli e spietati, ma di un sistema produttivo che può appoggiarsi a un mercato del lavoro internazionale garantendosi il reclutamento potenziale di sempre nuova e diversificata forza lavoro sia dal Mediterraneo, per chi ce la fa, sia dall’Europa orientale.

È una politica dello spazio che assicura il collocamento di lavoratori in contesti sovente a loro estranei, nei quali diventa problematico persino trovare un ufficio pubblico.

Le norme sul lavoro varate in questi ultimi vent’anni hanno progressivamente eroso sia la possibilità di difendersi nel posto di lavoro sia di contrastare i fenomeni irregolari, grazie tra l’altro al progressivo impoverimento delle risorse ispettive. Non si tratta solo della proliferazione contrattuale, buona ultima l’introduzione del contratto a tutele crescenti, ma anche delle possibilità di gestire le aziende facendo ricorso a varie forme di esternalizzazione. È il modello dell’appalto che si diffonde come nel caso di Uber, la società dei taxi che stipula un accordo con il taxista-contractor isolato e atomizzato. Complicato poi appellarsi a una qualche coscienza civica quando i livelli salariali sono infimi. Al giornalista che chiedeva se meno di due euro l’ora non fosse da considerarsi schiavitù, il marito di Paola Clemente, la bracciante morta il 13 luglio, rispondeva: «erano soldi sicuri. Per come stanno le cose in Italia era denaro importantissimo. Erano indispensabili. Ci permettevano di campare». Dichiarazioni che si collocano a una distanza siderale rispetto a quelle del procuratore capo di Trani: «Sul fenomeno del caporalato c’è un muro di gomma, la gente preferisce guadagnare pochi spiccioli anziché collaborare alle nostre indagini».

La lontananza incolmabile tra queste due affermazioni evidenzia non tanto un problema culturale, quanto condizioni materiali che sono oggi sempre più diffuse. Eppure il caporalato è oggi un reato penale grazie a una norma approvata dall’allora governo Berlusconi il 13 agosto 2011 sulla spinta dell’incredibile sciopero dei braccianti migranti a Nardò. Né tavoli di concertazione né Commissioni d’inchiesta, ma una lotta poderosa e inaspettata di quelli che in molti continuano a degradare a ultimi della terra, era riuscita a smuovere il pantano politico e giudiziario. Perché quella lotta permise anche alla Direzione distrettuale antimafia di Lecce di raccogliere informazioni cruciali in merito al caporalato.

Ma le morti di questi giorni dimostrano drammaticamente come legislazioni e processi giudiziari da soli non possono modificare i rapporti di lavoro. Il caporalato altro non è che un modo per gestire e controllare una forza lavoro povera che non può rifiutare il lavoro. Se come dice il Presidente del consiglio: «qualsiasi lavoro è meglio di un non lavoro» e le misure governative puntano a ridurre il salario diretto e indiretto, il caporalato diventa una conseguenza quasi inevitabile. A poco rischia di servire la nuova legge immediatamente approvata sui giornali e in televisione che, secondo le parole del volonteroso ministro Martina, dovrebbe addirittura prevedere «la confisca dei beni per le imprese che si macchiano del reato di caporalato». Il caporalato sarebbe così equiparato a un reato di mafia. Accortosi forse di essersi allargato un po’ troppo, il ministro ha però subito rassicurato che la «grande maggioranza delle imprese agricole sono realtà sane e in regola», restituendo così il caporalato alla dimensione di un fenomeno di cui ci si può scandalizzare.

Scandalizzarsi per i caporali e i morti sul lavoro e contemporaneamente considerare il sindacato come un impedimento all’ammodernamento del paese è però una politica da equilibristi schizofrenici. Se poi il sindacato vive solo nelle pagine dei giornali e nei dibattiti nazionali non si può nemmeno lamentare del suo declino. Come insegnano le lotte nella logistica, per eliminare il caporalato ci vuole altro.

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