Come sa bene chiunque fatichi a trovare un lavoro, l’orizzonte della
piena occupazione è stato ormai da tempo perso di vista da quasi tutte
le forze politiche. Al di la delle retoriche paternalistiche, da
spacciare un tanto al chilo in tempi di elezioni, tutti ormai sono
consapevoli che un “giusto” tasso di disoccupazione è infatti
indispensabile se si vogliono calmierare le richieste salariali di
quegli scassacazzi di lavoratori, sempre pronti a “volere il figlio
dottore” pure loro, come negli anni Sessanta. Soprattutto in tempi di
mercantilismo e di moneta unica (e quindi di cambi fissi) la
disoccupazione di massa e la deflazione salariale sono dunque una strada
“obbligata” per restare competitivi sul mercato mondiale, e lo sono
tanto di più nei paesi come l’Italia, ridotti ormai al rango di
semiperiferie del sistema capitalistico. Al
massimo, ogni volta che escono i dati Istat, ci si interroga su quale
sia questo tasso fisiologico di disoccupazione. Se sia cioè “normale”,
al netto dei fantasiosi sistemi di rilevazione statistici (se lavori
un’ora a settimana risulti occupato), una disoccupazione del 12% con
picchi del 40% tra i giovani che hanno un’età compresa tra i 15 e i 24
anni. Un dibattito stantio e noioso che non affronta mai le cause
strutturali della questione, ma che immancabilmente si risolve nella
richiesta di “riduzione di salario a parità d’orario”, ovvero nel
ribaltamento effettivo di una delle parole d’ordine del movimento
operaio che oggi più che mai dovrebbe diventare il cardine del programma
di ogni forza politica che si dichiari anche solo minimamente
progressista. Questo perché la tendenza al risparmio del lavoro vivo è
una legge di funzionamento interno del sistema capitalistico che,
attraverso la concorrenza, finisce per imporsi su tutti i capitali, in
qualsiasi branca dell’economia.
E’ di questi giorni un esempio, pur piccolo, che può essere
considerato paradigmatico. Sky ha annunciato di voler concentrare a
Milano gran parte delle proprie attività. Questa decisione dovrebbe
comportare il trasferimento di 310 addetti e il licenziamento di 200
lavoratori (una dozzina di giornalisti e il resto tecnici e
amministrativi). Come tutti sanno ci troviamo in questo caso nel mondo
hi-tech del terziario avanzato, e Sky è tutt’altro che un’azienda in
crisi. Come ricorda l’inserto economico del Fatto Quotidiano di
ieri, Sky ha chiuso gli ultimi 6 mesi del 2016 con utili operativi in
crescita del 141% (oltre 81 milioni di euro) e ricavi del 9% (1,4
miliardi). E nonostante tutto licenzia: perché? La risposta la troviamo
nel succitato articolo del Fatto: dal 2008 la Tv di Rupert Murdoch ha avviato a livello mondiale un investimento gigantesco in tecnologia, con l’adozione di suite
in grado di tagliare drasticamente le risorse umane nel processo di
produzione giornalistica. Il buon vecchio Marx l’avrebbe definito un
aumento di composizione organica del Capitale. Nello specifico
l’applicativo sviluppato in Norvegia coordina tutte le funzioni di uno
studio all-news (dal movimento delle telecamere alle luci,
dalla gestione dei livelli audio alla gestione degli archivi). Tutto
avviene in automatico, senza l’intervento dei tecnici o della redazione.
Fino a qualche anno fa per gestire contemporaneamente tutte queste
funzioni erano necessari 15 addetti, al momento la sala regia di Sky
Sport a Milano prevede 7 addetti, col nuovo sistema “Mosart” ne saranno
sufficienti 3, due tecnici e un giornalista. Non è difficile immaginare
che in qualche anno l’uso di questa tecnologia, che al momento fornisce a
Sky un vantaggio competitivo sulla concorrenza, si generalizzerà
abbassando drasticamente la necessità di forza lavoro dell’intero
settore (Capitale variabile, l’avrebbe chiamato Marx). E, come detto
prima, stiamo parlando di terziario avanzato, ovvero di quel settore
economico che secondo gli apologeti del libero mercato dovrebbe
assorbire la manodopera in eccesso espulsa dagli analoghi processi
avvenuti nel settore industriale. La disoccupazione tecnologica di massa
è dunque un fatto strutturale, non congiunturale, con cui saremo
chiamati tutti a fare i conti. Nessuna “ripresa economica”, ammesso che
si realizzi, riuscirà dunque a riassorbire chi oggi viene cacciato dal
lavoro. E men che mai nella sfera dell’economia privata.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento