Una lunga conversazione di Vincent Emanuel con David Harvey –
rilanciata da Z Net Italy –, sulle città ribelli, i beni comuni,
l’urbanizzazione, la gentrificazione delle città, le organizzazioni di
quartiere... Secondo Harvey è tempo di “uscire, muoversi, è un periodo
cruciale..."
Inizi il tuo libro ‘Rebel Cities: From the Right to the City to the Urban Revolution’
[Città ribelli: dal diritto alla città alla rivoluzione urbana]
descrivendo la tua esperienza a Parigi negli anni ’70: “Alti edifici
giganti, autostrade, edilizia popolare senz’anima e mercificazione
monopolizzata nelle strade che minacciano di inghiottire la vecchia
Parigi ... Parigi dagli anni ’60 in poi è stata chiaramente nel mezzo di
una crisi esistenziale”. Nel 1967 Henry Lefebvre scrisse il suo
fondamentale saggio “Del diritto alla città”. Puoi parlarci di quel
periodo e dell’impulso a scrivere Rebel Cities?
Nel mondo gli anni ’60 sono spesso considerati,
storicamente, un periodo di crisi urbana. Negli Stati Uniti, ad esempio,
gli anni ’60 furono un’epoca in cui molte città
centrali finirono in fiamme. Ci furono rivolte e semi-rivoluzioni in
città come Los Angeles, Detroit e naturalmente dopo l’assassinio del
dottor Martin Luther King nel 1968 ... più di 120 città statunitensi
subirono disordini e azioni di rivolta minori e grandi. Cito questo
negli Stati Uniti perché ciò che in effetti stava accadendo era che la
città veniva modernizzata. Era modernizzata intorno all’automobile; era
modernizzata intorno alle periferie. A quel punto la Città Vecchia, o
quello che era stato il centro politico, economico e culturale della
città in tutti gli anni ’40 e ’50 era lasciata alle spalle. Ricorda,
quelle tendenze avevano luogo in tutto il mondo capitalista avanzato.
Dunque non si trattava solo degli Stati Uniti. Ci furono gravi problemi
in Gran Bretagna e in Francia dove un vecchio stile di vita veniva
smantellato, uno stile di vita di cui penso nessuno dovrebbe avere
nostalgia, ma tale stile di vita era cacciato e sostituito da un nuovo
stile di vita basato sulla mercificazione, sulla proprietà, sulla speculazione immobiliare, sulla costruzione di autostrade, sull’automobile, sulle periferie e con tutti questi cambiamenti abbiamo visto un’accresciuta disuguaglianza e disordini sociali.
Secondo dove ci si trovava all’epoca c’erano disuguaglianze
strettamente di classe o erano disuguaglianze di classe concentrate su
specifici gruppi di minoranza. Ad esempio, ovviamente negli Stati Uniti
si trattava della comunità afroamericana residente nei quartieri poveri
che aveva pochissimo in termini di opportunità di occupazione o di
risorse. Così gli anni ’60 furono definiti in termini di crisi urbana.
Se si torna indietro e si guarda a tutte le commissioni che dagli anni
’60 stavano esaminando cosa fare riguardo alla crisi urbana, ci furono
programmi governativi messi in atto dalla Gran Bretagna alla Francia, e
anche negli Stati Uniti. Analogamente tutti tentavano di affrontare
tale “crisi urbana”.
Ho considerato questo un argomento affascinante di studio e
un’esperienza traumatica da vivere. Sai, questi paesi che stavano
diventando sempre più ricchi stavano lasciando indietro persone che
erano rinchiuse in ghetti urbanizzati e che venivano trattate da esseri umani
inesistenti. La crisi degli anni ’60 fu una crisi cruciale e
penso che Lefebvre l’abbia compresa molto bene. Egli riteneva che le
persone nelle aree urbane dovessero aver voce nel decidere come dovevano
essere quelle aree, e quale processo di urbanizzazione dovesse
aver luogo. Al tempo stesso quelli che si opponevano volevano invertire
l’onda delle speculazioni immobiliari che stava cominciando a
travolgere le aree urbane di tutti paesi capitalisti industrializzati.
Tu scrivi: “La domanda riguardo a che tipo di città vogliamo
non può essere separata dalla domanda circa che genere di persone
vogliamo essere, quali tipi di relazioni sociali ricerchiamo, quali
relazioni con la natura apprezziamo, quale stile di vita desideriamo o
quali valori estetici coltiviamo”. Citi anche la Comune di Parigi come
evento storico per analizzare e forse aiutarci a concettualizzare come
potrebbe essere il “diritto alla città”. Ci sono altri esempi storici
sui quali dovremmo riflettere?
Quale tipo di città desideriamo costruire dovrebbe riflettere i nostri
desideri e bisogni personali. Il nostro ambiente sociale, culturale,
economico, politico e urbano è molto importante. Come sviluppiamo questi
atteggiamenti e tendenze? Questo è importante. Dunque, vivendo in una
città come New York ci si deve muovere attraverso la città, spostarsi e
trattare con altre persone in un modo molto specifico. Come tutti sanno,
gli abitanti di New York tendono a essere freddi e sbrigativi tra di
loro. Ciò non significa che non si aiutino a vicenda, ma al fine di far
fronte alla velocità quotidiana delle cose, e alla grande quantità di
persone nelle strade e nelle metropolitane, si deve affrontare la città
in un determinato modo. Allo stesso modo, vivere in una comunità chiusa
dei sobborghi conduce a determinati modi di pensare riguardo a che cosa
dovrebbe consistere la vita quotidiana. E queste cose evolvono in
atteggiamenti politici differenti, che spesso includono mantenere certe
comunità chiuse ed esclusive, al costo di ciò che avviene nella
periferia. Creiamo questi atteggiamenti e ambienti politici.
Le reazioni rivoluzionarie all’ambiente urbano hanno molti precedenti storici. A Parigi nel 1871 c’era un tipo di atteggiamento per cui la gente voleva un tipo diverso di urbanizzazione;
voleva che vi vivesse un tipo diverso di persone; era una reazione allo
sviluppo dell’alta società, speculativo consumistico che stava avendo
luogo all’epoca. Dunque ci fu una rivolta che chiedeva generi diversi di relazioni: relazioni sociali, relazioni di genere e relazioni di classe.
In conseguenza se si vuole costruire una città in cui le donne si
sentano a loro agio, ad esempio, si costruisce una città molto diversa
da quelle che normalmente abitiamo. Tutte queste questioni sono legate
alla domanda riguardante in quale genere di città vogliamo vivere. Non
possiamo separarla dal tipo di persone che vogliamo essere; quale tipo
di relazioni di genere, quale tipo di relazioni di classe, e simili. Per
me il progetto di costruire la città in un modo diverso, con
una filosofia diversa, con scopi diversi, è un’idea molto importante.
Occasionalmente tale idea è stata raccolta da movimenti rivoluzionari,
come la Comune di Parigi. E ci sono molti altri esempi che potremmo citare, come lo Sciopero Generale di Seattle circa nel 1919. L’intera città fu presa dalla gente ed essa cominciò a costruire strutture comunitarie.
A Buenos Aires queste stesse cose stavano accadendo nel 2001.
A El Alto, 2003, c’è stato un altro tipo di esplosione. In Francia,
abbiamo visto le aree suburbane dissolversi in rivolte e movimenti
rivoluzionari negli ultimi 20-30 anni. In Gran Bretagna abbiamo visto
questo genere di sommosse e rivolte di tanto in tanto, che sono
realmente una protesta contro il modo in cui si vive la vita quotidiana.
Per essere chiari, i movimenti rivoluzionari nelle aree urbane
si sviluppano molto lentamente. Non si può cambiare l’intera città
dall’oggi al domani. Quella che vediamo, tuttavia, è una
trasformazione nello stile dell’urbanizzazione nel periodo neoliberista.
Prima, diciamo a metà degli anni ’70, l’urbanizzazione era
caratterizzata da proteste; c’era molta segregazione; e la risposta a
molte di tali proteste è stata, in effetti, la riprogettazione della
città coerentemente con i principi neoliberisti di autosufficienza, di
assunzione di responsabilità di sé stessi, di competizione, di
frammentazione della città in comunità chiuse e spazi privilegiati.
Così, per me la riprogettazione della città è un progetto di lungo
termine. Per fortuna le persone sono costrette a immaginare qualche
forma di trasformazione rivoluzionaria, che si verifica in un
particolare momento del tempo, come a Buenos Aires nel 2001, quanto ci
sono stati movimenti che hanno guidato la presa delle fabbriche e hanno
tenuto assemblee. Sono stati in grado di imporre, in molti modi, come la
città andava organizzata e hanno cominciato a porre domande serie: chi
vogliamo essere? Come dovremmo relazionarci con la natura? Quale tipo di
urbanizzazione vogliamo?
Puoi parlarci di alcuni di questi termini? Ad esempio, puoi
discutere della sub-urbanizzazione come conseguenza di “un modo di
assorbire il surplus di prodotto e in tal modo risolvere il problema
dell’assorbimento del surplus di capitale?” In altri termini, perché le
nostre città sono state svuotate in questo modo particolare? Questa
questione è particolarmente preveggente per i nostri ascoltatori locali
nella regione dell’industria manifatturiera in crisi, che è stata
completamente devastata negli ultimi 30-40 anni.
Di nuovo, questo è processo lungo, che si trascina. Fammi tornare agli anni ’30 e alla Grande Depressione. Poniamo la domanda: Come siamo usciti dalla Grande Depressione?
E quale era il problema durante la Grande Depressione? Uno dei grandi
problemi durante la Grande Depressione era un mercato debole. La
capacità produttiva c’era. Ma non c’erano flussi di reddito da
sfruttare, per così dire. Dunque c’era un surplus di capitale in giro
senza un possibile impiego. Ora, in tutti gli anni ’30 ci furono
tentativi frenetici di trovare un modo per spendere quel surplus di
capitale. Ci furono cose come il “Programma di opere pubbliche” di
Roosevelt. Sai, costruire autostrade e roba del genere. Cioè impiegare
il surplus di capitale e il surplus di lavoro in giro all’epoca. Negli anni ’30 non fu trovata alcuna soluzione reale, fino a quando non arrivò la seconda guerra mondiale.
A quel punto tutto il surplus fu immediatamente assorbito dallo sforzo
bellico: produrre munizioni e via dicendo. Molti si arruolarono
nell’esercito; una quantità di manodopera fu assorbita in quel modo.
Dunque la seconda guerra mondiale, apparentemente, risolse il problema
della Grande Depressione. A quel punto sorse la domanda del dopo 1945: che cosa sarebbe successo una volta finita la guerra? Che cosa sarebbe successo a tutto quel capitale extra? Beh, a quel punto si ebbe la sub-urbanizzazione degli Stati Uniti.
In effetti la costruzione delle periferie, a quel punto era la
costruzione di periferie ricche, divenne il modo in cui fu impiegato il
capitale in surplus. Prima fu costruito il sistema autostradale; a quel
punto tutti dovevano avere un’automobile; poi l’abitazione suburbana
divenne una specie di “castello” per la popolazione della classe
lavoratrice. Tutto questo ebbe luogo abbandonando le comunità impoverite
dei quartieri poveri. Questo fu lo schema dell’urbanizzazione che ebbe
luogo negli anni ’50 e ’60.
I surplus, che il capitale produce sempre, funzionano così: i
capitalisti cominciano la giornata con una certa quantità di denaro. A
sera finiscono con più soldi. Sorge la domanda: che cosa fanno i
capitalisti con i loro soldi alla fine della giornata? Beh, devono
trovare qualche posto in cui investirli: espansione. I capitalisti hanno sempre questo problema: dove stanno l’espansione e le occasioni di fare più soldi? Una delle grandi occasioni di espansione dopo la seconda guerra mondiale fu l’urbanizzazione.
C’erano altre occasioni, quali il complesso industriale-militare, e
così via. Ma fu principalmente mediante la sub-urbanizzazione che i
surplus furono assorbiti. Ora, questo creò molti problemi, quali la
crisi urbana dei tardi anni ’60. A quel punto hai una situazione in cui
il capitale torna di fatto nelle città centrali e successivamente
rioccupa i quartieri poveri. A quel punto inverte lo schema. Così un
numero sempre maggiore di comunità impoverite è cacciato nella
periferia, mentre la popolazione ricca ritorna nel centro della città.
Ad esempio nella New York di intorno al 1970 si poteva ottenere una
casa nel centro di Manhattan quasi per nulla, perché c’era un enorme
surplus di proprietà; nessuno voleva vivere in città. Ma ciò è
completamente cambiato: la città è diventata il centro del consumismo e
della finanza. Come hai citato, costa tanto un tetto per la tua auto
quanto un tetto per una persona. Questa è la trasformazione che si è
verificata. In breve, questo processo di urbanizzazione ha luogo in
tutti gli anni ’40 estendendosi agli anni ’70. Dopo gli anni ’70 il
centro della città diventa estremamente ricco. Di fatto, Manhattan passò
dall’essere un luogo accessibile negli anni ’70 a diventare una vasta
comunità chiusa negli anni 2000 riservata agli estremamente ricchi e
potenti. Nel frattempo gli impoveriti, spesso comunità minoritarie, sono
cacciate nella periferia della città. O, nel caso di New York, la gente
è fuggita in cittadine del nord dello stato di New York o in
Pennsylvania.
Questo schema generale di urbanizzazione ha a che fare con questa
domanda di dove si trovano occasioni redditizie per investire il
capitale. Come abbiamo visto nel corso degli anni, le occasioni redditizie sono scarseggiate negli ultimi quindici anni,
o giù di lì. In tale periodo un’enorme quantità di denaro è stata
riversata nel mercato residenziale, nella costruzione di case e in tutto
il resto. Poi abbiamo visto quello che è successo nell’autunno del 2008
con lo scoppio della bolla immobiliare. Dunque si deve guardare
all’urbanizzazione come a un prodotto della ricerca di modi con cui
assorbire la produttività e la produzione accresciute di una società
capitalista molto dinamica che deve crescere a un tasso del 3% di
crescita composta se vuole sopravvivere. Questa è la domanda per me:
come assorbiremo questa crescita composta del 3% nei prossimi anni in
modo da evitare i dilemmi urbanizzazione/sub-urbanizzazione del passato?
È interessante concettualizzare come potrebbe andare.
Tu parli della distribuzione geografica delle crisi economiche.
Cioè come le crisi economiche si diffondono da una parte del globo
all’altra. Citi anche il fatto che la gente non avrebbe dovuto essere
sorpresa dal crollo economico del 2008. Ad esempio oggi abbiamo la crisi
economica della zona UE e del Nord America, e tuttavia tu citi
l’esplosione della crescita del PIL in Turchia e in varie parte
dell’Asia, particolarmente in Cina. Ma citi anche un grande paradosso:
in Cina, anche se è stato attraversato un enorme processo di
urbanizzazione negli ultimi venti anni, quegli stessi processi
industriali che hanno prodotto grandi profitti hanno cacciato milioni di
cinesi e distrutto l’ambiente naturale. Contemporaneamente intere città
rimangono totalmente vuote, poiché solo una piccola percentuale della
popolazione cinese può permettersi tali lussi e abitazioni.
Beh, la Cina sta ripetendo il modo in cui gli Stati Uniti
uscirono dalla Grande Depressione: mediante la sub-urbanizzazione dopo
la seconda guerra mondiale. Penso che i cinesi, quando si
trovarono posti di fronte alla domanda su che cosa dovevano fare,
particolarmente in un declino economico globale e alla luce dei fiacchi
risultati economici di circa il 2007-2008, decisero che sarebbero usciti
dalle loro difficoltà economiche mediante programmi urbanistici e
infrastrutturali: ferrovie ad alta velocità, autostrade, grattacieli e
così via. Quelli divennero i mezzi attraverso i quali fu assorbito il
surplus di capitale. Naturalmente tutti quelli che fornivano la Cina di
materie prime se la passarono molto bene, poiché la domanda cinese era
molto elevata.
La Cina assorbe metà dell’offerta mondiale di acciaio. Così se si
produce minerale di ferro o di altri metalli, come fa l’Australia,
allora naturalmente l’Australia se la passa molto bene perché non ha
subito una gran crisi negli ultimi sette anni. I cinesi hanno, in
effetti, preso una pagina dal libro della storia economica degli Stati
Uniti replicando il programma di sviluppo economico post 1945 degli
Stati Uniti. In poche parole, la Cina ha immaginato di potersi salvare
con lo stesso tipo di strategia e di evitare la stagnazione o il declino
economico. Sai, gli Stati Uniti e l’Europa sono impantanati in una
crescita molto bassa, rispetto ai cinesi che hanno goduto tassi di
crescita molto rapidi. Ma, di nuovo, si tratta di assorbire il surplus
di capitale in modi che siano produttivi. Quella è la domanda; lo dico
con speranza, perché non sappiamo se il boom cinese finirà a gambe all’aria. Se
il boom cinese andrà a rotoli, come i mercati immobiliare e finanziario
negli Usa nel 2008, allora il capitalismo globale si troverà in guai
seri. Oggi i cinesi stanno cercando di limitare il loro tasso
di crescita. Così, invece di mirare a un tasso di crescita del 10 per
cento del PIL, stanno puntando a una crescita del 7-8 per cento nei
prossimi anni. Cercheranno di darsi una calmata. Voglio dire, via!, I cinesi hanno più di quattro città vuote. Riesci a crederlo? Città completamente vuote.
Cosa succederà nei prossimi anni? Queste città diventeranno aree urbane
produttive? Resteranno semplicemente lì a marcire? Nel qual caso
andrebbe perso un mucchio di denaro e una grande depressione colpirebbe
anche la Cina. In tal caso sarebbero prese alcune decisioni politiche
molto sgradevoli, e certamente potremmo aspettarci agitazioni sociali
tra la classe lavoratrice e tra i poveri cinesi.
Il mondo appare molto diverso a seconda di dove si vive. Ad esempio, sono appena stato a Istanbul, Turchia: ci sono gru edili dappertutto.
La Turchia sta crescendo a un ritmo del 7 per cento l’anno, dunque oggi
(2013) è un luogo molto dinamico. Quando sei in Turchia è davvero
difficile immaginare che il resto del mondo sia in crisi. Poi ho fatto
un volo di due ore e mezza fino ad Atene, Grecia; non occorre che vi
dica cosa succede là. La Grecia è come entrare in una zona disastrata dove tutto si è fermato.
Tutti i negozi sono chiusi e non ci sono cantieri in corso in nessun
luogo della città. Abbiamo qui due città distanti seicento miglia l’una
dall’altra e tuttavia sono due luoghi totalmente differenti. Questo è
ciò che ci si aspetterebbe di vedere nell’economia globale: alcuni
luoghi prosperano, altri vanno in bancarotta. C’è sempre uno sviluppo
disuguale delle crisi economiche. Per me questa è una storia molto
affascinante da raccontare.
Nel capitolo due, “Le radici urbane della crisi”, discuti del
collegamento tra la crisi economica e gli Stati Uniti, la proprietà e i
diritti individuali di proprietà, che sono entrambi componenti
ideologici importanti del Sogno Americano, ma ti affretti anche a
segnalare che tali valori culturali diventano molto rilevanti quando
sussidiati da politiche statali. Puoi spiegare tali politiche?
Beh, se risali agli anni ’30 scoprirai che meno del 40 per cento degli
statunitensi era proprietario della sua casa. Così circa il 60 per cento
della popolazione degli Stati Uniti viveva in affitto. Era specialmente così nel caso della classe inferiore, o della classe
media. Normalmente vivevano in affitto. Ora queste popolazioni erano
piuttosto irrequiete. Così era sorta l’idea di renderle filocapitaliste e
a favore del sistema aprendo loro la possibilità di divenire
proprietari. Così c’è stata una quantità di sostegno statale per quelle
che chiamavano istituzioni di depositi e prestiti, che erano separate
dalle banche. Erano luoghi in cui la gente depositava i propri risparmi e
tali risparmi erano utilizzati per promuovere la proprietà per
popolazioni a basso reddito. La stessa cosa valeva per la Building
Society britannica. Negli anni ’80 si avvia tale tendenza con la classe
imprenditoriale che si chiedeva come rendere la popolazione a basso
reddito meno insofferente. C’era una magnifica frase che la classe
imprenditoriale era solita utilizzare: “I proprietari di case non
scioperano”.
Ricorda, ci si doveva indebitare per diventare proprietari. Questo è il
meccanismo di controllo. In generale questo sistema era molto debole in
tutti gli anni ’20 e fino agli anni ’30, quando il governo statunitense
e le classi imprenditoriali decisero di rafforzarlo. Tanto per
cominciare, quando sottoscrivevi un mutuo negli anni ’20 potevi
solitamente ottenerlo solo per circa tre anni, poi avresti dovuto
rinnovarlo o rinegoziarlo. Poi, negli anni ’30, le banche crearono i
mutui trentennali. Ma per ottenere tali mutui essi dovevano essere
garantiti in qualche modo. Così ciò portò alla creazione di istituzioni
statali che avrebbero garantito i mutui. Ciò condusse
alla creazione dell'Amministrazione Federale degli Alloggi. Contemporaneamente le banche
avevano necessità di trasferire i mutui a qualcun altro, così crearono
questa organizzazione chiamata Fanny May.
Per tutto quel periodo organizzazioni statali furono usate per
incoraggiare e garantire la proprietà della casa, particolarmente a
favore delle classi inferiori, il che naturalmente scoraggiò tali
persone dallo scioperare e dallo sgarrare. Ora sono indebitate. Quelle
istituzioni decollarono realmente dopo la seconda guerra mondiale. In
quel periodo c’era una quantità di propaganda riguardo al “Sogno
Americano” e a che cosa significava essere statunitensi. Entrò in gioco
la deduzione fiscale dei mutui che consentiva di dedurre gli interessi
sul mutuo. Ricorda, questo è un grande sussidio alla proprietà della
casa. C’erano sussidi statali alla proprietà della casa; c’erano
istituzioni statali che promuovevano la proprietà. Così tutto questo
diventa cruciale quando collegato alla Legge GI, che diede diritti
privilegiati di proprietà della casa e incentivi ai soldati reduci dalla
seconda guerra mondiale. Ci fu un’incredibile spinta da parte
dell’apparato statale a incoraggiare e garantire la proprietà della
casa.
Ricorda, tutto questo stava accadendo nel contesto della
sub-urbanizzazione. Quelle istituzioni divennero molto cruciali per il
mercato immobiliare e naturalmente continuano a esistere. Tutti
parlavano di come Fanny May e la nuova, Freddy Mac, erano gestite dal
governo pur essendo in parte private. Nel tempo furono nazionalizzate. Così il governo ha
promosso la proprietà della casa e ha avuto un ruolo enorme nel creare
questi mutui sub-prime. Ciò è stato fatto durante l’amministrazione
Clinton, a partire dal 1995, mentre si cercava di promuovere la proprietà
della casa tra le popolazioni minoritarie degli Stati Uniti. Lo
sviluppo della “crisi dei sub-prime” è stato in larga misura collegato
sia a ciò che stava facendo il settore privato, sia a ciò che le
politiche governative garantivano.
Per me questo è un aspetto cruciale della vita statunitense, in cui si
passa dal 60 per cento della popolazione in affitto al punto più alto
del 2007-2008 in cui più del 70 per cento della popolazione diventa
proprietario di casa. Questo, naturalmente, crea un genere diverso di
atmosfera politica; un’atmosfera politica in cui la difesa dei diritti
di proprietà e dei valori della proprietà diventa molto importante. Poi
hai i movimenti di quartiere in cui la gente cerca di tenere certe
persone fuori dal quartiere perchè le percepisce come causa della riduzione
del valore della proprietà. Hai un genere diverso di politica perché la
casa diventa una forma di risparmio per le famiglie della classe media e
di quella lavoratrice. Naturalmente la gente attinge a quel risparmio
per rifinanziare la propria casa.
C’è stata una quantità di rifinanziamenti in corso durante il boom
della proprietà negli USA. Molte persone hanno approfittato degli alti
prezzi delle case. Questa promozione della proprietà della casa è ora
trattata come se fosse un antico sogno di quelli che vivono negli Stati
Uniti. Tuttavia, di certo, c’è sempre stata questa specie di idea negli
Stati Uniti presso le popolazioni dei lavoratori immigrati, che se
ottieni un pezzo di terra, ci fai crescere qualcosa, e così via,
potresti alla fine avere una vita piacevole. Sì, questo faceva parte del
sogno degli immigrati. Ma questo è stato trasformato in proprietà
suburbana, che non riguarda l’avere mucche e polli in cortile; riguarda
avere tutto attorno a te simboli del consumismo.
Parliamo di queste tendenze in un ambito ideologico. Affermi
che dovremmo andare oltre Marx. Tuttavia insisti che dovremmo utilizzare
le sue intuizioni più preveggenti. Come possiamo andare oltre Marx? Che
cosa intendi, esattamente?
Ora, il motivo per cui Marx è importante in tutto questo è che Marx ebbe un’acuta comprensione di come funziona l’accumulazione capitalista. Egli comprese che questa perpetua macchina di crescita contiene molte contraddizioni interne.
Ad esempio, una delle contraddizioni di fondo di cui parla Marx è tra
il valore d’uso e il valore di scambio. Puoi constatare molto
chiaramente come questo abbia operato nella situazione degli alloggi.
Qual è il valore d’uso di una casa? Beh, è una forma di rifugio, uno
spazio di vita privata, dove uno può farsi una vita di famiglia.
Possiamo elencare altri valori d’uso della casa, ma la casa ha anche un
valore di scambio. Ricorda, quando affitti la casa, stai semplicemente
affittando la casa per quel che serve. Ma quando acquisti la casa, a
quel punto consideri la casa come una forma di risparmio, e dopo un po’
usi la casa come una forma di speculazione.
In conseguenza i prezzi delle case cominciano a salire. Così, in tale
contesto, il valore di scambio comincia a dominare il valore d’uso della
casa. Il rapporto tra valore di scambio e valore d’uso comincia a
sfuggire di mano. Quindi, quando il mercato immobiliare crolla,
improvvisamente cinque milioni di persone perdono la casa e il valore
d’uso scompare. Marx parla di questa contraddizione ed è una
contraddizione importante. Dobbiamo porre la domanda: che cosa dovremmo
fare a proposito degli alloggi? Che cosa dovremmo fare riguardo
all’assistenza sanitaria? Che cosa stiamo facendo riguardo
all’istruzione? Non dovremmo promuovere il valore d’uso dell’istruzione?
O dovremmo promuovere il valore di scambio di queste cose? Perché le
necessità della vita dovrebbero essere distribuite attraverso il sistema
del valore di scambio? Ovviamente dovremmo rigettare il sistema del
valore di scambio che è preda dell’attività speculativa, dello
sciacallaggio, e di fatto perturba i modi in cui possiamo acquistare
prodotti e servizi necessari. Questo era il genere di contraddizioni di
cui Marx era consapevole.
Nel terzo capitolo, “La creazione dei beni comuni urbani”, tu
riconcettualizzi come potrebbero essere i “beni comuni” nel prossimo
secolo. Prosegui facendo riferimento al lavoro di Tony Negri e Michael
Hardt in tutto il libro. Ho intervistato Michael Hardt in passato e ho
trovato molto del suo lavoro molto acuto e molto interessante. Come
tutti voi citate nel vostro lavoro: dobbiamo cominciare a concepire come
trasferire, promuovere, sviluppare e utilizzare i beni comuni. Ciò
comprende anche effetti culturali: immagini, significati, simboli,
eccetera. Prosegui citando il lavoro di Murray Bookchin: idee di ordine,
processi, gerarchie sociali e così via diventano molto importanti
quando si tenta di ideare alternative. Anche Christian Parenti ha
recentemente scritto un testo notevole a proposito dello stato e
dell’ambiente. Quali sono alcune delle tue idee su come potremmo
riconcettualizzare i beni comuni?
Beh, la concezione dei beni comuni, da quel che ho visto e letto, è di
dimensioni piuttosto ridotte. Così una quantità di scritti sui beni
comuni si è occupata dei beni comuni a livello micro. Non sto dicendo
che ci sia qualcosa di sbagliato in ciò; avere un orto comunitario nel
tuo quartiere è una bella cosa. Tuttavia mi pare che dobbiamo cominciare
a interessarci e a parlare di temi di vasta portata riguardo ai beni
comuni, quali l’habitat di un’intera bio-regione. Ad esempio, come
cominciamo a concepire come dovrebbe essere la sostenibilità nell’intero
nord-est degli Stati Uniti? Come gestiamo cose come le risorse idriche a
livello nazionale? E globalmente? Le risorse idriche dovrebbero essere
considerate una risorsa di proprietà comune, ma spesso ci sono richieste
di acqua pulita in conflitto tra loro: urbanizzazione, agricoltura
industriale e ogni sorta di altre tutele dell’habitat e cose simili.
Mi fa piacere che tu abbia citato il saggio di Christian Parenti, perché il cambiamento climatico dovrebbe farci riconcepire i beni comuni globali. Come gestire questo problema?
E come possiamo gestire questi temi nel futuro? È fuori questione che
abbiamo bisogno di meccanismi di imposizione tra stati nazione al fine
di combattere queste tendenze e prevenire minacce future. Che cosa
succede ai trattati internazionali se i governi vanno a pezzi? Chi
impedirà ad altri stati di immettere anidride carbonica nell’atmosfera?
Lo si può fare indicendo assemblee collettive o quel che passa il
convento. I confronti riguardo a se trasformare un pezzo di terra in un
orto comunitario non combatteranno i problemi che affrontiamo come
specie. Dobbiamo concepire i beni comuni come esistenti su una scala diversa. Sono interessato alla dimensione metropolitana-regionale.
Come si organizza la gente in tali regioni per difendere i diritti
della proprietà comune su scale diverse? Beh, questo livello di
potenziale organizzativo non si realizzerà attraverso assemblee o altre
forme di organizzazione che la gente utilizza oggi. Il problema è
inventarsi un modo democratico di rispondere alle opinioni di vasti
strati della popolazione in tutto il pianeta al fine di amministrare i
diritti alle risorse di proprietà comune. Ciò includerebbe cose come
qualità dell’aria e dell’acqua nell’intera regione. Includerebbe anche
la sostenibilità bioregionale.
Queste cose non si realizzano mediante assemblee e solo perché c’è chi
inventa qualche grande piano a livello locale, ciò non significa che
tale piano funzioni a livello regionale o su scala globale. Così, mi
piacerebbe introdurre il concetto di “scale” differenti di
organizzazione nel nostro confronto collettivo sullo sviluppo, la
sostenibilità e l’urbanizzazione. Dobbiamo sviluppare organizzazioni, meccanismi, vocabolari e apparti capaci di far fronte a questi problemi su scala globale.
Non credo ci dia alcun vantaggio il discutere dei “beni comuni” se non
siamo specifici riguardo alla scala di cui stiamo discutendo. Parliamo
del mondo? In tal caso dobbiamo parlare dell’apparato statale e delle
sue funzioni, particolarmente a livello bio-regionale e globale.
Pare che le sole persone disposte a considerare questi temi su
scala globale siano gli scienziati del clima, gli oceanografi, i
biologi, gli ecologisti, con pochissimi intellettuali, per non parlare
di attivisti o della più vasta popolazione in generale che discutono
dell’ambiente naturale globale. Alcuni scienziati suggeriscono che entro
il 2048 quasi tutti i grandi pesci saranno estinti. Al minimo gli
scienziati ci dicono di aspettarsi un aumento di due gradi Celsius della
temperatura del globo entro la fine del secolo. Queste predizioni sono
inquietanti, a dir poco. Anche se possiamo organizzarci efficacemente,
diciamo, a livello bio-regionale, che cosa succede se altre regioni si
rifiutano? Non avremo bisogno di un apparato globale per chiamare le
nazioni a rispondere? A me questo sembra uno dei problemi più grandi del
nostro tempo.
Beh, ci sono alcuni modi in cui una prassi può diventare egemone: uno è mediante coercizione, cosa che nessuno di noi vuole ma che può ben essere una necessità. Poi c’è il consenso,
che è quello che vediamo in queste conferenze sul cambiamento climatico
ma, come vediamo, anche questo non funziona. Il terzo è quello che
potremmo chiamare “mediante esempio”. È per questo che
penso che una regione come la Cascadia sia così interessante, tra i
motivi che hai citato, perché la Cascadia mette in atto alcune politiche
molto, molto progressiste. Ad esempio, la California lo ha fatto
riguardo a numerosi aspetti della legislazione ambientale. Su scala
locale la California ha cominciato a imporre cose come il chilometraggio
o la capacità del serbatoio obbligatori per le auto, e questo è un
piccolo esempio.
In modo interessante, può anche essere dimostrato che non si finirà a
pezzi, economicamente, se gli stati attueranno tali misure. Oggi non
accade nulla di tutto ciò. Penso che guidare mediante l’esempio possa
essere molto significativo. È più facile conquistare consenso quando si
offrono esempi alla gente di come questo funzionerebbe. Ad esempio,
l’abbiamo visto a livello urbano con città come Curitiba,
Brasile, che è piuttosto nota per il suo progetto ambientale. In altre
parole, molte delle cose che si fanno a Curitiba sono ora attuate in
tutto il mondo in vari contesti urbani. Penso che avremo una
combinazione di operare mediante esempio, consenso e coercizione. La mia
speranza sarebbe che potessimo principalmente utilizzare esempi del
mondo reale; poi è più facile raggiungere il consenso; ed è piuttosto
difficile muoversi in direzione della coercizione. Comunque questa è
solo la mia speranza. Non necessariamente le cose andranno così.
Nel capitolo quattro, “L’arte della rendita”, citi che a un
certo punto “le università delle arti erano fucine di dibattito, ma la
loro successiva pacificazione e professionalizzazione ha gravemente
ridotto la politica agitativa”. Puoi parlare del carattere speciale
della produzione e riproduzione culturale? Inoltre, puoi articolare
questo concetto di “rendita di monopolio”? Come è stato aiutato questo
processo da quella che chiami “imprenditorialità urbana”? Chiami questi
processi la “disneyficazione” della società e della cultura. Che cos’è
il capitalismo simbolico collettivo?
Il mio interesse su questo deriva da una contraddizione molto semplice.
Si suppone che viviamo sotto il capitalismo e si suppone che il
capitalismo sia competitivo cosicché ci si aspetterebbe che i
capitalisti e gli imprenditori apprezzino la competizione. Beh, emerge
che i capitalisti fanno tutto quel che possono per evitare la competizione. Amano i monopoli.
Così ogni volta che possono cercano di creare un prodotto che sia
monopolizzabile, che, in altre parole, sia “unico”. Ad esempio prendete
il logo della Nike, che è un esempio perfetto di
capitalisti che incassano un prezzo di monopolio da un simbolo
particolare perché c’è tutto quel bagaglio culturale collegato a ciò che
quel logo significa, a ciò per cui sta, e a come le persone vi
interagiscono. Una scarpa identica, che costa molto meno, può essere
venduta a un prezzo molto inferiore perché semplicemente non ha quel
logo. Così il prezzo di monopolio è tremendamente importante. Troverete
molti casi in cui è una componente cruciale di come funzionano i
mercati.
Nello stesso capitolo cito il commercio del vino, che mi intriga
parecchio. Si cerca di ricavare una rendita monopolistica perché questo
vigneto ha un suolo particolare, o questa vigna ha una collocazione
geografica speciale. Perciò crea un unico vino “vintage” che ha un
sapore migliore di ogni altro al mondo; solo che non è così. C’è un
grande interesse a cercare di acquisire una rendita monopolistica
assicurandosi che il proprio prodotto sia commercializzato come unico e
molto, molto speciale. Poi, a livello locale, città cercano di darsi un
“marchio”. C’è ora un’intera storia, in particolare riguardante gli
ultimi 30-40 anni, in cui città si sono date un marchio e hanno tentato
di vendere un pezzo della loro storia. Qual è l’immagine di una città? È
attraente per i turisti? Va di moda? La città si promuoverà
commercialmente.
Si troveranno città che hanno alte reputazioni, come Barcellona, Spagna, o New York City.
Uno dei modi in cui si può vantare l’unicità di una città consiste nel
promuovere qualcosa riguardo alla storia della città che sia molto
specifico, perché non si può fruire del parallelo storico altrove. Così,
per esempio, si va ad Atene per via dell’Acropoli, o si va a Roma
per le antiche rovine. Così si comincia a promuovere commercialmente la
storia di una città come unica e redditizia. D’altro canto, se non si
ha una storia particolare, semplicemente se ne inventa una. C’è una
quantità di città che si sono inventate storie nel mondo di oggi. Allora
si dice alla gente che la cultura del luogo è molto speciale. Sai, cose
come stili alimentari unici, o danze uniche diventano molto importanti.
Si deve promuovere la “vita di strada” come unica; non esiste nessun
altro luogo così, e tutto quel genere di roba.
La commercializzazione degli aspetti culturali e storici di una
città è oggi una componente cruciale del processo economico. Alcune
città semplicemente s’inventano una cultura unica. Ad esempio alcuni città utilizzeranno “architettura firmata”. Ad esempio non molti conoscevano la città di Bilbao,
in Spagna, prima che il Museo Guggenheim diventasse il posto alla moda
di un particolare marchio di architettura. Passando oltre possiamo
considerare Sidney, Australia, e la sua Sala
dell’Opera, che è la prima cosa che le persone riconoscono quando vedono
una fotografia della città, e possiamo vedere quanto importante sia
diventato ciò. Così l’architettura stessa diviene preda della
commercializzazione e del marchio di una città. Sai, persino le scene
della pittura e della musica diventano aspetti considerevoli di cultura
da poi promuovere e vendere; città come Austin, Texas, diventano “scene della musica”. Poi ci sono luoghi come Nashville,
e così via. Così le città cominciano a usare la produzione culturale
come modo per promuoversi come uniche e speciali. Naturalmente il
problema al riguardo è che molta della cultura è facilissima da
replicare. L’unicità comincia a sparire. A quel punto abbiamo quella che
chiamo la “disneyficazione” della società.
In Europa, ad esempio, anche se molte città hanno un passato
storico-culturale serio, ogni cosa diventa “disneyficata”. Alcuni, io
per esempio, finiscono estremamente disgustati da questo. È ancora
un’altra “disneyficazione” della storia dell’Europa e
io semplicemente non voglio più essere seccato da questo. Questa è la
contraddizione: si promuove commercialmente una città come unica e
tuttavia, mediante la promozione, la città diventa replicabile. In
realtà i simulacri della storia diventano importanti tanto quanto la
storia stessa. C’è una tensione in giro in cerca di rendite
monopolistiche, conquistandole per un po’ e poi perdendole a favore dei
simulacri. Questo diviene significativo. Oggi questo crea anche una
situazione in cui i produttori di cultura diventano tremendamente
importanti. Sono andato a vivere a Baltimora nel 1969 e
vi erano circa tre musei. Oggi ci sono più di trenta musei a Baltimora!
Questo diventa il modo in cui si commercializza la città. Tuttavia se
ogni città ha trenta musei allora ci si può scordare di godere di un
vantaggio monopolistico. Allora davvero non conta dove mi trovo; se a
Baltimora, Pittsburgh o Detroit. Tutto diventa un’esperienza replicabile. Cominciano a perdere il loro potere monopolistico.
Nel capitolo cinque, “Riprendersi la città per la lotta
anticapitalista”, tu scrivi: “Due questioni derivano dai movimenti
politici a base urbana: 1) La città, o sistema di città, è uno spazio
meramente passivo o una rete preesistente? 2) Le proteste politiche
spesso misurano il loro successo in termini di capacità di
disarticolazione delle economie urbane”. Puoi spiegare tali
disarticolazioni? Come pensi che i dimostranti nella società odierna
possano disarticolare più efficacemente le economie urbane?
L’uragano Sandy ha realmente disarticolato le vite dei residenti nella
città di New York. Dunque non vedo perché movimenti sociali organizzati
non potrebbero disarticolare la vita consueta in grandi città e perciò
causare danni agli interessi della classe dominante. Abbiamo visto molti
esempi storici di questo. Ad esempio negli anni ’60 i disturbi che si
sono verificati in molte città degli Stati Uniti hanno causato grandi
problemi alle aziende. Le classi politiche ed economiche sono state
rapide nel reagire a causa del livello di disarticolazione e
distruzione. Cito nel libro le dimostrazioni dei lavoratori immigrati
nella primavera del 2006. Le dimostrazioni furono una reazione al
tentativo del Congresso di criminalizzare gli immigrati illegali.
Successivamente la gente si mobilitò in luoghi quali Los Angeles e
Chicago, e inceppò considerevolmente l’economia cittadina.
Si potrebbe prendere l’idea di uno sciopero, solitamente mirato contro
una particolare azienda o organizzazione, e tradurre quelle tattiche e
strategie nei centri cittadini. Così invece di scioperare contro una
particolare impresa o società la gente indirizzerebbe le sue azioni nei
confronti di intere aree urbane. Allora ci sono eventi come la Comune di
Parigi o lo sciopero generale di Seattle del 1919 o la rivolta
Cordobazo in Argentina, circa 1969. Non occorre che sia un movimento
rivoluzionario da un giorno all’altro. Queste cose possono aver luogo
gradualmente mediante riforme.
La redazione partecipativa del bilancio è attualmente attuata a Porto Alegre,
Brasile, dove il Partito dei Lavoratori ha sviluppato un sistema
attraverso il quale popolazione e assemblee locali decidono per che cosa
devono essere spese le loro imposte. Dunque tengono assemblee popolari e
così via, che decidono come utilizzare fondi e servizi pubblici. Di
nuovo, ecco una riforma democratica che inizialmente è stata avviata a
Porto Alegre ma che da allora è stata fatta circolare in alcune città europee. È
una magnifica idea. Coinvolge il pubblico e mantiene le persone coinvolte nel processo.
Democratizza il processo decisionale in tutta la società. Queste
decisioni non sono più prese da consigli comunali, burocrati o dietro
porte chiuse. Oggi questi dibattiti sono accessibili alla partecipazione
del pubblico. Da un lato ci sono interventi molto rapidi sotto forma di
scioperi e interferenze. Dall’altro c’è un processo lento di riforme
che ha luogo attraverso assemblee democratiche e così via.
Nel corso degli anni ho collaborato con persone che operano nel
settore sindacale, con persone disoccupate e che operano nell’ambito di
quella che è comunemente chiamata l’”economia sommersa”. Cosa più
importante, sono interessato a organizzare quelli che lavorano nelle
industrie dei servizi, o negli ipermercati tipo Applebee’s o Best Buy.
Nel capitolo cinque tu scrivi: “Nella tradizione marxista le lotte
urbane sono spesso ignorate o scartate in quanto prive di potenziale o
significato rivoluzionario. Quando una lotta a livello cittadino
acquista, in effetti, uno status di icona rivoluzionaria, come accadde
durante la Comune di Parigi nel 1871, si afferma, prima da parte di Marx
e poi con maggiore enfasi da parte di Lenin, trattarsi di una rivolta
proletaria, piuttosto che un movimento rivoluzionario molto più
complicato animato tanto dal desiderio di riprendersi la città stessa
dall’appropriazione borghese, quanto dalla desiderata liberazione dei
lavoratori dai calvari dell’oppressione di classe nel luogo di lavoro.
Considero d’importanza simbolica che i primi due atti della Comune di
Parigi siano stati l’abolizione del lavoro notturno nei forni, una
questione sindacale, e l’imposizione di una moratoria degli affitti, una
questione urbana”. Puoi parlare del privilegio riservato agli operai
dell’industria nell’ideologia marxista?
C’è una lunga storia di ciò. La tendenza nei circoli marxisti, e non
solo nei circoli marxisti ma nella sinistra in generale, consiste nel
privilegiare i lavoratori dell’industria. Questa idea di una lotta di avanguardia che conduce a una nuova società è in circolazione da un certo tempo.
Tuttavia, quella che è affascinante è l’assenza di alternative a questa
visione, o almeno di varianti del suo intento e proposito. Naturalmente
molto di questo proviene dal volume I del Capitale di Marx che
enfatizza il lavoratore di fabbrica. Questa idea che il partito
d’avanguardia dei lavoratori ci porterà nella nuova Terra Promessa
dell’anticapitalismo, chiamiamola una società “comunista” è stata
persistente per più un centinaio d’anni. Ho sempre sentito che si
trattava di una concezione troppo limitata di chi è il proletariato e di
chi è l’”avanguardia”. Inoltre io sono sempre stato interessato alle
dinamiche della lotta di classe e ai loro rapporti con i movimenti
sociali urbani. Chiaramente per me i movimenti sociali urbani sono molto
più complicati. Coprono tutto lo spazio dalle organizzazioni borghesi
di quartiere, impegnate in politiche di esclusione, a una lotta di
affittuari contro padroni di casa a causa di pratiche sfruttatrici. Quando si guarda alla vasta gamma di movimenti sociali urbani se ne trovano alcuni anticapitalisti e altri che sono l’opposto.
Ma farei la stessa osservazione riguardo ad alcune forme tradizionali
di organizzazione sindacale. Ad esempio ci sono alcuni sindacati che
considerano l’attività di organizzazione come un modo per privilegiare i
lavoratori privilegiati della società. Naturalmente questa idea non mi
piace. Poi ci sono altri che stanno creando un mondo più giusto e più
equo.
Penso ci sia una varietà uguale di distinzioni nell’ambito delle forme
di organizzazione dei lavoratori dell’industria. Di fatto le forme di
organizzazione dei lavoratori dell’industria a volte, poiché si occupano
di gruppi speciali e di interessi speciali, sono reattive alla politica
generale più di quanto ci si aspetti. È a questo riguardo che io
accolgo le forme di organizzazione di Antonio Gramsci. Egli era molto interessato ai consigli di fabbrica. Egli seguiva, in effetti, la linea marxista che l’organizzazione di fabbrica è cruciale nella lotta. Ma poi egli spingeva le persone anche a organizzarsi in ambito di quartiere.
In quel modo, nel pensiero di Gramsci, potevano avere un quadro
migliore di com’è l’intera classe lavoratrice, non solo quelli che sono
organizzati in fabbriche e via dicendo. Includendo persone come i
disoccupati, i lavoratori temporanei e tutte le persone che hai citato
in precedenza che non erano occupate in posti di lavoro tradizionali del
settore industriale. Così Gramsci proponeva che questi due tipi di
metodi di organizzazione politica dovrebbe essere interconnessi al fine
di rappresentare realmente il proletariato. In essenza, il mio pensiero
riflette Gramsci sotto questo aspetto. Come cominciamo a occuparci di
tutti i lavoratori in una città? Chi lo fa? I sindacati tradizionali
tendono a non farlo. Mentre ci sono movimenti in seno al movimento
sindacale che stanno attuando tali pratiche organizzative. Ad esempio i
Trade Union Councils in Gran Bretagna o i Labor Councils negli Stati
Uniti che entrambi cercano di organizzare in qualche misura fuori
dall’ambito dell’organizzazione sindacale tradizionale. Ora, quelle
correnti del movimento sindacale non sono state dotate di potere.
Dobbiamo ideare nuove forme di organizzazione che colgano il lato
progressista di ciò che accade nei movimenti sociali urbani e lo unisca a
quel che resta del modello sindacale tradizione del settore
industriale. Dobbiamo riconoscere che molti lavoratori che operano
nell’economia statunitense non potrebbero organizzarsi ufficialmente in
un sindacato date le attuali leggi sul lavoro. Dunque abbiamo bisogno di
una forma diversa di organizzazione, esterna al modello sindacale
tradizionale.
C’è un’organizzazione a New York, che in realtà è nazionale ma è molto
forte a New York, chiamata Domestic Workers Organization [Organizzazione
dei lavoratori domestici]. È molto difficile sindacalizzare i
lavoratori domestici. Ma hanno un’organizzazione basata su diritti e
continuano a organizzarsi e a battersi. Siamo onesti: se sei un
immigrato clandestino negli Stati Uniti, sei trattato in modi
deplorevoli. Perciò organizzare gruppi come i tassisti o i lavoratori
dei ristoranti conduce a quello che è chiamato un Congresso dei
Lavoratori. Stanno cercando di mettere insieme tutte queste forme di
organizzazione. Sai, anche Richard Trumka [leader sindacale, già
presidente dell’AFL-CIO], si è presentato a una di queste conferenze
nazionali e ha detto ai lavoratori che il movimento sindacale
tradizionale al minimo desidererebbe avere un rapporto con loro.
In breve, io penso che oggi ci sia un movimento in crescita che
riconosce l’importanza di tutti i tipi diversi di lavoro che esistono
nell’ambiente urbano. Ho accolto la domanda postami da molti membri di sindacato: “Perché
non sindacalizziamo l’intera dannata città?” Sono già attivi movimenti
per organizzare i tassisti, ma perché non i lavoratori delle consegne? È
una vasta manodopera e la città dipende assolutamente da questi settori
del lavoro per mantenere normalmente funzionante la sua attività
economica. E se questi gruppi si unissero e cominciassero a
rivendicare un tipo diverso di politica nelle città? E se avessero voce
in capitolo sul modo in cui fondi e risorse sono utilizzati? Ci sono modi
per contrastare l’incredibile disuguaglianza esistente a
New York? Voglio dire: i dati delle entrate fiscali dell’anno scorso
hanno mostrato che l’un per cento al vertice a New York guadagna 3,57
milioni di dollari a testa, in confronto con il 50 per cento della
popolazione che cerca di tirare avanti con meno di 30.000 dollari. È una
delle città più disuguali del mondo. Dunque che cosa possiamo fare al
riguardo? Come possiamo organizzarci per cambiare questa disuguaglianza?
Per me dovremmo abbandonare questa idea che l’operaio di fabbrica è
l’avanguardia del proletariato e cominciare a immaginare come nuova
avanguardia quelli che sono impegnati nella produzione e riproduzione
della vita urbana. Vi sarebbero inclusi lavoratori domestici, tassisti,
addetti alle consegne e molti altri della classe povera e di quella
lavoratrice. Penso che possiamo costruire movimenti politici che operino
in modi totalmente diversi rispetto al passato. Possiamo vederlo in
città di tutto il mondo, dalla città boliviane a Buenos Aires. Mettendo
insieme il lavoro di attivisti urbani con quelli che lavorano nelle
fabbriche cominciamo a sviluppare un elemento completamente differente
di agitazione politica.
Puoi parlare di alcune di tali città, come El Alto, in Bolivia?
Inoltre, nel 2011 ero a Madison, Wisconsin, nel 2011 nel corso delle
proteste sindacali e devo dire che è stato interessante e assolutamente
frustrante vivere le dinamiche interne del movimento sindacale, e come
interagisce con i cittadini e i lavoratori non iscritti al sindacato.
Purtroppo il movimento sindacale reprime il dissenso e la resistenza
seri. Anche se molti lavoratori a Madison sono sindacalizzati, quelli
che fisicamente avevano occupato l’edificio del Campidoglio e avevano
avviato l’occupazione erano lavoratori non sindacalizzati. Poi sono
arrivati i grandi sindacati e hanno immediatamente reindirizzato i
discorsi al voto sulla revoca del governatore Scott Walker.
Indiscutibilmente, col senno di poi, il voto per la revoca del
governatore Walker è stato un disastro politico. Che cosa ne pensi?
I sindacati hanno attraversato un brutto periodo. Non
sono molto progressisti, specialmente negli Stati Uniti. Nel complesso
sono d’accordo su quanto citi. Il motivo per cui ho citato Trumka era
perché io penso che Trumka e molti di quelli all’interno del movimento
sindacale organizzato capiscono che non possono più fare da soli; hanno
bisogno dell’aiuto dell’intera forza lavoro, sindacalizzata o no. Questa
è sempre stata la sfida dell'organizzare: quanto sostegno vogliamo da
queste vaste entità? E quanto di ciò che stanno facendo è frutto di un
vero senso di solidarietà? Quanto è per profitto personale? La mia
esperienza a Baltimora, che copre campagne per il salario minimo,
rispecchia in una certa misura la tua esperienza. I sindacati erano in
generale ostili a tali campagne e non hanno contribuito, parlando in
generale. Tuttavia abbiamo ricevuto in effetti molto aiuto da sindacati
locali.
Così, di nuovo, dobbiamo separare tali due entità. Sezioni locali hanno
effettivamente contribuito alle campagne. Indubbiamente il movimento è
stato molto, molto conservatore negli Stati Uniti; in molti modi,
particolarmente negli ultimi cinquant’anni circa, siamo stati privi di
un movimento serio del lavoro organizzato. E ci sono problemi simili
anche nei sindacati britannici. Per essere giusti, l’impressione che io
ricavo da parte della dirigenza locale di New York è che capiscono che
non possono più comandare. Dubito che tu affermi che non dovremmo
organizzarci nei sindacati, e di chiunque lo dica dovremmo essere
diffidenti, ma credimi: sono ben consapevole dei limiti dei sindacati
moderni.
In effetti ho saputo molto di quanto mi racconti da amici che
partecipavano agli eventi di Madison, Wisconsin. Sai, ho letto tutto
quanto ho potuto riguardo a El Alto, Bolivia, e quelle
che per me sono realmente affascinanti sono le forme di organizzazione
che vi hanno luogo. C’è una componente sindacale, con un forte sindacato
degli insegnanti che apre la via. Ma ci sono anche
molti ex membri del sindacato che lavoravano nelle miniere di stagno ma
sono finiti disoccupati a causa della ristrutturazione neoliberista
degli anni ’80. Quelle persone sono finite a vivere in questa città di
El Alto e c’è una tradizione politica attivista di socialismo. Nel
movimento sindacale cui appartenevano erano principalmente trotzkisti,
il che è significativo. Tuttavia le organizzazioni più importanti erano
le organizzazioni di quartiere. Inoltre c’era
un’assemblea omnicomprensiva di organizzazioni di quartiere chiamata la
Federazione delle Organizzazioni di Quartiere.
Ad esempio c’erano organizzazioni di venditori di strada, che abbiamo
anche a New York, oltre a quelle degli addetti ai trasporti. Questi
gruppi diversi si incontravano regolarmente. La dinamica interessante di
queste organizzazioni è che non la vedono tutte allo stesso modo su
ogni singolo tema. Voglio dire: che senso ha partecipare a una riunione
in cui tutti sono d’accordo? Dovevano partecipare alle riunioni per
assicurarsi che i loro interessi non fossero traditi. È questo quello
che succede quando ci sono dibattiti vivaci e confronti politici: il
progresso. Dunque l’attivismo delle federazioni di quartiere era il
prodotto di metodi di organizzazione molto competitivi. Poi, quando
la polizia e l’esercito hanno cominciato ad assassinare persone nelle
strade, c’è stata un’immediata dimostrazione di solidarietà tra i gruppi
che si organizzavano nella città. Hanno chiuso la città e bloccato le
strade.
In conseguenza la popolazione di La Paz, Bolivia, non è stata in grado
di ricevere merci e servizi perché tre delle vie principali passavano
direttamente attraverso El Alto, che era chiusa da queste
organizzazioni. Lo hanno fatto di nuovo nel 2003 e il risultato è stato
che il presidente è stato cacciato. Poi, nel 2005, è stato cacciato il
presidente successivo. Alla fine hanno avuto Evo Morales. Tutti questi
elementi si sono uniti e hanno organizzato efficacemente i poveri e la
classe lavoratrice in Bolivia. È da qui che ho tratto il titolo del mio
libro ‘Città ribelli’. Del tutto letteralmente, El Alto è diventata una
città rivoluzionaria nel giro di pochi anni. Le forme di organizzazione
in Bolivia sono affascinanti da studiare e da osservare. Non sto dicendo
che questo è “il modello” che tutti dovrebbero copiare, ma è un buon
esempio da osservare e studiare.
Verso la fine del tuo libro citi un film che è caro al mio
cuore, Sale della terra, un film che ho visto per la prima volta da
matricola all’università. Il mio insegnante, il dottor Kim Scipes,
teneva un corso sulla diversità razziale ed etnica alla Purdue North
Central University, dove ho visto il film. Era materiale prescritto da
vedere per il corso. Nel far riferimento al film nel tuo libro tu
scrivi: “Solo quando unità e parità sono costruite con tutte le forze
dei lavoratori saremo in grado di vincere. Il pericolo che questo
messaggio ha rappresentato per il capitalismo è misurato dal fatto che
questo è il solo film statunitense del quale è stata sistematicamente
vietata per molti anni, per motivi politici, la diffusione su reti
commerciali”. Puoi parlare del motivo per il quale questo film è
importante? Che cosa può insegnarci riguardo alla lotta?
Beh, ho visto il film ormai un po' di tempo fa e non riesco a ricordare esattamente quando. Ma, come te, ho
sempre fatto tesoro del suo ricordo. Così mentre ero seduto a scrivere
questo libro sono tornato a vederlo. Naturalmente l’ho rivisto un paio
di altre volte. Penso sia una storia molto umana. Ma questa è una
magnifica storia di una miniera di zinco, che è basata su una situazione
reale, scritta da persone messe al bando da Hollywood per le loro
tendenze comuniste. È un grande film in cui classe, razza e genere si
uniscono tutte a formare una grande storia e narrazione.
C’è un momento nel film che è un po’ buffo: gli uomini non possono più
attuare picchetti a causa della legge Taft-Hartley, così sono le donne
ad assumersi il compito di picchettare perché non c’è nulla che vieti
loro di partecipare alle proteste. Allora gli uomini devono farsi carico
dei lavori di casa. Curiosamente gli uomini cominciano rapidamente a
capire perché le donne chiedano dal padrone acqua corrente e altre cose
che renderebbero molto più facile la vita quotidiana. Velocemente,
naturalmente, gli uomini scoprono quanto sia difficile stare in casa
tutto il giorno. Sintetizza il tipo di questioni di genere che sono
importanti oggi. Si occupa della solidarietà oltre le divisioni etniche,
il che è cruciale. Il film compie un gran lavoro di evidenziazione di
tutto questo in un modo non didattico. Ho sempre amato molto quel
film così ho pensato che fosse appropriato che lo riproponessi nel
contesto di ‘Città Ribelli’.
Qualche consiglio di saluto per quelli che ascoltano o leggono questa intervista?
Purtroppo io non sono un organizzatore; sono uno che scrive dei limiti
del capitale e di come potremmo muoverci nel concepire visioni
alternative della società. Ho ricavato una gran quantità di forza,
motivazione e idee intellettuali da quelli che sono concretamente
impegnati quotidianamente nella lotta. Partecipo e contribuisco, se
posso. Dunque il mio consiglio a tutti sarebbe di uscire quanto più
possibile e occuparsi della disuguaglianza sociale e del degrado
ambientale perché questi sono temi sempre più lungimiranti. La gente
deve diventare attiva, uscire, muoversi. È un periodo cruciale.
Sai, la massiccia ricchezza e il capitale non hanno avuto sinora il
minimo ripensamento. Dobbiamo dare una grande spinta se vogliamo vedere
qualcosa di diverso nella nostra società. Dobbiamo creare meccanismi e
forme di organizzazione che riflettano i bisogni e le volontà della
società nel suo complesso, non solo quelli di una classe oligarchica
privilegiata di individui.
*David Harvey è distinguished professor di antropologia e geografia
al Centro di Laurea dell’Università della Città di New York (CUNY),
direttore del Center for Place, Culture and Politics e autore di
numerosi libri, di cui il più recente è Rebel Cities: From the Right to
the City, to the Urban Revolution (Verso 2012). Ha insegnato Il Capitale
di Karl Marx per più di quarant’anni.
** Vincent Emanuele è autore, attivista e conduttore radiofonico.
Vince conduce un programma settimanale sulla Progressive Radio Network
intitolato “Meditations and Molotovs”, in onda ogni lunedì alle ore 1:00
pomeridiane (ora di Chicago).
Vincent Emanuele scrive per teleSUR English e vive a Michigan, Indiana. Può essere raggiunto all’indirizzo vincent.emanuele333@gmail.com.
Fonte: znetitaly.org (originale: Counterpunch), traduzione di Giuseppe Volpe per Zanetitaly (Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0)
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