di Chiara Cruciati il Manifesto
Il tetto dell’hotel di
Arhab, alle porte di Sana’a, è collassato: le bombe sganciate da un jet
saudita hanno distrutto il primo piano della struttura, piccola, in
cemento, adibita ad albergo per combattenti Houthi (che si addestrano
nei vicini campi di al Sama e Frija), operai di una fabbrica a poca
distanza e coltivatori di qat.
Il raid è stato lanciato all’alba, quando molti ospiti ancora dormivano.
Le immagini, terribili, mostrano l’edificio di due piani ripiegato su
stesso, il tetto che ha schiacciato chi c’era dentro, brandelli di corpi
che spuntano dalle macerie.
Il bilancio definitivo non c’è: 40 morti, forse 60. Almeno 30 civili.
Secondo il medico Ali al-Rakmi, erano almeno cento gli ospiti
dell’hotel; il direttore dell’ospedale di Umrah, a 10 km dal luogo
dell’attacco, affievolisce le speranze di trovare sopravvissuti: non ci
sono feriti, dice ad al Jazeera, solo morti.
I giornalisti presenti lo descrivono come uno dei peggiori massacri di Riyadh in Yemen, che di stragi ne ha subite tante:
la più pesante è dello scorso ottobre quando un raid uccise 140 persone
riunite per il funerale del padre del ministro dell’Interno Houthi.
Quella di martedì è stata una notte di morte in tutta la capitale, i
raid sauditi hanno colpito senza sosta. Come accade da due anni e mezzo e
con ancora maggiore intensità da gennaio: secondo
l’organizzazione Protection Cluster, nel 2017 lo Yemen è stato
colpito da 5.676 bombardamenti, quasi il doppio di tutto il 2016 quando
se ne registrarono 3.936.
E il conflitto nato dagli interessi egemonici dell’Arabia Saudita
indebolita sul fronte siriano e costretta ad assistere all’avanzata
diplomatica e militare dell’Iran, rischia di inasprirsi ancora.
Perché i tre fronti della guerra si stanno sgretolando: la
coalizione di «volenterosi» sunniti guidata da Riyadh è indebolita dalla
crisi qatariota; l’alleanza di comodo tra il presidente ufficiale Hadi e
i movimenti secessionisti meridionali è ormai un ricordo, con il primo
che ha allontanato i governatori legati ai separatisti; e l’asse
Houthi-Saleh, l’ex presidente deposto nel 2012, perde pezzi.
A dare la misura delle crepe nella strana alleanza tra ribelli sciiti
e Congresso Generale del Popolo sarà la giornata di oggi. Saleh ha
organizzato a Sana’a una manifestazione ad Al-Sabeen Street per
celebrare i 35 anni dalla fondazione del partito.
Gli Houthi risponderanno con contro-manifestazioni agli
ingressi della capitale, probabilmente per bloccare i sostenitori di
Saleh. E, con uomini armati di entrambe le fazioni che già
affollano la città, cresce il timore di scontri interni a un asse nato
per mera convenienza: l’ex dittatore ha potuto godere della forza
militare Houthi, i ribelli della struttura di potere del partito.
Mettendo da parte sei guerre e 30 anni di repressione subiti dagli
Houthi sotto la presidenza Saleh, prima dello Yemen del nord e poi dello
Yemen unito.
La rottura è di qualche giorno fa, apparentemente esplosa perché
Saleh ha definito la leadership Houthi «milizia» e l’ha accusata di
incapacità nell’amministrare i territori controllati e nel pagare gli
stipendi dei dipendenti pubblici. I ribelli hanno reagito: sei un
traditore, «pagherai le conseguenze».
Dietro c’è, ovviamente, di più: consapevole dello stallo, l’ex presidente starebbe lavorando ad un’eventuale exit strategy.
Da ex alleato di ferro saudita, avrebbe avviato una trattativa segreta
con le petromonarchie per modellare una transizione senza gli Houthi.
A dargli la spinta necessaria potrebbero essere state le dichiarazioni trapelate da Riyadh:
durante un incontro con l’ex ambasciatore israeliano negli Usa Indyk e
l’ex consigliere di Bush Hadley, l’erede al trono Mohammed bin Salman –
altrettanto consapevole della potenza distruttrice del pantano yemenita e
delle crescenti critiche internazionali (l’Onu una settimana fa ha
accusato l’Arabia Saudita di aver ucciso oltre la metà dei bambini
vittime della guerra) – avrebbe detto di voler uscire dal conflitto il
prima possibile.
Una mezza conferma l’ha data il ministro degli Esteri emiratino che
lunedì ha lodato il discorso di Saleh: «Può rappresentare l’opportunità
di uscire dallo stallo politico dovuto all’intransigenza Houthi».
Dimenticando quella dei Saud che dal 2015 fanno saltare ogni negoziato.
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