articolo di Mattia Toaldo tratto da L’Espresso
C’è un filo neanche troppo invisibile che lega la decisione di rimandare l’ambasciatore italiano al Cairo e la politica italiana sull’immigrazione dalla Libia.
È un filo con cui abbiamo deciso di legarci le mani quando abbiamo
concluso che l’unica cosa che si può fare con gli immigrati è
respingerli in Libia: e per parlare con un pezzo di Libia, bisogna
parlare anche con l’Egitto.
Il primo snodo di questo filo sono le
nostre politiche migratorie. Il flusso principale verso l’Italia parte
dall’Africa Occidentale, passa per il Niger, quindi in Libia e poi nel
Mediterraneo. Da quando due anni fa l’allora governo Renzi propose il
“migration compact”, la Ue ha messo in campo una serie di politiche e di
accordi con l’Africa sub-Sahariana in cui si mescolano soldi per lo
sviluppo, crescita delle capacità di controllo dei confini e limitazioni
all’immigrazione da parte di alcuni Paesi chiave. Il Niger è diventato
il modello di questo approccio e infatti i flussi da questo Paese verso
la Libia si sono drasticamente ridotti tra il 2016 ed il 2017:
probabilmente è questa una delle ragioni principali del crollo degli
arrivi in Italia a luglio (è bene ricordarlo: un crollo avvenuto prima
della cacciata delle Ong e del protagonismo della Guardia Costiera
libica). Ma questa strada di ridurre i flussi alla fonte evidentemente
non bastava: dalla Libia continuava ad arrivare sempre più gente e il
resto dell’Europa aveva chiuso i confini ai migranti.
L’Italia, su spinta soprattutto del ministro Marco Minniti,
è quindi ricorsa a politiche molto più drastiche in Libia, che di fatto
coinvolgono la Guardia Costiera nominalmente al servizio del governo di
Faiez Serraj e il governo stesso. Serraj è riconosciuto in teoria da
tutta la comunità internazionale, incluso l’Egitto, ma chi ha un
rapporto privilegiato con lui e in genere con tutta la Tripolitania è
l’Italia: unici ad avere l’ambasciata aperta a Tripoli, unici ad avere
rapporti profondi addirittura a livello di sindaci, quasi gli unici a
mandare imprese e delegazioni.
Lo schema Minniti è di bloccare i flussi non solo dal Niger ma anche dalla Libia.
Per farlo, si rafforza la Guardia Costiera libica con navi italiane e
addestramento Ue e le si permette di creare una zona di soccorso in mare
(la sigla inglese è Sar, Search And Rescue). I migranti “salvati” in
questa zona vengono riportati in Libia e non potranno mai chiedere
asilo. Per attuare questo schema, si è chiesto a Serraj di fare un gesto
che lui aveva in precedenza rifiutato: permettere una presenza italiana
in acque libiche per “guidare” la Guardia Costiera locale verso i
gommoni. Serraj ha fatto questa concessione ma è stato subito accusato
dai suoi oppositori di aver svenduto la sovranità del Paese all’ex
potenza coloniale.
E qui arriviamo al secondo snodo:
gli oppositori di Serraj che sono anche amici dell’Egitto. Il Primo
ministro di Tripoli è figura assai debole, non controlla direttamente
quasi nulla e anche la Guardia Costiera è più che altro un arcipelago di
milizie locali, in alcuni casi molto vicine ai trafficanti stessi. Dall’altra parte della Libia, tra Bengasi e il confine con l’Egitto, c’è invece un uomo molto forte: il generale Khalifa Haftar,
nemico giurato degli islamisti e per questo beneficiario di armi e
sostegno politico da parte del Cairo e degli Emirati Arabi Uniti. Haftar
ha colto la palla al balzo della “concessione” di Serraj agli italiani
per accusarlo di tradimento e minacciare l’Italia e le sue navi. Proprio
negli stessi giorni sono apparsi sulla stampa italiana articoli in cui
si diceva che, fatto l’accordo con Serraj, ne serviva uno con Haftar. La
ratio era che se i gommoni non potevano partire dalla Libia
occidentale, sarebbero partiti da quella orientale. Basterebbe dare uno
sguardo alla cartina, vedere quanto è lontana la Cirenaica dalle nostre
acque per capire che il rischio non è proprio immediato.
Si giunge quindi al terzo snodo: l’Egitto.
Dall’omicidio Regeni i rapporti tra il Cairo e Roma si erano
raffreddati e ancor di più dopo il ritiro dell’ambasciatore italiano. In
molti, attorno a Minniti, dicevano che non si poteva gestire la Libia
senza parlare con gli egiziani: e senza l’ambasciatore veniva a mancare
il rapporto diretto e quotidiano. Questo argomento in favore della
ripresa dei pieni rapporti diplomatici con l’Egitto è precedente ai
fatti di questi giorni ma dipende in larga parte dall’approccio
“securitario” dato al tema immigrazione.
Il filo che lega lo schema Minniti e l’Egitto è quindi il seguente: dobbiamo bloccare gli immigrati in Libia ma non potendo fare noi i respingimenti (sono vietati), appaltiamo il blocco ai libici; questi libici sono indeboliti e minacciati dai libici amici dell’Egitto; quindi dobbiamo riattivare i rapporti con l’Egitto.
In questo schema ci sono poche cose inevitabili ma una di queste è la scarsa solidarietà europea.
Ce ne fu poca fin dai tempi dell’omicidio Regeni: basti ricordare la
visita del presidente francese François Hollande al Cairo la settimana
dopo il ritiro del nostro ambasciatore, con tanto di contratti
miliardari proprio nel settore della Difesa da cui era scaturito
l’omicidio. La scarsa solidarietà è continuata sul tema migranti,
forzando la mano allo schema Minniti.
Eppure, in tutto questo, una politica alternativa sull’immigrazione è possibile.
Ad esempio, una politica che proponga agli stati africani un patto: vi
daremo dei visti per l’immigrazione legale se vi riprenderete chi emigra
illegalmente. Per i profughi l’Unhcr ha proposto 20 mila posti legali
in Europa ma l’Ue ha rifiutato. Queste politiche “salterebbero” la Libia
perché chi emigra legalmente prende l’aereo, non i gommoni dei
trafficanti libici. Ci renderebbero meno schiavi dei “fili” descritti
qui sopra ma richiederebbero scelte coraggiose che mirino davvero,
proprio come dice Minniti, a “gestire i flussi”. Gestire e regolarizzare, non bloccare.
A quel punto in Egitto potremmo mandarne
anche due di ambasciatori. Perché il problema non è inviare un
professionista il cui lavoro è tenere i rapporti con un altro Paese. Il
problema è il mandato che ha quell’ambasciatore. Potremmo (anzi,
dovremmo) spedirlo lì e chiedergli di ricordare ogni giorno al governo
egiziano che vogliamo la verità sull’omicidio di Giulio Regeni. Ma
saremo un po’ più liberi di dargli queste istruzioni quando ci
libereremo dai fili descritti fin qui e ci doteremo di una politica
diversa sull’immigrazione.
(L’autore, Mattia Toaldo, studioso di Medio Oriente e Nord Africa, è analista senior presso l’European Council on Foreign Relations a Londra)
Per approfondimenti sulla vicenda Regeni leggi l’articolo e traduzione di Senza Soste
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