di Roberto Prinzi
La Turchia ricorda oggi il
fallito golpe militare del 15 luglio dello scorso anno con una serie di
iniziative che, per portata e simbolismo, rendono questa giornata una
data chiave della storia del Paese. Il governo, infatti, ha parlato per
l’occasione di festa nazionale per la “democrazia e l’unità”
sottolineando come il fallimento del putsch (che ha causato almeno 260 morti) abbia rappresentato “una vittoria delle democrazia turca”.
I toni usati dal presidente Erdogan in questi giorni sono stati quasi mitologici:
“Da ora in poi – ha dichiarato giovedì – niente sarà come prima del 15
luglio”. Da qui il riferimento ad uno dei miti fondativi dello stato
moderno turco: la sconfitta dei golpisti paragonata a quella degli
Alleati nella battaglia di Gallipoli del 1915 quando le truppe ottomane
resistettero alla loro offensiva. “Nel corso della loro storia, stati e
nazioni – ha poi spiegato – vivono bivi difficili che formano però il
loro futuro. Il 15 luglio rappresenta tale data per la Repubblica
turca”.
La solennità della giornata è evidente a Istanbul dove poster giganti
mostrano gli eventi chiave del fallito putsch dello scorso anno. E tra
questi, ovviamente, non può mancare la resa dei soldati golpisti.
Le celebrazioni inizieranno nella Grande assemblea nazionale dove alle
10 ora locale avrà luogo una sessione speciale dei lavori parlamentari:
i vari leader politici (tranne ovviamente quelli purgati dal Sultano
quest’anno) terranno discorsi di 10 minuti in cui celebreranno
l’importanza di questa data. Al centro della scena non potrà esserci
che lui, Erdogan, il presidente sempre più padre-padrone dello stato
dopo la discussa vittoria nel referendum costituzionale del 16 aprile.
Alle 18:30 il Paese avrà in simultanea “marce dell’Unità nazionale” ad Ankara e Istanbul.
Nella capitale, il corteo, attraversato da una lunga bandiera della
Turchia, partirà nel centrale distretto di Ulus e finirà a piazza
Kizilay, ribattezzata dopo gli eventi di luglio Piazza della Volontà
nazionale Kizilay. A Istanbul Erdogan prenderà parte alle 20 alla
“marcia del popolo” sul ponte del Bosforo teatro lo scorso anno di
sanguinosi combattimenti e che è stato rinominato, non a caso, il “Ponte
dei martiri del 15 luglio”. A mezzanotte avranno luogo le “difese della democrazia”,
raduni in cui verranno celebrati coloro che, esortati dal leader
islamista, scesero in strada quella sera “in difesa della nazione sotto
attacco”. Erdogan ritornerà quindi ad Ankara dove terrà un discorso
simbolico in Parlamento all’ora esatta in cui, l’anno scorso, l’edificio
è stato bombardato.
Accanto alle parole e alle celebrazioni, ogni riscrittura della
storia e ogni costruzione di “miti” ha da sempre bisogno anche di un
monumento-monito per i propri connazionali e Erdogan non sfuggirà a
questa consolidata tradizione. Il presidente, infatti, svelerà nella capitale un’opera commemorativa fuori il palazzo presidenziale (più Reggia reale, per la verità, considerata la sua grandezza e lo sfarzo) quando l’adhan inviterà i fedeli alla preghiera dell’alba.
I toni e le dichiarazioni di questa giornata e di quelle che
l’hanno preceduta sono emblematici della strumentalizzazione a fine
personalistici che il presidente ha fatto e sta facendo del golpe per
riscrivere la storia del Paese e per consolidare il suo potere. Basta snocciolare i dati presentati due giorni fa dal ministro della giustizia turco per comprendere come il
15 luglio 2016 abbia rappresentato senza dubbio uno spartiacque
importante della storia recente del Paese e abbia fornito un’occasione
d’oro a Erdogan per silenziare (ancora di più) ogni forma di dissenso.
In un anno, infatti, la Turchia ha arrestato 50.510 persone accusate di
avere legami con il religioso Fetullah Gulen (ex alleato del
presidente). Tra i detenuti, si legge in una nota del ministero, ci sono
169 generali, 7.098 colonnelli e soldati di grado più basso, 8.815
poliziotti, 24 governatori, 73 vice governatori, 116 governatori
distrettuali, 2.413 membri dell’apparato giudiziario e 31.784 non meglio
precisati “altri sospetti”.
Senza poi dimenticare i più di 140.000 accademici e impiegati
pubblici licenziati e i 130 giornalisti in prigione. Sono però numeri
provvisori: ieri, infatti, alla lista dei purgati si sono aggiunti più
di 7.000 persone tra poliziotti, impiegati statali e accademici. Vanno
poi ricordati i detenuti politici: tra questi meritano una menzione
particolare i 10 parlamentari del partito di sinistra filo-curdo Hdp e,
soprattutto, i suoi co-presidenti Dermitas e Yuksekdag.
Secondo Kemal Kilicdaroglu, il leader del principale partito
d’opposizione, le disposizioni messe in atto da Erdogan dopo il fallito
putsch rappresentano un “secondo golpe”. Nell’ultimo mese il
capo del Chp è stato protagonista della “marcia della giustizia”, una
protesta che, iniziata lo scorso 15 giugno ad Ankara, è terminata
domenica a Istanbul vicino alla prigione in cui è incarcerato il suo
collega di partito Enin Berberoglu. Un evento storico che alcuni
commentatori, esagerando, hanno paragonato alla marcia di Gandi in
India. Quel che è certo, però, è che si è trattato di uno degli eventi
più partecipati negli ultimi anni e, politicamente, ha rappresentato la
prima vera sfida al governo dell’Akp da parte dei kemalisti dopo anni di
rapporti quanto meno ambigui con il Sultano. Dal palco Kemal Kilicdaroglu ha parlato di “un nuovo inizio”:
“Tutti devono saperlo. Il 9 luglio è un nuovo passo. Un nuovo clima,
una nuova storia, una rinascita. La giornata finale della marcia per la
giustizia è un nuovo inizio, non è la fine”. Sicuramente non oggi.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento