Diciamocelo subito e sinceramente: il
quotidiano Libero, fondato da Vittorio Feltri, è qualcosa di aberrante. Nasce con l’inizio del secolo, in area centrodestra, e si distingue
subito per spargere veleno prima, durante e dopo il G8. Se c’è una
testata in Italia, persino più de Il Giornale, che vive ricalcando tutti
quei luoghi comuni destroidi, razzisti, sessisti e qualunquisti
esistenti è proprio Libero. Testata che vanta anche un vicedirettore, Renato Farina, condannato, come collaboratore dei servizi
(in codice “agente Betulla”), a sette mesi per aver pubblicato, e
contribuito a confezionare, un falso dossier contro Romano Prodi. Questo per capirsi, eventualmente, su quanto Libero sia stato infiltrabile dai servizi. Ma anche dal traffico di falsi,
visto che Libero pubblicò, nel 2011, I diari di Mussolini, già
certificati come inautentici da diverse perizie, anche chieste da una
importante casa di aste.
Libero ha come specialità quel
giornalismo – prima insinuatosi negli anni ‘80 poi impostosi nel decennio
successivo e infine riprodotto oggi sui social – che lavora a invertire
la realtà. Sempre a favore di poteri dispotici, consolidando luoghi
comuni, beceri, moralisti, poveri. Per cui se c’è un sciopero la colpa è dei lavoratori, se la guerra genera profughi, i colpevoli
sono quei sopravvissuti che arrivano in Italia, per non parlare delle
solite dicerie su fatti gonfiati sui dipendenti pubblici, insegnanti,
giovani etc.
Per tacere della misoginia
evidente, chiamiamola così per tenersi buoni, espressa nei confronti di
qualsiasi figura femminile ritenuta di sinistra. Tenendo conto,
inoltre, che il concetto di sinistra di Libero è larghissimo,
si capisce come le donne siano state spesso un bersaglio becero di
questa testata. Questa volta è toccata ad una donna, non di sinistra, ma
abbondantemente entrata nelle cronache quotidiane: il sindaco di Roma
Virginia Raggi. Il doppio senso ben evidenziato nella testata, che
riproduciamo, riguarda sia il fatto che la Raggi è un grosso problema
per il Movimento 5 Stelle, che l’insinuazione che la vita privata della
Raggi sia, come dire, vissuta in maniera un pò compulsiva. A parte il
fatto che Virginia Raggi ha comunque diritto a vivere la sua sfera
personale come crede, Libero non ha fatto che raccogliere le
esternazioni, prontamente riprese da un giornalista con lo smartphone,
dell’assessore all’urbanistica al comune di Roma Berdini e ne ha fatto
un titolo utile per essere gettato in pasto all’audience e alle
polemiche. Siccome si tratta di Libero, giornale che ha seguito
Berlusconi nelle cause più inverosimili, non manca l’insinuazione su
una Raggi che vivrebbe una vita da bunga-bunga (appoggiandosi anche sul
fatto che lo stesso titolo usato con la Raggi “patata bollente”, con
l’identico doppio senso fu usato, in passato, per Ruby Rubacuori).
E’ chiaro che Libero ha lavorato in due
sensi: per fare un numero a effetto sulla Raggi e, già che c’era,
alleggerire la posizione di Berlusconi (con l’insinuazione del solito
“se è colpevole non è il solo” che finisce sempre per alleggerire il
peso di un comportamento). Detti i fatti, qualche considerazione un po'
più tecnica, legata ai processi di comunicazione politica.
La Raggi è il classico storytelling
della politica sfuggito a se stesso. E qui forse alla Casaleggio qualche
interrogativo sul fatto che l’eccesso di narrazione in politica può
essere un boomerang forse non sarebbe male porselo. Ma chi pensa al primato del
marketing aziendale sulle altre forme di comunicazione, è difficile possa
uscire da questi schemi. Premesso poi che ogni storytelling di
successo in politica è spesso destinato a sfuggire a chi lo ha creato, e
premesso che questo fenomeno è più un problema per chi vive di sondaggi
e meno di radicamento sociale, intendiamo per storytelling un processo
di creazione di storie attorno a un personaggio che, in questo caso,
fino alla vittoria elettorale del giugno 2016 è andato benissimo.
Fino a quel momento, ogni evento
o storia creati attorno a Virginia Raggi funzionava. In modo tale da
salire nei sondaggi, nei voti, da creare quella audience spontanea, sui
media e sui social, a difesa del personaggio (come durante le
accuse prima del voto) o, addirittura, romanzi a fumetti su una
fantastoria d’innamoramento tra la Raggi e il suo avversario alle
elezioni Giachetti. E quest’ultimo dettaglio era la spia che lo
storytelling era riuscito, con le storie non ufficiali che
spontaneamente aggiungono fama alla storia ufficiale, ma anche del
pericolo di scivolamento. Ovvero che il personaggio Raggi potesse finire
velocemente nel gossip o nel softcore in modo incontrollabile. Come avvenuto per Maria Elena Boschi a causa, qui, non tanto della narrazione del gossip in sé ma per la vicenda banche.
E quando la narrazione diventa
incontrollabile interviene quello che giustamente Federico Di Chio
chiama storytelling all’americana. In poche parole uno storytelling dove
la drammatizzazione, la velocizzazione degli eventi, l’avvento di
personaggi secondari che modificano giudizio e significato sui
personaggi principali si fanno stringenti e, soprattutto, appetibili dal
pubblico. Il punto è che questo storytelling, a differenza
della fase delle luna di miele elettorale, non lo fa la Casaleggio ma lo
fanno i media. Specie quando gli assessori appaiono e
scompaiono, ogni giorno accade qualcosa (dai rifiuti, ai bilanci, alle
rivelazioni di dossier), i personaggi secondari attirano nuove storie
(da Muraro alla vicenda Marra) che portano nuovi significati alla
vicenda Raggi. Tutto questo non ha avuto, né poteva averlo, una
narrazione predominante da parte della Casaleggio ma da parte del media
mainstream e dei social media. In questo modo la vicenda Raggi
sfugge dalle mani, e dal governo dei significati, di chi l’ha, dal punto
di vista comunicativo, promossa e creata. In questo senso le rivelazioni registrate di Berdini per lo storytelling ufficiale della Raggi sono devastanti.
Prima di tutto perchè aggiungono
nuovo supporto, e quindi nuovi significati, alla narrazione: dalle
chat stavolta si passa all’audio. E questo è un effetto novità
che paga per qualsiasi storytelling alternativo. Poi perchè queste
rivelazioni di Berdini alludono ad un sottofondo di gossip e softcore
potenzialmente esplosivo per chi è politicamente in difficoltà,
rispetto all’audience e all’elettorato. Ecco infatti Libero, che di
storytelling costruiti per distruggere l’avversario politico ha una
consolidata tradizione, passa subito all’allusione piena dello scenario
softcore, pescando dall’intramontabile linguaggio della stagione dei
film italiani di serie B.
In questo senso la Raggi rischia di
entrare in una narrazione, in termini di farsa, peggiore di quella degli
assessori che vanno e che vengono. Quella che circola più velocemente
sui social legata al gossip, e già di articoli considerabili con questo
termine riguardanti la Raggi ne circolano, e alla dimensione softcore
dell’alcova della sindaco che titoli come quello di Libero evocano. Insomma quando lo storytelling sfugge di mano questa del gossip e del softcore, se permane, è la tendenza peggiore.
Rimane la censura ufficiale, da
parte dei rappresentanti delle istituzioni, del numero di Libero. La
censura morale serve a poco. Specie in un’epoca dove i social
la metabolizzano con infinite polemiche che ne triturano l’efficacia
(alimentando proprio quei nuovi generi di narrazioni che la censura
vorrebbe evitare), la censura morale esiste per salvaguardare solo quella quota di moralità che le istituzioni detengono. Ma non certo per prevenire o impedire fenomeni di comunicazione spontanea e di impatto. Un
certo tipo di comunicazione, come lo storytelling attivato da Libero,
si sconfigge con l’ironia. Certo ironia ed istituzioni si accompagnano
male, visto che questa, per essere efficace contro uno storytelling,
deve essere agile e sottile come le istituzioni della repubblica non
sanno essere. Ma più a sinistra, invece di agitare
l’immmediato linguaggio della condanna, quella pratica sociale che
invocata rende sempre simili al potere, l’ironia contro storytelling
del genere potrebbe essere usata con maggiore successo. Ma
l’ironia, nella comunicazione politica efficace, non è tanto invenzione
di un singolo. E’ come un pezzo musicale: in parte creazione di un
gruppo, in parte pre-esistente in uno strato sociale. Cosa
oggettivamente difficile per ciò che rimane della sinistra. Intanto lo
storytelling di “Virginia” continua. Completamente sfuggito ai suoi
creatori.
Redazione, 10 febbraio 2017
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