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11/02/2017

Virginia Raggi e la minaccia softcore

Diciamocelo subito e sinceramente: il quotidiano Libero, fondato da Vittorio Feltri, è qualcosa di aberrante. Nasce con l’inizio del secolo, in area centrodestra, e si distingue subito per spargere veleno prima, durante e dopo il G8. Se c’è una testata in Italia, persino più de Il Giornale, che vive ricalcando tutti quei  luoghi comuni destroidi, razzisti, sessisti e qualunquisti esistenti è proprio Libero. Testata che vanta anche un vicedirettore, Renato Farina, condannato, come collaboratore dei servizi (in codice “agente Betulla”), a sette mesi per aver pubblicato, e contribuito a confezionare, un falso dossier contro Romano Prodi.  Questo per capirsi, eventualmente, su quanto Libero sia stato infiltrabile dai servizi. Ma anche dal traffico di falsi, visto che Libero pubblicò, nel 2011, I diari di Mussolini, già certificati come inautentici da diverse perizie, anche chieste da una importante casa di aste.

Libero ha come specialità quel giornalismo prima insinuatosi negli anni ‘80 poi impostosi nel decennio successivo e infine riprodotto oggi sui social che lavora a invertire la realtà. Sempre a favore di poteri dispotici, consolidando luoghi comuni, beceri, moralisti, poveri. Per cui se c’è un sciopero la colpa è dei lavoratori, se la guerra genera profughi, i  colpevoli sono quei sopravvissuti che arrivano in Italia, per non parlare delle solite dicerie su fatti gonfiati sui dipendenti pubblici, insegnanti, giovani etc.

Per tacere della misoginia evidente, chiamiamola così per tenersi buoni, espressa nei confronti di qualsiasi figura femminile ritenuta di sinistra. Tenendo conto, inoltre, che il concetto di sinistra di Libero è larghissimo, si capisce come le donne siano state spesso un bersaglio becero di questa testata. Questa volta è toccata ad una donna, non di sinistra, ma abbondantemente entrata nelle cronache quotidiane: il sindaco di Roma Virginia Raggi. Il doppio senso ben evidenziato nella testata, che riproduciamo, riguarda sia il fatto che la Raggi è un grosso problema per il Movimento 5 Stelle, che l’insinuazione che la vita privata della Raggi sia, come dire, vissuta in maniera un pò compulsiva. A parte il fatto che Virginia Raggi ha comunque diritto a vivere la sua sfera personale come crede, Libero non ha fatto che raccogliere le esternazioni, prontamente riprese da un giornalista con lo smartphone, dell’assessore all’urbanistica al comune di Roma Berdini e ne ha fatto un titolo utile per essere gettato in pasto all’audience e alle polemiche. Siccome si tratta di Libero, giornale che ha seguito Berlusconi nelle cause più inverosimili, non manca l’insinuazione su una Raggi che vivrebbe una vita da bunga-bunga (appoggiandosi anche sul fatto che lo stesso titolo usato con la Raggi “patata bollente”, con l’identico doppio senso fu usato, in passato, per Ruby Rubacuori).

E’ chiaro che Libero ha lavorato in due sensi: per fare un numero a effetto sulla Raggi e, già che c’era, alleggerire la posizione di Berlusconi (con l’insinuazione del solito “se è colpevole non è il solo” che finisce sempre per alleggerire il peso di un comportamento). Detti i fatti, qualche considerazione un po' più tecnica, legata ai processi di comunicazione politica.

La Raggi è il classico storytelling della politica sfuggito a se stesso. E qui forse alla Casaleggio qualche interrogativo sul fatto che l’eccesso di narrazione in politica può essere un boomerang forse non sarebbe male porselo. Ma chi pensa al primato del marketing aziendale sulle altre forme di comunicazione, è difficile possa uscire da questi schemi. Premesso poi che ogni storytelling di successo in politica è spesso destinato a sfuggire a chi lo ha creato, e premesso che questo fenomeno è più un problema per chi vive di sondaggi e meno di radicamento sociale, intendiamo per storytelling un processo di creazione di storie attorno a un personaggio che, in questo caso, fino alla vittoria elettorale del giugno 2016 è andato benissimo.

Fino a quel momento, ogni evento o storia creati attorno a Virginia Raggi funzionava. In modo tale da salire nei sondaggi, nei voti, da creare quella audience spontanea, sui media e sui social, a difesa del personaggio (come durante le accuse prima del voto) o, addirittura, romanzi a fumetti su una fantastoria d’innamoramento tra la Raggi e il suo avversario alle elezioni Giachetti. E quest’ultimo dettaglio era la spia che lo storytelling era riuscito, con le storie non ufficiali che spontaneamente aggiungono fama alla storia ufficiale, ma anche del pericolo di scivolamento. Ovvero che il personaggio Raggi potesse finire velocemente nel gossip o nel softcore in modo incontrollabile. Come avvenuto per Maria Elena Boschi a causa, qui, non tanto della narrazione del gossip in ma per la vicenda banche.

E quando la narrazione diventa incontrollabile interviene quello che giustamente Federico Di Chio chiama storytelling all’americana. In poche parole uno storytelling dove la drammatizzazione, la velocizzazione degli eventi, l’avvento di personaggi secondari che modificano giudizio e significato sui personaggi principali si fanno stringenti e, soprattutto, appetibili dal pubblico. Il punto è che questo storytelling, a differenza della fase delle luna di miele elettorale, non lo fa la Casaleggio ma lo fanno i media. Specie quando gli assessori appaiono e scompaiono, ogni giorno accade qualcosa (dai rifiuti, ai bilanci, alle rivelazioni di dossier), i personaggi secondari attirano nuove storie (da Muraro alla vicenda Marra) che portano nuovi significati alla vicenda Raggi. Tutto questo non ha avuto, poteva averlo, una narrazione predominante da parte della Casaleggio ma da parte del media mainstream e dei social media. In questo modo la vicenda Raggi sfugge dalle mani, e dal governo dei significati, di chi l’ha, dal punto di vista comunicativo, promossa e creata.  In questo senso le rivelazioni registrate di Berdini per lo storytelling ufficiale della Raggi sono devastanti.

Prima di tutto perchè aggiungono nuovo supporto, e quindi nuovi significati, alla narrazione: dalle chat stavolta si passa all’audio. E questo è un effetto novità che paga per qualsiasi storytelling alternativo. Poi perchè  queste rivelazioni di Berdini alludono ad un sottofondo di gossip e softcore potenzialmente esplosivo per chi è politicamente in difficoltà, rispetto all’audience e all’elettorato. Ecco infatti Libero, che di storytelling costruiti per distruggere l’avversario politico ha una consolidata tradizione, passa subito all’allusione piena dello scenario softcore, pescando dall’intramontabile linguaggio della stagione dei film italiani di serie B.

In questo senso la Raggi rischia di entrare in una narrazione, in termini di farsa, peggiore di quella degli assessori che vanno e che vengono. Quella che circola più velocemente sui social legata al gossip, e già di articoli considerabili con questo termine riguardanti la Raggi ne circolano, e alla dimensione softcore dell’alcova della sindaco che titoli come quello di Libero evocano. Insomma quando lo storytelling sfugge di mano questa del gossip e del softcore, se permane, è la tendenza peggiore.

Rimane la censura ufficiale, da parte dei rappresentanti delle istituzioni, del numero di Libero. La censura morale serve a poco. Specie in un’epoca dove i social la metabolizzano con infinite polemiche che ne triturano l’efficacia (alimentando proprio quei nuovi generi di narrazioni che la censura vorrebbe evitare), la censura morale esiste per salvaguardare solo quella quota di moralità che le istituzioni detengono. Ma non certo per prevenire o impedire fenomeni di comunicazione spontanea e di impatto. Un certo tipo di comunicazione, come lo storytelling attivato da Libero, si sconfigge con l’ironia. Certo ironia ed istituzioni si accompagnano male, visto che questa, per essere efficace contro uno storytelling, deve essere agile e sottile come le istituzioni della repubblica non sanno essere. Ma più a sinistra, invece di agitare l’immmediato linguaggio della condanna, quella pratica sociale che invocata rende sempre simili al potere,  l’ironia contro storytelling del genere potrebbe essere usata con maggiore successo. Ma l’ironia, nella comunicazione politica efficace, non è tanto invenzione di un singolo. E’ come un pezzo musicale: in parte creazione di un gruppo, in parte pre-esistente in uno strato sociale. Cosa oggettivamente difficile per ciò che rimane della sinistra. Intanto lo storytelling di “Virginia” continua. Completamente sfuggito ai suoi creatori.

Redazione, 10 febbraio 2017

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