Il dibattito apertosi sul caporalato,
dopo la morte in Puglia di alcuni braccianti italiani e stranieri,
solleva alcune questioni centrali. E, tuttavia, ci pare che la riduzione del fenomeno del caporalato all’agricoltura meridionale e all’alleanza tra mafia e aziende conserviere operata da alcuni autorevoli commentatori finisca per occultare la questione delle condizioni e dei rapporti di lavoro.
Il riemergere di forme di intermediazione illegali è infatti diffuso in
vari settori produttivi e in diverse aree italiane. Le prolungate lotte
nella logistica, in particolare quella emiliana e
veneta, portate avanti dai lavoratori migranti assunti da cooperative,
etichettate prontamente come spurie, hanno svelato un sistema relativamente analogo; così anche nel turismo
romagnolo agenzie di intermediazione rumene hanno rifornito per diversi
anni gli albergatori di manodopera fresca e possibilmente a digiuno di
esperienze all’estero. L’edilizia è poi un settore in
cui l’intermediazione illegale o semi-legale di manodopera è diffusa dal
nord al sud del paese.
Certo, non tutte queste situazioni sono
etichettabili sotto la forma del caporalato, ma tutte sono
caratterizzate da una capacità di rapida movimentazione di
manodopera e da un doppio comando sul lavoro che può poi estendersi nel
territorio fino alle comunità di provenienza dei lavoratori in Italia
come all’estero. Non si tratta solo di padroni o caporali
crudeli e spietati, ma di un sistema produttivo che può appoggiarsi a un
mercato del lavoro internazionale garantendosi il reclutamento
potenziale di sempre nuova e diversificata forza lavoro sia dal
Mediterraneo, per chi ce la fa, sia dall’Europa orientale.
È una
politica dello spazio che assicura il collocamento di lavoratori in
contesti sovente a loro estranei, nei quali diventa problematico persino
trovare un ufficio pubblico.
Le norme sul lavoro varate in questi
ultimi vent’anni hanno progressivamente eroso sia la possibilità di
difendersi nel posto di lavoro sia di contrastare i fenomeni irregolari,
grazie tra l’altro al progressivo impoverimento delle risorse
ispettive. Non si tratta solo della proliferazione contrattuale, buona
ultima l’introduzione del contratto a tutele crescenti, ma anche delle possibilità di gestire le aziende facendo ricorso a varie forme di esternalizzazione. È il modello dell’appalto che si diffonde come nel caso di Uber, la società dei taxi che stipula un accordo con il taxista-contractor isolato e atomizzato. Complicato
poi appellarsi a una qualche coscienza civica quando i livelli
salariali sono infimi. Al giornalista che chiedeva se meno di due euro
l’ora non fosse da considerarsi schiavitù, il marito di Paola Clemente,
la bracciante morta il 13 luglio, rispondeva: «erano soldi
sicuri. Per come stanno le cose in Italia era denaro importantissimo.
Erano indispensabili. Ci permettevano di campare». Dichiarazioni che si
collocano a una distanza siderale rispetto a quelle del procuratore capo
di Trani: «Sul fenomeno del caporalato c’è un muro di gomma, la gente
preferisce guadagnare pochi spiccioli anziché collaborare alle nostre
indagini».
La lontananza incolmabile tra queste due affermazioni
evidenzia non tanto un problema culturale, quanto condizioni materiali
che sono oggi sempre più diffuse. Eppure il
caporalato è oggi un reato penale grazie a una norma approvata
dall’allora governo Berlusconi il 13 agosto 2011 sulla spinta
dell’incredibile sciopero dei braccianti migranti a Nardò.
Né tavoli di concertazione né Commissioni d’inchiesta, ma una lotta
poderosa e inaspettata di quelli che in molti continuano a degradare a
ultimi della terra, era riuscita a smuovere il pantano politico e
giudiziario. Perché quella lotta permise anche alla Direzione
distrettuale antimafia di Lecce di raccogliere informazioni cruciali in
merito al caporalato.
Ma le morti di questi giorni dimostrano drammaticamente come legislazioni e processi giudiziari da soli non possono modificare i rapporti di lavoro. Il caporalato altro non è che un modo per gestire e controllare una forza lavoro povera che non può rifiutare il lavoro.
Se come dice il Presidente del consiglio: «qualsiasi lavoro è meglio di
un non lavoro» e le misure governative puntano a ridurre il salario
diretto e indiretto, il caporalato diventa una conseguenza quasi
inevitabile. A poco rischia di servire la nuova legge immediatamente
approvata sui giornali e in televisione che, secondo le parole del
volonteroso ministro Martina, dovrebbe addirittura prevedere «la
confisca dei beni per le imprese che si macchiano del reato di
caporalato». Il caporalato sarebbe così equiparato a un reato di mafia.
Accortosi forse di essersi allargato un po’ troppo, il ministro ha però
subito rassicurato che la «grande maggioranza delle imprese agricole
sono realtà sane e in regola», restituendo così il caporalato alla
dimensione di un fenomeno di cui ci si può scandalizzare.
Scandalizzarsi
per i caporali e i morti sul lavoro e contemporaneamente considerare il
sindacato come un impedimento all’ammodernamento del paese è però una
politica da equilibristi schizofrenici. Se poi il sindacato vive solo nelle pagine dei giornali e nei dibattiti nazionali non si può nemmeno lamentare del suo declino. Come insegnano le lotte nella logistica, per eliminare il caporalato ci vuole altro.
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