Questa conclusione venne affermata dalle stesse Br, il giorno dopo l’eccidio, con un volantino che tra l’altro rivelava il nome di Riccardo Dura, ex militante di Lotta Continua. Era l’unico dei quattro su cui carabinieri e procura mantenevano “il riserbo”, come si usa dire quando le indagini puntano ad altri obiettivi.
Ora, a 37 anni di distanza, quella stessa procura è stata costretta ad aprire un fascicolo per “omicidio volontario”, al momento contro degli “ignoti” che più noti – alla stessa Procura – non potrebbero essere. Si tratta infatti dei carabinieri che hanno partecipato all’irruzione, agli ordini dell’allora capitano Michele Riccio, tutti firmatari del rapporto conclusivo consegnato ai loro superiori (Carlo Alberto Dalla Chiesa) e da questi ai magistrati.
Scriviamo “costretta” perché lo stesso magistrato incaricato di procedere, Francesco Cozzi, parla di un “atto dovuto”, con l’altrettanto ovvia frase di circostanza: “Adesso valuteremo modi e tempi di eventuali accertamenti”.
Le indagini erano state chiuse molto presto e la riapertura odierna è dovuta alla determinazione e al coraggio di Luigi Grasso, ricercatore universitario che nel 1979 era stato accusato e arrestato per “terrorismo”, ma negli anni successivi era stato completamente prosciolto.
Un innocente vittima a sua volta della superficialità con cui accuse mostruose venivano mosse, producendo arresti immotivati, che ha cercato di capire per bene la tragedia in cui era stato gettato.
L’esposto che ha presentato in procura è frutto di un lavoro lunghissimo, costato anni di impegno e di “muri di gomma”. Le carte processuali relative all’eccidio di via Fracchia, infatti, erano praticamente inaccessibili a tutti. Nessun avvocato era stato incaricato di spulciare in quelle pagine, dove si nascondevano anche le perizie mediche e balistiche. Chi ricorda la morte dell’avvocato genovese Edoardo Arnaldi – suicida al momento dell’arresto – e i numerosi arresti dei legali che allora accettavano di difendere i prigionieri politici non fa fatica a capire perché. Oltretutto, che quelli fossero quattro omicidi volontari era chiaro a tutta Italia, non solo alle parti in quel momento combattenti.
La dinamica dell’irruzione, la posizione dei corpi all’interno dell’appartamento, lo squilibrio incredibile tra i quattro compagni morti e un solo carabiniere ferito, facevano capire immediatamente come erano andate le cose. Dettaglio più, dettaglio meno.
Il ricercatore Luigi Grasso, anche lui genovese, è riuscito ad ottenere l’accesso agli atti (che dovrebbe esser pubblico, in una certa misura) solo perché “imputato in un procedimento connesso” con quello di via Fracchia. Si è concentrato soprattutto sulle perizie medico-legali, riscontrando un’anomalia che avrebbe dovuto far saltare sulla sedia anche il meno esperto dei magistrati inquirenti: Anna Maria Ludmann (titolare dell’appartamento), Piero Betassa (operaio di Mirafiori, tra i 13 delegati componenti il “Coordinamento nazionale Fiat” della Flm), Piero Panciarelli (operaio e delegato alla Lancia di Chivasso) erano stati tutti colpiti da numerosi colpi d’arma da fuoco. Riccardo Dura, al contrario, viene ucciso da un unico proiettile alla testa, «penetrato in regione occipitale sinistra». Un colpo alla nuca, insomma, segno certo di un’esecuzione a freddo. I periti legali, Franchini e Celesti, parlano di «una distanza superiore ai 30 centimetri». Ma non molto superiore, perché altrimenti avrebbero scritto altre cose.
Non entreremo qui nelle ragioni tecniche, ma è risaputo che “un proiettile esploso a bruciapelo” (a meno di 30 centimetri di distanza) lascia un alone di polvere da sparo intorno alla ferita evidente anche ad occhio nudo, mentre un proiettile esploso ad oltre mezzo metro di distanza praticamente non ne lascia. La formula usata dai periti deriva dunque dal ritrovamento di un quantitativo ingente di polvere da sparo sulla nuca di Dura, anche se non tanta quanta se ne sarebbe trovata per un “colpo a contatto di pelle”. Dunque che il colpo mortale fu sparato a una distanza oscillante tra i 30 e i 50 centimetri. Un’esecuzione, comunque, per cui non serve neppure un tiratore particolarmente addestrato.
Siamo curiosi di vedere gli sviluppo giudiziari di questo “atto dovuto”.
Michele Riccio ex ufficiale dei Carabinieri |
Nel 1997 finì in carcere per accuse davvero insolite per un alto grado dell’Arma: dal traffico di droga all’associazione a delinquere per spaccio di stupefacenti. Di fatto, aveva trasformato la caserma dei Carabinieri di Corso Europa (sempre a Genova) in un laboratorio di raffinazione, impacchettamento e distribuzione di eroina. La strumentazione necessaria era stata sequestrata – dai suoi carabinieri, naturalmente – anni prima in una raffineria clandestina a Tovo San Giacomo, sempre in Liguria.
Perché? Il processo successivo consentì di verificare almeno due “moventi” principali: l’arricchimento personale e un “turbo” alla carriera di carabiniere. Molte delle sue “brillanti operazioni antidroga” partivano proprio dal promuovere lui stesso un traffico clandestino, per cui avvicinava e poi scaricava “normali” trafficanti ignari.
Nell’inchiesta venne coinvolta anche l’ex magistrato savonese Tiziana Parenti, poi finita a far la parlamentare di Forza Italia. Alcuni dei tanti articoli che allora ricostruivano questa vicenda vergognosa dando il senso e la misura di questo “difensore dello Stato”, armi alla mano, possono essere consultati qui, qui e qui.
Insomma: un magistrato attento solo alla verità, anche se sensibile alle ragioni dell’Arma in un frangente “difficile”, non dovrebbe aver problemi a ricostruire con precisione la dinamica dell’eccidio di via Fracchia, decostruendo i verbali falsificati di Riccio e dei suoi uomini. In fondo, non si tratta di difendere dei “funzionari specchiati” da “accuse infamanti”. Ma semplicemente di indagare su “una squadra” abituata ad aggirare la legge, facendo credere di star lì a difenderla...
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