Stimolata dalla lettura di Susan Greenfield (Cambiamento mentale. Come le nuove tecnologie stanno lasciano un’impronta sui nostri cervelli), Anna Angelucci torna a riflettere (su ROARS lo aveva fatto di recente il filosofo olandese Wouter J. Hanegraaff nel suo articolo C’è luce in fondo al tunnel)
su uno degli aspetti più significativi legati alla nostra ormai
irreversibile immersione nell’era digitale. In che modo la pervasività
delle tecnologie digitali che accompagnano tutti i momenti della nostra
esistenza sta trasformando il nostro modo di pensare e problematizzare
la realtà nella quale viviamo? “Ammaliati dalle sirene della comodità,
della rapidità, della facilità di chi prima ci ha venduto le nuove
tecnologie digitali e di chi poi ha venduto noi ai padroni delle
tecnologie digitali, non ci siamo resi conto della posta in gioco: la
perdita diffusa della nostra intelligenza intesa come capacità di
comprendere, di fare inferenze, di stabilire una gerarchia di
significati, di formulare concetti astratti, di elaborare una visione
del mondo articolata, complessa, critica. Ma anche la perdita della
nostra possibilità di incidere nel reale, con azioni in grado di
produrre un cambiamento. Ovvero, della nostra libertà.” A fronte di ciò,
l’Autrice annota come in Italia si sia pervicacemente deciso di
depotenziare gli anticorpi necessari a fronteggiare le conseguenze di
questo processo cognitivo, dopo “vent’anni di pessime riforme della
scuola e dell’università e dopo il colpo di grazia della cosiddetta
‘Buona scuola’”.
Non occorre essere scienziati, esperti,
studiosi o addetti ai lavori per cogliere l’incessante dilagare della
realtà virtuale nella nostra vita quotidiana. Basta l’esperienza, anche
banale, di una qualunque giornata-tipo: smartphone, tablet, personal
computer e innumerevoli altri strumenti digitali riempiono le nostre
case, i nostri luoghi di lavoro, le scuole, le università, le nostre
borse, le nostre tasche. Adulti, adolescenti, bambini.
E non solo. Facciamo moltissime cose on
line, 24 ore su 24, per scelta, per necessità, per obbligo. Lavoro,
acquisti, prenotazioni, comunicazioni, svago, informazione, controllo,
dialogo, gioco: tutto ormai avviene prevalentemente davanti a uno
schermo, seduti, soli e irresistibilmente attratti da questa dimensione
immateriale che coltiva la nostra onnipotenza. O fagocitati, per chi –
come me – avverte il timore, piuttosto che il fascino, della
dematerializzazione.
Sento molte persone, anche notevolmente
istruite, affermare che non bisogna demonizzare i nuovi strumenti
digitali. Che sono il frutto del progresso, delle scoperte scientifiche,
dell’avanzamento della tecnologia. Che non c’è differenza con quanto
accaduto nel passato, con tappe altrettanto significative
dell’evoluzione culturale o della storia umana, sempre considerate da
qualcuno potenzialmente temibili (anche Socrate credeva che la scrittura
avrebbe distrutto le abilità mentali, rendendo gli uomini ‘portatori di
opinioni, invece che sapienti’). Che questi strumenti sono forieri di
importanti miglioramenti nei nostri standard di vita, che la variabile
fondamentale è l’uso che se ne fa, che bisogna insegnarne un utilizzo
corretto. E così via, tra innumerevoli luoghi comuni.
E io penso che McLuhan si rivolti nella tomba, continuando a riformulare invano l’idea che “il medium
è il messaggio” e che dunque questa presunta, invocata neutralità dello
strumento rivendicata dall’uomo comune non è mai esistita nella storia
della civiltà. Mentre la vera novità, forse non ancora sufficientemente
esplorata, è un’altra: la pervasività di queste tecnologie digitali,
sia nella diffusione capillare dei dispositivi, ormai a disposizione fin
dalla più tenera età – si calcola che oggi sei miliardi di persone
hanno accesso a un telefono cellulare, mentre solo quattro miliardi e
mezzo hanno accesso a un bagno funzionante – sia nell’ampliamento
progressivo e illimitato delle loro possibilità di utilizzo per ogni
aspetto della nostra vita e in ogni momento della nostra giornata.
Non abbiamo solo oggetti e possibilità
originali, dunque, come tante volte accaduto in passato, nel mondo. Le
tecnologie digitali hanno creato, per la prima volta, un ambiente
‘altro’, nuovo, virtuale, alternativo a quello reale. Una vera e propria
second life, parallela e contigua alla nostra esistenza
corporea, che sempre più sembra destinata a prevalere, quantitativamente
e qualitativamente, sotto la spinta della potentissima molla del denaro
e del potere che chi fornisce questi prodotti e gestisce questi
processi può illimitatamente accumulare nel contemporaneo mondo
globalizzato, derubandoci del tempo, della cultura, dell’identità,
dell’attenzione, della memoria, della realtà, e spingendoci
all’autoconfinamento in insignificanti ridotte narcisistiche, ove ci
illudiamo di interagire col mondo mentre ci limitiamo a dare voce – ed
eco – al nostro piccolo io.
Irretiti dalle ‘magnifiche sorti e
progressive’ dell’infosfera – ove internauti assai ingenui credono
addirittura di esercitare forme di cittadinanza democratica diretta –
cediamo ogni giorno pezzi di noi a chi ne fa business e strumento di
controllo: i nostri dati personali, i nostri gusti, i nostri
orientamenti culturali, politici, religiosi, sessuali, le nostre
simpatie, le nostre idiosincrasie, le nostre scelte individuali
trasformati in Big Data e metadati, profilati da algoritmi che
definiscono modelli predittivi e comportamentali su cui aziende private,
istituzioni pubbliche e decisori politici gestiscono il loro
oligopolio, finalizzando i loro processi decisionali, tradotti in
piattaforme, al controllo economico, politico e militare – ovvero al
panopticon[1]
foucaultiano prossimo venturo – mentre anche il nostro cervello, e non
solo la nostra mente, sta lentamente ma inesorabilmente cambiando.
Da questo punto di vista, l’attenta lettura del libro della neuroscienziata Susan Greenfield, Cambiamento mentale. Come le nuove tecnologie stanno lasciano un’impronta sui nostri cervelli è
stata davvero illuminante, a partire dal semplice assunto suggerito da
Greenfield: il cervello è un organo plastico, che si modifica
costantemente nell’ambiente in cui è immerso. E dunque, la domanda è:
a quali modifiche stanno andando incontro i nostri cervelli, e soprattutto quelli dei giovani, tanto più plastici e sensibili, nel nuovo ambiente in cui siamo immersi?
Il pensiero è “un movimento confinato
all’interno del cervello”, come ha affermato Oleh Hornykiewicz – il
medico australiano che ha sviluppato il trattamento per la malattia di
Parkinson – un movimento che rispetta tempi e modi di una catena
sequenziale non casuale ma lineare, capace di effettuare collegamenti
logici che arrivano anche a formulare concetti e parole astratte (e qui
il riferimento allo splendido La specie simbolica di Terrence Deacon è d’obbligo[2]), dunque
“se mettiamo il cervello umano, con il suo mandato evolutivo ad adattarsi all’ambiente circostante, in un ambiente dove non ci sono sequenze lineari ovvie, dove i fatti possono essere accessibili in modo casuale, dove ogni cosa è reversibile, dove la differenza tra stimolo e risposta è minimale, e, cosa più importante di tutte, dove il tempo è breve, il treno dei pensieri può deragliare”.
Aggiungiamo anche le distrazioni
sensoriali di un universo fatto di suoni e immagini onnicomprensive e
vivide che incoraggiano una ridotta attenzione, e il risultato è che
potresti diventare tu stesso un computer: un sistema che risponde
efficientemente e che processa informazioni estremamente bene, ma che è
privo di un pensiero profondo”.[3]
Guardiamoci intorno, osserviamo le
persone che ci circondano: all’esigenza di una diffusa e libera energia
sociale, che si opponga ai processi politici in atto – a partire da
scuola e università – alla necessità di un dialogo reale, dunque
dialettico e in corpore vili, tra una pluralità di soggetti che
si incontrano e agiscono in una dimensione autenticamente collettiva e
che non siano espressione di un’eccezionale minoranza, corrisponde oggi
una risposta inerte, una passività diffusa, un adattamento flebilmente
critico – e più spesso compiaciutamente acritico – all’ineluttabilità
dell’esistente, una inettitudine collettiva generata anche dall’inazione
prolungata, dalla delega pigra con cui abbiamo sostituito la voce, il
gesto, l’espressione critica con un I like cliccato su una
tastiera o con un emoticon che qualcun altro ha stilizzato per noi, con
un linguaggio binario povero e polarizzato, prigioniero di una sterile
contrapposizione tra tesi e antitesi ma incapace di qualunque sfumatura
dialettica.
Ammaliati dalle sirene della comodità,
della rapidità, della facilità di chi prima ci ha venduto le nuove
tecnologie digitali e di chi poi ha venduto noi ai padroni delle
tecnologie digitali, non ci siamo resi conto della posta in gioco: la
perdita diffusa della nostra intelligenza intesa come capacità di
comprendere, di fare inferenze, di stabilire una gerarchia di
significati, di formulare concetti astratti, di elaborare una visione
del mondo articolata, complessa, critica. Ma anche la perdita della
nostra possibilità di incidere nel reale, con azioni in grado di
produrre un cambiamento. Ovvero, della nostra libertà.
I nuovi strumenti digitali modificano la nostra mente e le nostre strutture cerebrali.
Isolandoci davanti a uno schermo (dove giochiamo, comunichiamo,
studiamo, guardiamo film e video, ci informiamo, amoreggiamo,
litighiamo, mimando nella finzione del mondo virtuale ogni perduta
esperienza reale) perdiamo attaccamento e comprensione dell’altro,
perdiamo affettività, perdiamo interessi, e acquisiamo di contro una
rappresentazione del mondo sempre più stereotipata e standardizzata.
Ci illudiamo di sapere più cose del mondo reale, mentre “ci aggiriamo dappertutto senza fare nessuna esperienza”.[4]
E soprattutto, ci spiega Greenfield, perdiamo capacità di comunicazione
e riduciamo l’empatia interpersonale; costruiamo e rifiniamo le nostre
identità personali in base all’approvazione di un pubblico; riduciamo la
nostra capacità di attenzione e aumentiamo la disposizione verso
l’aggressività e la sconsideratezza; privilegiamo un’elaborazione
mentale rapida e superficiale a svantaggio di una conoscenza complessa e
profonda.
Dove possiamo trovare un antidoto? Dove possiamo creare gli anticorpi per difendere l’humanitas
da questo fuoco incrociato in cui il digitale in tutte le sue forme
appare il perfetto coagulo dell’interesse economico, politico e militare
globale? Un tempo avrei risposto, con fiducia: a scuola e
all’università, sui libri, tra i banchi, nel dialogo tra studenti e con
gli insegnanti, nello studio, nell’approfondimento critico, nella
riflessione collettiva, nella lettura e nella scrittura.
Oggi, dopo vent’anni di pessime riforme
della scuola e dell’università e dopo il colpo di grazia della
cosiddetta “Buona scuola”, in cui ormai le aziende e le tecnologie
digitali la fanno da padrone, in cui le ore di studio in classe sono un
mero avanzo dell’alternanza scuola-lavoro, in cui tutte le discipline e
l’intero processo di costruzione dei saperi è un residuo subordinato al
grande inganno dell’addestramento alle professioni, in cui l’incultura
dei test a risposta chiusa prevale sulla rivendicazione di un pensiero
liberamente critico e non conformista, e in cui gli insegnanti si
aggirano come anime morte, incapaci di opporre una qualunque forma di
resistenza fosse anche passiva al processo in atto di distruzione della
scuola e di trasformazione della società, ai cambiamenti indotti
dall’uso del digitale e funzionali all’uso del digitale, anche
l’ottimismo della volontà si arrende al pessimismo della ragione: i
cervelli dei nostri ragazzi cambieranno rapidamente.
E saranno molto presto perfettamente
adattati al mondo dematerializzato e post-umano – popolato da droni,
robot e indistinguibili replicanti – che si sta così velocemente
stagliando davanti ai nostri occhi.
[1] Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino Einaudi 1993
[2] Terrence Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di cervello e capacità linguistiche, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2001
[3] Susan Greenfield, Cambiamento mentale. Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2016, p. 9
[4] Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Bologna, Nottetempo, 2016, p. 70
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