di Pietro Pasculli
Dopo l’annuncio della liberazione di Mosul lo scorso 9 luglio, celebrata il giorno seguente dal Primo Ministro iracheno Haidar al Abadi
con un breve discorso alla Tv di Stato, l’emergenza è ancora lontana
dal potersi definire conclusa. Se nella parte Est della città la vita
riprende in modo graduale, la parte Ovest dopo nove mesi di battaglia è
ridotta ad un cumulo di macerie. Oltre agli insormontabili problemi
della ricostruzione, sono ancora in atto le operazioni di bonifica del
territorio dalla costellazione di mine e bombe trappola lasciate dai
miliziani, le quali continuano a causare vittime oltre che tra i civili
anche nelle fila degli artificieri.
Il 21 agosto alle 8.52 ora locale, con un messaggio del
leader iracheno allo Stato Islamico “o ti arrendi o muori”, sono
cominciate le operazioni di liberazione di Tal Afar. La città
turkmena, situata nella parte nord occidentale dell’Iraq a 70 km da
Mosul è infatti sotto il controllo delle milizie del Califfato dal 2014
in quanto snodo fondamentale per l’accesso in Siria.
L’operazione intitolata “stiamo arrivando a Tal Afar” è stata
affidata ad uno degli eroi della battaglia di Mosul, il generale
Abdulamir Rashid Yarallah, coadiuvato dalle forze anti terrorismo, la
polizia federale, l’esercito iracheno e dalle forze sciita Hashd
al-Shaabi nonostante la forte opposizione della Turchia. L’attacco
incrociato terra aria, ha portato alla liberazione di diversi villaggi
già nella prima giornata. Circa 30.000 civili hanno abbandonato il
territorio, mettendosi in cammino per più di 10 ore in modo da
raggiungere i centri di raccolta.
Ad oggi 27 dei 40 villaggi che circondano la città sono
tornati nelle mani delle forze irachene, per quel che riguarda invece la
conclusione delle operazioni a Tal Afar City, nonostante si fosse
parlato di diverse settimane in quanto una stima tra i 10 ed i 50 mila
civili ancora intrappolati all’interno della città avevano scoraggiato
un uso massiccio dell’aviazione; nella giornata di domenica 27
agosto, ad otto giorni dall’avvio delle ostilità, le forze alleate hanno
annunciato di aver preso il pieno controllo della città. Intanto secondo
i vertici militari dall’inizio delle ostilità più di 100 miliziani
sarebbero stati uccisi nelle operazioni di liberazione.
Le cose non vanno meglio a Kirkuk capitale dell’omonimo governatorato
situata a 98 km a sud ovest di Erbil. Dopo la caduta di Mosul, lo Stato
Islamico ha infatti trasformato l’area di Hawija comprendente la zona
meridionale dei monti Hamrin in una base per i suoi guerriglieri. Le
forze curde si trovano a fronteggiare quasi quotidianamente i numerosi
attacchi delle milizie jihadiste, i più frequenti nel distretto di Doquq
a sud di Kirkuk. Diversi Peshmerga hanno già perso la vita negli
scontri a fuoco, ma ad oggi ogni tipo di attacco è stato comunque
respinto.
L’area è fortemente compromessa e rischia di esplodere, come la bomba che il 15 agosto ha lasciato a terra cinque civili. Gli uomini di Barzani sono gli unici a presidiare l’area ma tali forze non sono sufficienti.
Nonostante le difficoltà nel contenere gli attacchi, il governo di Baghdad ha infatti preferito investire tutte le sue forze a Tal Afar,
causando ulteriori tensioni con Erbil.
Il paese è nel caos. Da quando Abu Bakr al Baghdadi ha dichiarato la nascita del califfato nel 2014 con la presa di Mosul, lo Stato Islamico è riuscito a rubare 830 milioni di dollari
alle banche e riserve irachene secondo un rapporto della Banca
Centrale; senza contare le confische alla proprietà e lo sfruttamento
dei giacimenti di petrolio. Alle difficoltà della ricostruzione,
le spese di guerra ed i gravissimi problemi in materia di acqua e
elettricità, il governo iracheno si trova ad affrontare un emergenza di
sfollati interni (IDPs) che dal 2014 ad oggi ha raggiunto la cifra di
3.3 milioni di persone secondo i dati forniti da Lise Grande,
responsabile umanitaria delle Nazioni Unite in Iraq in una conferenza
stampa l’8 agosto a Ginevra.
Del milione di persone scappate alla battaglia di Mosul,
20mila non hanno ancora fatto rientro nella parte est. Per quel che
riguarda invece i 230mila abitanti dei 15 quartieri completamente rasi
al suolo nella parte occidentali della città ed attualmente residenti
nei campi profughi di Dahuk e Kurdistan iracheno, le possibilità di un
rapido rientro a casa sono molto scarse.
Nell’area di Tal Afar si contano circa 50mila persone scappate
dall’inizio di aprile, esodo che cresce di giorno in giorno con
l’intensificarsi delle ostilità. Ancora poco chiara è invece la stima
dei rifugiati che hanno superato i propri confini nazionali per
stabilirsi nella regione. Un arcipelago di campi profughi si
snoda da Dahuk a Bagdad, milioni di sfollati alla quale i “due governi”
non riescono a dare risposta. Con il passare degli anni
infatti, molti risedenti dei campi hanno trasformato le proprie tende
in piccole strutture in muratura maturando anche una micro economia
interna. Servizi in materia di sanità, assistenza sociale e integrazione
sono invece unicamente offerti dall’Unhcr e dalle ONG.
A complicare un quadro già abbastanza desolante, nelle ultime
settimane si è aggiunta una profonda crisi politica tra Bagdad ed
Erbil. Il 25 settembre infatti, con la ratifica del Referendum
sull’Indipendenza dal governo di Bagdad avvenuta il 14 agosto, i curdi
saranno chiamati alle urne per decidere se continuare a vivere nella
stessa famiglia di Baghdad o “da buoni vicini”.
I curdi iracheni, dopo decenni di occupazione militare, torture ed
uno sterminio culminato con il genocidio di Anfal ('86 – '89) sotto la
guida di Saddam Hussein, erano riusciti ad ottenere una parziale
autonomia sancita dalla nuova costituzione irachena del 2005; dieci anni
di collaborazione però non hanno dato i risultati sperati. I rapporti
già in fase di deterioramento nel 2014, quando l’allora primo ministro
Maliki decise il taglio di bilancio al Kurdistan in seguito a violazioni
sulle esportazioni di petrolio, sembravano essersi ristabiliti dopo la
grande intesa sancita nelle operazioni di riconquista di Mosul.
Ma in un meeting del 16 agosto con il Presidente del Parlamento
iracheno Salim al-Jabouri, una delegazione curda ha presentato come
ragioni dell’Indipendenza una lunga relazione in cui venivano
evidenziati i 50 articoli della Costituzione che Baghdad avrebbe violato
in questi anni a danno dei curdi. Tra questi spicca l’annosa questione
dei confini e dei territori contesi all’art. 140, i quali secondo la
carta costituzionale si sarebbero dovuti risolvere attraverso un
Referendum da attuarsi non più tardi del 2007.
Il governo di Erbil ha fatto sapere a tal
proposito che la partecipazione al voto interesserà aree a presenza
curda anche se attualmente sotto la giurisdizione di Baghdad. Nelle prime
settimane di agosto infatti sono stati aperti numerosi uffici
elettorali nelle province di Nineveh, Mosul, Kirkuk, fino alla
città curda di Khanaqin situata a circa 400 km a sud est di Erbil. In
questo scontro, al momento, tutto politico, Kirkuk rischia di diventare
la vera Gerusalemme.
Il governo di Baghdad ha preso accordi qualche giorno fa con Teheran
per la costruzione di un oleodotto che colleghi il governatorato
all’Iran nonostante l’opposizione del capo degli affari del consiglio
provinciale della città. L’accordo infatti violerebbe l’articolo 112
della Costituzione irachena che prevede il consenso dei governi
regionali in materia di sfruttamento delle risorse energetiche.
Talabani, leader del partito curdo PUK, ha accusato il governo di Baghdad
di attuare una politica dell’inganno, mentre lo stesso governatore
della provincia esprimendosi in modo favorevole sull’estensione del
referendum alle aree contese, ha rimproverato il governo iracheno per
aver lasciato i curdi soli nell’affrontare le milizie del Califfato
mentre lo Stato maggiore organizzava la ritirata.
Ma la faccenda rischia di diventare molto di più di una semplice contesa curdo irachena. L’Iran,
secondo partner commerciale curdo dopo la Turchia, il 13 agosto ha
fatto sapere ad una delegazione di Erbil arrivata nel paese per firmare
un accordo da 200 milioni di dollari in scambi commerciali, che un esito
positivo del Referendum procurerebbe “non buone risposte” da parte di
Tehran. La Turchia invece, nonostante un oleodotto curdo che
rifornisce di petrolio il porto turco di Ceyhan, si è espressa con toni
molto più forti il 17 agosto attraverso le dichiarazioni del Presidente
Erdogan ed il Ministro degli esteri Meylut Cavusogl parlando di
possibile guerra civile con interessamento dei paesi confinanti.
Gli Stati Uniti hanno cercato più volte di far slittare la data del
Referendum proponendo incontri bilaterali con i rappresentanti curdi
dopo le aperture di dialogo da parte del governo di Baghdad, ma Barzani
sulla possibilità di un rinvio si è dimostrato categorico. Unica voce
fuori dal coro ad oggi risulta essere quella di Netanyahu, triste
paradosso di chi si impegna da vent’anni in uno sterminio in casa
propria, salvo poi farsi garante dell’autodeterminazione dei popoli
fuori dai confini nazionali.
Intanto nonostante i pronostici parlino di una vittoria
schiacciante del Si, il dibattito interno alla regione non esclude
possibili sorprese. Tutto questo lo si avverte man mano
che ci si lascia alle spalle i check point del partito giallo
procedendo verso il sud della regione. Al clima militante della
provincia di Erbil fatto di conferenze e manifestazioni, si oppone il
mutismo di Sulaymaniyah, roccaforte del PUK, dove la campagna
elettorale viene lasciata alle sole bandierine che da qualche giorno
hanno invaso la città. Infatti sono parecchi i curdi che, pur senza
dimenticare le atrocità del passato e riconoscendo gli attuali problemi
di collaborazione con il governo centrale, ritengono che in questo
momento ci sia più che ma bisogno di un unità nazionale arabo-curda.
L’8 agosto una campagna di opposizione al Referendum dal nome
“No for Now”è stata lanciata da membri della società civile e alcuni
esponenti politici. Un movimento imbavagliato e privo di spazi
di dialogo che ha visto il rapimento di uno dei suoi leader Farhad
Sangawi compiuto da uomini armati nella mattinata del 20 agosto, salvo
poi essere liberato poco più tardi; un atto condannato dal capo
dell’ufficio del parlamento curdo e dal legislatore Soran Omer che ha
definito il sequestro un “infarto” contro tutti i popoli della regione
del Kurdistan.
Di certo, lo stesso governo di Erbil non è immune da problemi di
cattiva gestione, corruzione e svolte anti-democratiche. Barzani infatti
continua a governare il paese nonostante il suo mandato sia scaduto da
un anno e mezzo. E’ di qualche giorno fa appunto la richiesta congiunta di
PUK e Gorran, secondo partito all’ultima tornata elettorale, di
riattivare il Parlamento prima dello spoglio referendario in modo da
stabilire insieme tempi e termini di un eventuale processo di
transizione, ma il governo di Erbil è stato irremovibile.
Lo Stato Islamico arretra, ma le battaglie in materia di
diritti civili, politici e di autodeterminazione sono ancora distanti
dal trovare un vincitore.
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