di Michele Giorgio – Il Manifesto
Annunci quasi
quotidiani di nuove case per coloni israeliani a Gerusalemme Est e in
Cisgiordania (l’ultimo è di ieri, 3000 nuovi alloggi), taglio dei
finanziamenti americani (221 milioni di dollari) all’Autorità nazionale
palestinese (Anp), Donald Trump che vuole trasferire l’ambasciata Usa da
Tel Aviv a Gerusalemme.
L’elenco delle brutte notizie per l’Anp si allunga. Se gli
otto anni di Barack Obama alla Casa Bianca sono stati (a dir poco)
deludenti per le aspirazioni palestinesi, i prossimi quattro con Trump
si annunciano un incubo. I primi giorni di presidenza del
tycoon americano hanno detto parecchio su come la nuova Amministrazione
intende agire sul terreno mediorientale.
E il patto d’acciaio che il neo presidente stringerà con il
premier israeliano Netanyahu, il 15 febbraio, quando si incontreranno a
Washington, indebolirà ulteriormente il leader palestinese Abu Mazen.
Buona parte della popolazione palestinese non condivide la linea moderata di Abu Mazen, che trova inadeguata ad affrontare le politiche di Israele. In questo quadro l’alleanza
tra Casa Bianca e Israele che Trump ripete di voler rendere ancora più
stretta, è destinato ad acuire lo scontro dentro Fatah e l’Anp e a
riportare in primo piano la questione della successione all’81enne
presidente palestinese.
Chi ai vertici palestinesi chiede fermezza in molti casi lo fa anche
per attaccare Abu Mazen. «In apparenza ai piani alti di Fatah e dell’Anp
regna la coesione contro il pericolo Trump, in realtà è in corso un
dibattito lacerante su come affrontare questa nuova fase», ci spiega un
funzionario di Fatah che preferisce restare anonimo, «alcuni importanti
dirigenti del partito che ambiscono alla presidenza, dicono che siamo
davanti a una crisi eccezionale che richiede un cambio di passo. E Abu
Mazen, aggiungono, non è in grado di compierlo».
Nei giorni scorsi, a cominciare dal segretario dell’Olp e
caponegoziatore Saeb Erakat, diversi esponenti di primo piano di Fatah,
hanno minacciato la revoca del riconoscimento di Israele (votato dai
palestinesi 21 anni fa) se Trump trasferirà l’ambasciata Usa da Tel Aviv
a Gerusalemme. Qualcuno è tornato a reclamare con forza la fine della cooperazione di sicurezza con Israele.
Abu Mazen è contrario a questi passi, li giudica affrettati. A suo parere potrebbero aprire la strada a un massiccio intervento militare di Israele in Cisgiordania. La
questione scotta e la scorsa settimana, al Comitato centrale di Fatah,
Nasser Qidwa, ex ambasciatore palestinese all’Onu e nipote del
presidente scomparso Yasser Arafat, a sorpresa ha presentato una
proposta in 10 punti che da un lato rappresenta un compromesso tra i
fautori della linea dura e i sostenitori della prudenza, e dall’altro
gli consente di inserirsi nel ristretto gruppo di candidati alla
poltrona di Abu Mazen.
Qidwa non sostiene l’annullamento del riconoscimento di Israele. Propone piuttosto una
mobilitazione permanente contro Trump e Netanyahu, facendo leva sul
diritto internazionale, in ogni sede possibile e coinvolgendo sino in
fondo la Giordania. Il regno hashemita è alleato dello Stato
ebraico nelle questioni di sicurezza ma è insofferente di fronte alle
mire della destra religiosa israeliana sulla Spianata di al Aqsa a
Gerusalemme e ha condannato il possibile trasferimento dell’ambasciata
Usa.
Qidwa chiede inoltre che i palestinesi si proclamino contro
il proseguimento della mediazione americana e che siano chiuse le
rappresentanze dell’Anp negli Stati Uniti. «È un attacco
frontale ad Abu Mazen – ci spiega ancora l’anonimo funzionario di Fatah –
il presidente mai, anche con Trump alla Casa Bianca, sarà favorevole a
passo del genere. Crede che gli Usa siano centrali per la risoluzione
del conflitto (israelo-palestinese, ndr)».
Dalla parte di Qidwa, sebbene con posizioni più radicali, si
sarebbe schierato Marwan Barghouti, il leader più popolare di Fatah, in
carcere in Israele dal 2002. La riconciliazione, vera, con gli
islamisti di Hamas aiuterebbe il presidente palestinese a contenere le
pressioni interne. Appena ieri però, da Ramallah, hanno
annunciato la nuova data delle elezioni amministrative, il 13 maggio,
precisando che il voto si terrà solo in Cisgiordania e non anche a Gaza,
controllata da Hamas. Un passo criticato con forza dal movimento islamico.
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