di Chiara Cruciati – Il Manifesto
«L’Italia non si
accontenterà di nessuna verità di comodo. Potremo fermarci solo davanti
alla verità». Così il 26 marzo 2016 l’allora primo ministro italiano
Renzi reagiva al palese tentativo di depistaggio di polizia e servizi
egiziani: la strage di cinque cittadini egiziani e l’occultamento dei
documenti di Giulio Regeni a casa di uno di loro.
Lo ribadiva il 15 giugno: «Confermo il massimo impegno affinché sulla
vicenda sia fatta luce». Prima di lui a parlare di «piste improbabili» e
del rifiuto ad accettare «verità di comodo» era il ministro degli
esteri Gentiloni, a poche settimane dalla sparizione di Giulio.
In questo anno e mezzo dichiarazioni simili sono fioccate.
Tra le ultime quelle dell’attuale inquilino della Farnesina Alfano (il
17 gennaio alla Camera: «La prosecuzione dell’impegno per la ricerca
della verità non verrà mai meno») e del nuovo premier Gentiloni che a
fine dicembre ringraziava l’Egitto per «i segnali di collaborazione
molto utili» (nei giorni precedenti Il Cairo ammetteva indagini della
sicurezza su Regeni e diceva di aver identificato i poliziotti
responsabili).
Alla luce delle rivelazioni del New York Times il castello di carta si sbriciola:
«Nelle settimane successive alla morte di Regeni – scrive il
giornalista Declan Walsh – gli Stati Uniti hanno acquisito informazioni
di intelligence esplosive dall’Egitto: le prove che funzionari dei
servizi egiziani hanno rapito, torturato e ucciso Regeni. ‘Abbiamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana’, mi dice un funzionario dell’amministrazione Obama».
«Su raccomandazione di Dipartimento di Stato e Casa bianca – continua
– gli Usa passarono queste conclusioni al governo Renzi. Ma per evitare
di identificare la fonte, gli americani non condivisero il materiale né
dissero quale agenzia ritenevano essere dietro la morte di Regeni.
Quello che gli americani sapevano per certo, e che dissero agli
italiani, era che la leadership egiziana era pienamente consapevole
delle circostanze intorno alla morte di Regeni».
Roma sapeva ma ha tenuto opinione pubblica e famiglia Regeni all’oscuro. Ha
ritirato l’ambasciatore Massari l’8 aprile 2016, il giorno dopo la
presa in giro della prima visita a Roma degli investigatori egiziani
(venuti a mani vuote) quando probabilmente già aveva ricevuto la nota da
Washington: viene da pensare che l’obiettivo non fosse fare pressioni
sull’Egitto ma allontanare dal Cairo Massari, che da subito ha seguito
in modo approfondito e diretto il caso.
Una realpolitik disordinata che ha permesso l’intervento a gamba tesa
di altri soggetti interessati alla normalizzazione: «L’amministratore
delegato di Eni, Claudio Descalzi... ha discusso la questione con al-Sisi
almeno tre volte – scrive il Nyt – E, secondo una fonte del
Ministero degli Esteri italiano, Eni ha unito le sue forze a quelle dei
servizi segreti per trovare una rapida soluzione».
Di incontri ufficiali tra Descalzi e al-Sisi non ne sono
mancati nel 2017: all’inizio di gennaio, il 15 febbraio e il 28 marzo,
per discutere dello sviluppo del mega bacino di gas sottomarino Zohr.
Nel corso del 2016 è facile immaginare che l’ad Eni e il presidente
egiziano si siano visti e abbiano messo sul tavolo la questione Regeni,
così come avranno fatto alti funzionari del cane a sei zampe e dello
Stato egiziano.
Il giro d’affari è enorme, da tutelare a beneficio di entrambi. Tanto
da indispettire elementi dell’intelligence italiana e del governo e
causare tensioni tra servizi e Farnesina. Lo sottolinea il Nyt, secondo cui gli 007 italiani hanno lavorato altrettanto alacremente per ripianare rapporti ufficialmente in rotta: «I diplomatici sospettavano che le spie italiane, per chiudere il caso, avessero organizzato un’intervista del quotidiano La Repubblica con al-Sisi».
Repubblica nega, ma è difficile dimenticare quell’intervista
di metà marzo 2016, da molti ritenuta un palcoscenico ben agghindato in
cui il presidente egiziano si è esibito nella parte del buon padre di
famiglia, pronto a collaborare.
Uno show, quello di al-Sisi, ripetuto un mese fa di fronte a Nicola
Latorre (Pd) e Maurizio Gasparri (Fi), presidente e vice presidente
della Commissione Esteri del Senato: probabilmente allora, in anteprima,
Roma ha garantito al Cairo il ritorno dell’ambasciatore.
Due giorni dopo l’agenzia Mada Masr, citando fonti italiane, lo dava per certo: entro
settembre le relazioni si normalizzeranno definitivamente. Ma non sono
mai apparse davvero in pericolo nonostante gli ostacoli posti alla
Procura di Roma, che indefessamente tenta di racimolare
elementi dalle briciole di materiale che la Procura egiziana gli gira.
Delle tante denunce del team romano l’ultima è del 16 marzo: Pignatone e
Colaiocco hanno accusato le autorità egiziane di reticenze e bugie.
Quelle briciole di materiale ad Alfano bastano per rinviare
l’ambasciatore, come chiedono da mesi – con una campagna neppure troppo
sottile – politici e commentatori in articoli ospitati da vari giornali
italiani.
Infine, un occhio alla tempistica: vigilia di Ferragosto, ad
un mese dalla visita di Latorre e a dieci giorni dalla ratifica da parte
di al-Sisi della legge sulla distribuzione di gas in Egitto.
Le compagnie straniere potranno ora vendere parte della loro produzione
direttamente sul mercato egiziano. Eni, con Zohr produttivo da dicembre,
è pronta.
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