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28/08/2017

Democrazia e fine della politica

Il punto che questo intervento intende evidenziare è quello di una vera e propria carenza di cultura politica a tutti i livelli, derivante dall’assenza di “agenzie cognitive” che se ne occupino: l’Università, in generale, propone schemi prefissati e ha grandi responsabilità nell’idea di una politica fatta esclusivamente sui sondaggi e non sulle idee; i partiti hanno completamente rinunciato ad una funzione pedagogica e hanno abbandonato l’idea della funzione guida della storia trascurando completamente la memoria; le istituzioni non rappresentano più la sede della saldatura tra società e politica da realizzarsi attraverso il suffragio e, di conseguenza, il consenso e svolgendo così il ruolo indispensabile di mediazione sociale e culturale.

La crisi della democrazia rappresentativa di marca occidentale sta interessando la riflessione di vasti settori intellettuali che si cimentano in diversi spunti di analisi.

I due maggiori quotidiani italiani hanno recentemente dedicato spazio a questo tema, sia pure affrontando l’argomento in forme diverse, nei loro inserti culturali “La Lettura” del Corriere della Sera e “Robinson” per Repubblica.

La Lettura, nel numero di domenica 20 agosto ha pubblico il testo di un colloquio tra Han Ulrich Obrist e il controverso artista cinese Ai Weiwei che sta per presentare in concorso al Festival di Venezia il suo film “Human Flow”.

Un kolossal sulle migrazioni girato in 22 paesi attraverso quaranta campi profughi realizzando seicento interviste e mille ore di girato.

Nel suo film Ai Weiwei affronta i nodi delle contraddizioni epocali cui oggi la democrazia sembra non essere più in grado di dare risposta: guerre, carestie, malattie, choc climatici e la crisi dell’umanità in fuga.

Nel testo dell’intervista s’individuano quelle che vi sono definite come “emergenze planetarie”: la libertà di parola e la democrazia.

Si pone così la grande questione della politica di oggi, se intendiamo ancora considerarla tale nella sua etimologia classica: le cose che ineriscono la Polis.

Il tema è quello della sorveglianza cui siamo sottoposti e a cui dobbiamo sottoporre i governanti: il reciproco interscambio tra governanti e governati.

Appare evidente come, nell’analisi che emerge dal colloquio tra Obrist e Ai Weiwei si smentisca l’assioma democrazia uguale politica che per due secoli aveva retto una presunta superiorità del sistema occidentale “classico”.

Lavoro da svolgere per chi intende misurarsi nel definire una nuova complessità dei cleavages sociali.

In precedenza “Robinson”, inserto culturale di Repubblica, si era occupato, nel numero uscito domenica 30 Luglio, del ruolo dei social network nella diffusione di notizie e nella relativa formazione di opinione politica.

In quel testo si sono ricostruiti schematicamente tutti i passaggi dal 1980, quando nacque l’Electronic Frontier Foundation per tutelare e promuovere i diritti digitali, considerata la “madre” di tutti gli attivismi online, fino al 2016 con la campagna elettorale di Trump, nel corso della quale si evidenzia un uso spregiudicato, diretto e aggressivo di Twitter (“Fake news” comprese).

Appaiono evidenti due cose che probabilmente tutti noi consideriamo scontate ma che non sono state ancora sufficientemente analizzate:

1) Il peso, inedito nella storia della democrazia e nell’insieme delle relazione politiche, di questi strumenti di comunicazione, di formazione e aggregazione del consenso quali sostituivi dei classici meccanismi usati a questo proposito a partire dalla prima rivoluzione industriale e dalla nascita degli ormai tramontati partiti di massa;

2) La creazione di una realtà virtuale illusoriamente percepita come effettiva e concreta da parte degli utenti e sede effettiva della discussione politica (ma non solo). Si annullano così gli elementi che hanno condotto a stabilire le consolidate gerarchie nella presenza politica nell’appartenenza e nella conoscenza. Quella scala gerarchica che ha portato, nella realtà dei soggetti culturali e politici, al formarsi dei cosiddetti “gruppi dirigenti” o élite. Chissà, al proposito cosa avrebbero scritto oggi Michels, Pareto, Weber?

Si è così costruita quella che, nel suo articolo presente nel citato inserto di “Robinson”, Tom Nichols definisce come “Illusione egualitaria” creata, appunto, dall’immediatezza dei social network che per l’appunto cancella l’autorevolezza dei gruppi dirigenti consolidati e crea l’illusione del “tutti alla pari”.

E’ evidente che si tratta di fenomeni sui quali approfondire riflessione e dibattito anche perché usati, nella politica nostrana, con sorprendente approssimazione e faciloneria e causa di clamorosi fraintendimenti in particolare sul terreno della costruzione di pericolosi e sostanzialmente illusori meccanismi di “democrazia diretta”.

Fenomeni che stanno alla base del pericolosissimo concetto della disintermediazione che, per restare in Italia, fa parte di una buona quota della propaganda del M5S e del PD(R).

Disintermediazione che, alla fine, favorirebbe davvero l’egemonia di quella “società dello spionaggio” di cui parla Ai Weiwei.

C’è da domandarsi: l’azione politica agita attraverso gli strumenti della comunicazione “social” crea nuova acculturazione e di conseguenza diversa aggregazione, oppure soltanto l’illusione di un’inedita forma di democrazia diretta, diversa da quella che abbiamo fin qui considerata sul modello plebiscitario del consenso diretto nella relazione tra il Capo e le masse?

Al di sopra di questa comunicazione “social” non agisce forse un qualche potere occulto, non paragonabile neppure al “Grande Fratello” orwelliano, ma dotato di poteri di controllo assolutamente superiori perché insiti direttamente nella vita quotidiana delle persone modellandone i comportamenti effettivi?

Questo è, mi pare, l’interrogativo di fondo, quello più pregnante e insidioso.

Pare proprio che, alla fine, il confronto si sia spostato tra una teoria dell’intermediazione elitista (strutture portanti i partiti fondati sulla legge ferrea dell’oligarchia e le assemblee elettive proporzionalmente rappresentative di queste élite all’interno delle quali si verifica lo scambio del potere) e una visione dell’immediatezza di una democrazia diretta fondata sulla verticalizzazione del potere personalizzato, tagliando fuori quella che era l’antica visione pluralista.

Attenzione: verticalizzazione del potere, ripetiamo ad abundantiam, che contiene in sé gli elementi di inedite forme di controllo, non semplicemente “sociali” (com’era un tempo), ma “personali”.

Sorge forse da qui la crisi della democrazia liberale: una crisi della quale la democrazia dei social porta responsabilità evidenti.

Sono anche palesi gli interrogativi che ne sorgono in sistemi sempre più sprovvisti di un consenso di base e con una partecipazione elettorale in picchiata di partecipazione.

Intendendo, beninteso, la partecipazione elettorale quale base minima per verificare il concorso collettivo alla cosa pubblica (e non di più, senza affidare al voto alcunché di salvifico di per sé).

Forse sarebbe il caso di tirare diritto e di proseguire nel proporre un agire politico fondato sugli antichi strumenti del partito a integrazione di massa e del Parlamento rappresentativo delle principali sensibilità politiche (“Specchio del Paese”) e di un governo che si forma in quella sede.

Ma quest’ultima è soltanto un’opinione espressa da chi ha vissuto davvero un’altra epoca.

Quel che è certo che la crisi della democrazia rappresentativa come “fine della politica” non appare più, come si pensava un tempo, un’ipotesi–limite da evocare alla stregua di una provocazione speculativa.

Sembra proprio che abbiamo ormai perduto la capacità di indagare sul variare delle “forme”, dei soggetti, dei luoghi della politica nel contesto della post–modernità dell’Occidente dominata ormai dalla relazione tecnica/vita e di conseguenza tecnica/politica.

Siamo pigri nel cercare di capire cosa ha resistito e cosa è completamente deperito dei tradizionali dispositivi teorici davanti ai mutamenti che hanno sconvolto le figure più familiari dell’analisi politica e sociologica.

Una pigrizia che ha portato, ad esempio, a decretare anzitempo la fine dei due soggetti portanti nell’analisi politica del ‘900: le classi e lo Stato Nazionale.

Abbiamo ceduto al mito della “società complessa” arrendendoci all’apparente primato della “governabilità”, senza vedere quanto restava di ancorato nella società di sopraffazione e sfruttamento (del lavoro, dell’ambiente, di genere) come base di quello che dobbiamo continuare a definire come “arretramento storico”.

Si sta tentando di imporre una verticalizzazione del potere incontrollato da una sorta di autonomia della “società orizzontale”: un nuovo feudalesimo tecnologico basato su di un impianto esclusivamente individualistico.

Una riflessione in questo senso potrebbe rappresentare anche un primo punto d’inversione di tendenza rispetto al declino in atto, declino che si compone degli elementi sopra enunciati: guerre, carestie, malattie, choc climatici, la crisi dell’umanità in fuga, sottrazione delle forme codificate di controllo del potere da parte della base sociale, nuovo feudalesimo basato sul rifugio individualistico nell’uso della tecnologia.

Le “sette piaghe” della modernità racchiuse tutto all’interno della categoria dello sfruttamento? Probabilmente sì.

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