24/08/2017
I condoni sull’abusivismo edilizio. Stoppati quelli di Stato sono partite le Regioni
L'esordio del condonismo di Stato sugli abusi edilizi porta la data del 28 febbraio 1985, quando la legge n. 47 voluta dal governo Craxi (il ministro condonista era allora Nicolazzi del Psdi) delineava un quadro normativo sull’edilizia indicato come “provvisorio”, ma che produce immediatamente come conseguenza quella di ammettere al condono tutti gli abusi realizzati fino al 1° ottobre del 1983. Secondo i dati raccolti dal Cresme (il maggiore centro di ricerche in materia di edilizia), il solo effetto annuncio del primo condono avrebbe provocato l’insorgere – nel solo biennio 1983/4 – di ben 230.000 manufatti abusivi, mentre quelli realizzati fra il 1982 e tutto il 1997 saranno ben 970.000.
Quasi dieci anni dopo, a riaprire i termini del condono, è la legge 23/12/1994 n. 724 (varata in zona Cesarini dal primo governo Berlusconi), intitolata significativamente “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”. La legge 724 ha dilatato le possibilità previste della precedente legge 47/1985, estendendola anche agli abusi edilizi realizzati fino al 31/12/1993.
Nel biennio successivo si possono contare ben 14 decreti in materia, (l’ultimo fu il Dl 495/1996) tutti però decaduti per la mancata conversione in legge e tutti contenenti una norma, un richiamo, anche solo un riferimento alla sanatoria edilizia. A mettere la parola fine sulla raffica di decreti è la Corte Costituzionale (con sentenza 360 dell’ottobre del 1996), la quale stabilisce l’illegittimità della prassi di reiterare all’infinito le decretazioni d’urgenza facendone poi salvi gli effetti.
L’ultima sanatoria per gli abusi edilizia, in base alle leggi, risale però al 24 novembre 2003 (ancora con un governo Berlusconi) con la conversione del decreto 30 settembre n. 269, “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”.
A quattordici anni dall’ultimo colpo di spugna, l’abusivismo edilizio è tutt’altro che finito, anche se non è più arrivato ai livelli degli anni ’80 quando le abitazioni abusive realizzate toccavano punte del 28,7% sul totale del costruito (nel 1984, prima del primo condono, su 435mila abitazioni realizzate ben 125mila erano abusive).
Negli anni ’90 diminuiscono i dati assoluti ma non le percentuali (83mila case abusive su 281mila, il 29,6%, nel 1994, anno del secondo condono edilizio). Nel 2010, quando ci fu un tentativo di sanatoria all’interno del cosiddetto Decreto Milleproroghe, si potevano calcolare 27mila abitazioni abusive su 229mila costruite, cioè l’11,8%, l’anno successivo erano ancora 26mila su 213mila.
Ma lì dove è stato stoppato il condonismo di Stato, è ripartito quello delle regioni. In particolare la Regione Campania (governatore Caldoro), il quale, con la legge 16 del 2014, aveva consentito di riaprire le pratiche dei condoni edilizi del 1985 e del 1994 rimaste bloccate, allargava le maglie per la possibilità di sanatoria nella “zona rossa” del Vesuvio e consentiva anche di sanare gli ampliamenti in base alla legge sul Piano casa. Il Governo aveva impugnato questa legge davanti alla Corte Costituzionale ma nel 2015 con la sentenza n. 117/2015 depositata il 25 giugno, la Corte costituzionale ha respinto il ricorso del governo Renzi contro la norma in materia di condono edilizio contenuta nella legge della Regione Campania 7 agosto 2014, n. 16, recante “Interventi di rilancio e sviluppo dell’economia regionale nonché di carattere ordinamentale e organizzativo – collegato alla legge di stabilità regionale 2014”.
Due anni dopo però la Corte Costituzionale, che con la sentenza 107/2017 ha bocciato la Regione Campania che con una nuova legge (governatore De Luca) – la LR 6/2016 – aveva prorogato il Piano Casa fino al 31 dicembre 2017 ampliando anche le possibilità di sanatoria. Dopo quanto accaduto a Ischia c’è qualche domanda alla quale il governatore della Regione Campania De Luca e prima di lui il governatore Caldoro dovranno dare risposte.
FONTI: Edilportale.com; Il Sole 24 ore
SCHEDA
PRIMO CONDONO. Legge 28/2/1985 n° 47 (governo Craxi-Nicolazzi). Si poneva prima di tutto come una provvisoria legge-quadro in materia urbanistico/edilizia, ma la sua maggiore conseguenza è stata quella di ammettere al condono edilizio tutti gli abusi realizzati fino al 1/10/1983. Per i manufatti costruiti in aree a vario titolo vincolate il rilascio della concessione (o autorizzazione) in sanatoria era subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela (per il vincolo paesaggistico di solito i comuni, con successivo controllo ed eventuale annullamento da parte delle Sopraintendenze).
Secondo dati CRESME, l’effetto annuncio del primo condono avrebbe provocato l’insorgere – nel solo biennio 1983/4 – di 230.000 manufatti abusivi, mentre quelli realizzati fra il 1982 e tutto il 1997 sarebbero 970.000.
LA “SANATORIA EDILIZIA” (E QUELLA PAESAGGISTICA). L’art. 13 della medesima legge 47/1985 prevede la possibilità di un “accertamento di conformità”, da effettuare entro stretti limiti temporali correlati alle ordinanze dei sindaci, “e comunque fino all’irrogazione delle sanzioni amministrative”, in base al quale le opere abusive potrebbero essere sanate, qualora esse fossero conformi agli strumenti urbanistici vigenti. Si tratta, come si vede, di cosa assolutamente diversa dal condono (che è un provvedimento eccezionale e “tombale”, in quanto porta tendenzialmente a legittimare tutti o quasi gli abusi). La sanatoria è invece un istituto permanente, che può essere invocato per quelle opere che – per qualche invero strana ragione – non hanno ottenuto la concessione edilizia, anche se avrebbero potuto ottenerla benissimo (si tratta evidentemente di rari casi, ovvero di abusi di piccole dimensioni). Nella prassi, l’uso indifferenziato del termine “sanatoria” per indicare i condoni edilizi ha generato pericolose confusioni.
In seguito, è emerso il problema che nelle normative di tutela paesaggistica (ora il T.U. dei Beni CC.AA.) non esiste una norma equivalente. Di conseguenza nelle zone vincolate (che sarebbero il 47% del territorio nazionale) anche la sanatoria edilizia sarebbe inapplicabile, in quanto subordinata all’ottenimento, impossibile, dell’autorizzazione ambientale. Un parere assai opinabile espresso dal Consiglio di Stato l’ 11/4/2002 ha invece stabilito che il rilascio di un’ “autorizzazione postuma”, “equipollente” a quella preventiva è possibile. La maggioranza parlamentare ha colto la palla al balzo, presentando un emendamento alla Legge-delega sul “riordino delle normative in materia ambientale” che, modificando gli articoli 163 e 164 del T.U. Beni CC.AA., codificherebbe definitivamente l’ “autorizzazione paesistica in sanatoria”. Ciò sarebbe un gravissimo indebolimento del già fatiscente sistema di tutela ambientale, dal momento che l’autorizzazione in questione è sostanzialmente discrezionale, e ben difficilmente si oserebbe negarla a opere ormai esistenti. L’emendamento è stato respinto (la stessa Legge-delega non è ancora approvata), ma la questione rimane aperta.
SECONDO CONDONO. Legge 23/12/1994 n° 724:“Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”, art. 39 (primo governo Berlusconi). Riapre i termini della precedente legge 47/1985, estendendoli agli abusi realizzati fino al 31/12/1993. Vengono tuttavia introdotte alcune limitazioni: che le opere non abbiano comportato un ampliamento superiore al 30% della volumetria originaria, ed in ogni caso non superiore a 750 mc. Lo stesso limite volumetrico si applica alle nuove costruzioni, “per singola richiesta di concessione edilizia in sanatoria” (il che consente di condonare anche le lottizzazioni abusive). Resta fermo per le zone vincolate l’obbligo di acquisire preventivamente l’autorizzazione dell’autorità preposta (che, ricordiamo, per il vincolo paesaggistico è solitamente il Comune, sia pure in prima battuta!). In più, l’ultimo periodo del 4° comma stabilisce anche il silenzio-assenso in caso di perdurante inerzia comunale.
Sempre secondo dati del CRESME, dal 31/12/1993 (ultima data prevista per il completamento dei manufatti) sono stati realizzati altri 220.000 abusi, tra nuove costruzioni e ampliamento delle esistenti. Anche in questo caso la scarsa e prevalentemente formale capacità di controllo da parte dei Comuni avrà permesso l’ammissione al condono di edifici che, per la loro volumetria o il loro impatto ambientale, non avrebbero potuto essere sanati; ugualmente è possibile sospettare che moltissimi edifici siano in realtà stati realizzati dopo la chiusura dei termini.
ALTRI TENTATIVI DI MODIFICARE LE MODALITA’ DEL CONDONO:ben 14 Decreti Legge, emanati dopo il 1994 (l’ultimo era il DL 24/9/1996 n° 495) e tutti decaduti per mancata conversione in legge, contenevano norme più o meno confuse in materia di semplificazione dei procedimenti urbanistico/edilizi, modifiche alla legge 493/1993, denuncia d’inizio attività e condono delle opere abusive (per quest’ultimo aspetto si trattava più che altro di “aggiustamenti” delle modalità di riscossione e versamento delle oblazioni, loro impiego da parte dei Comuni, ecc., con qualche limitata norma di rilievo ambientale). La raffica di decreti è cessata solo quando la Corte Costituzionale, con sentenza n° 360 del 17-24/10/1996, ha stabilito l’illegittimità costituzionale della prassi di reiterare all’infinito le decretazioni d’urgenza, facendone poi salvi gli effetti.
LEGGE 23/12/1996 n° 662(“Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”), Art. 2, commi 37, 45 e sgg. Dettano una serie di norme per la riscossione delle oblazioni e per la loro utilizzazione da parte dei comuni, introducendo anche qualche marginale precauzione ambientale.
DDL 4565/ter:“Disposizioni in materia di revisione generale del catasto e del demanio marittimo” (maggio 2000). Era scaturito dallo stralcio dell’art. 39 del precedente ddl 4565, e non è più stato discusso. Stabiliva che gli occupanti di immobili insistenti sul Demanio, ma che “risultino avere perdute le caratteristiche proprie dei suddetti beni” (?) possono acquistarli in proprietà. Praticamente una sanatoria generalizzata, con procedure assai poco chiare.
DDL 379: “Norme per il trasferimento dei beni del demanio marittimo dello Stato” (28/3/2000). RESPINTO. Stabiliva che le aree demaniali, con le loro pertinenze, sono trasferite al demanio dei Comuni, così come le aree date in concessione a enti, aziende e consorzi vari, qualora non più utilizzate. Unica eccezione, i porti marittimi nazionali. Era un tentativo di eliminare l’intero sistema demaniale, dal momento che ai comuni non sarebbero poi mancati i mezzi giuridici per alienare i beni ai privati.
DDL 4337:“Disposizioni per la repressione dell’abusivismo edilizio nelle aree soggette a vincoli di tutela, e modifiche alla legge 28/2/1985 n° 47” (28/11/2000). DECADUTO, essendo subentrata nel maggio 2001 la nuova legislatura. Di ampia portata, dettava nuove disposizioni per una severa repressione dell’abusivismo almeno nelle zone vincolate. Non sorprende che sia terminato in un nulla di fatto.
DDL 4338:“Disposizioni in materia di sviluppo, valorizzazione ed utilizzo del patrimonio immobiliare dello Stato…”. CONVERTITO NELLA LEGGE 136/2001. Un emendamento proposto da DS e FI, e poi eliminato, affidava ai Comuni la valorizzazione dei beni demaniali statali, prevedendo anche la sdemanializzazione di alcune aree.
LEGGE 448/2001 (legge Finanziaria).APPROVATA. L’art. 71, poi abrogato (v. par. successivo), disponeva che le norme della legge 5/2/1992 n° 177 (concepita evidentemente per poche ed eccezionali situazioni, questa legge consentiva il trasferimento dei demani statali al patrimonio disponibile dei Comuni, con la dichiarata finalità di alienarli ai privati) si possono applicare a tutte la aree demaniali sul territorio nazionale, sulle quali siano state eseguite “opere di urbanizzazione e di costruzione” anteriormente al 31/12/1990. Era pertanto una nuova sanatoria (non tanto dei manufatti, quanto delle situazioni proprietarie e possessorie), generale e indiscriminata.
LEGGE 16/2002:“Conversione in legge, con modificazioni, del DL 28/12/2001 n° 452, recante disposizioni urgenti….”. (Febbraio 2002). L’art. 16/bis abrogava l’art. 71 della precedente legge Finanziaria, di cui si è detto al par. che precede.
LEGGE 166/2002.“Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti” (Marzo 2002). L’art. 26, così come emendato, riprende in forme più limitate e ragionevoli la questione introdotta dall’abrogato art. 71 della legge Finanziaria. Esso stabilisce infatti che le norme della legge 5/2/1992 n° 177 (in precedenza sinteticamente illustrate: concernono il trasferimento di aree demaniali al patrimonio dei Comuni, con la finalità di alienarle ai privati) si applicano all’intero territorio nazionale. Però con l’esclusione del demanio marittimo, e solo su quelle aree sulle quali siano state realizzate – anteriormente al 31/12/1990 – opere di urbanizzazione e di costruzione “a seguito di regolare concessione”.
DL 102/2003:“Disposizioni urgenti in materia di valorizzazione e privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico” (giugno 2003). DECADUTO, per mancata conversione in legge. L’art. 3 stabiliva che le porzioni di aree patrimoniali e demaniali dello Stato – escluso il demanio marittimo – interessate da “sconfinamenti” di opere eseguite da privati su fondi attigui di loro proprietà (sulla base di concessioni o autorizzazioni regolari) possono direttamente essere alienate agli interessati. Con lodevole ma evidente incongruenza, la norma stabiliva che tali disposizioni non si applicano nelle aree vincolate dal T.U. del Beni CC.AA. (che come si è detto sarebbero il 47% del territorio, e dovrebbero comprendere la gran parte delle aree demaniali o patrimoniali dello Stato).
LEGGE 212/2003:“Disposizioni urgenti in tema di versamento e riscossione di tributi…” (Agosto 2003). L’art. 5/bis ripropone la norma del precedente e decaduto DL, stabilendo che le porzioni di aree del patrimonio e del demanio statale, escluso il demanio marittimo, interessate dallo “sconfinamento” di manufatti eseguiti da privati sui loro fondi attigui in base a regolari titoli edilizi (ma con l’ulteriore limite di essere stati realizzati prima del 31/12/2002) possono essere a questi alienate. Stesso destino spetterebbe però alle porzioni “divenute area di pertinenza” e a quelle “interne a strumenti urbanistici vigenti” (definizione ampia quanto confusa, che sembra prestarsi ad ogni genere di interpretazioni estensive!). Permane il divieto di applicare la norma nelle zone vincolate dal T.U. dei Beni CC.AA., che per quanto risulta dovrebbe vigere nella massima parte dei casi, data la sua grande estensione.
FONTE: Corriere della Sera del 25 settembre 2003
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