di Chiara Cruciati – Il Manifesto
A quasi tre mesi
dall’isolamento del Qatar da parte di Arabia Saudita, Bahrein, Egitto e
Emirati, ieri Doha ha annunciato il ritorno in Iran dell’ambasciatore.
«Lo Stato del Qatar – si legge in una nota del Ministero degli Esteri
– ha espresso l’intenzione di rafforzare i legami bilaterali con l’Iran
in tutti i campi». Torna, quindi, la rappresentanza diplomatica un anno
e mezzo dopo il ritiro, a seguito della crisi esplosa per l’esecuzione a
Riyadh del leader religioso sciita al-Nimr.
La decisione segue al sostegno commerciale – apertura dello
spazio aereo e invio via mare di derrate alimentari – fornito dalla
Repubblica Islamica a Doha (alle prese con la chiusura dei
confini terrestri imposto dalle petromonarchie) e alle attività
congiunte di sviluppo del South Pars, ricchissimo giacimento sottomarino
di gas naturale.
Nessun commento dall’Arabia Saudita né dagli Stati satellite, sebbene
tra le 13 richieste mosse al Qatar per interrompere il boicottaggio
collettivo ci sia la rottura definitiva dei rapporti diplomatici con gli
Ayatollah.
Teheran plaude al ritorno dell’ambasciatore, annuncia
l’ampliamento della collaborazione energetica con l’Iraq (paese i cui
leader sciiti stanno facendo la fila alla corte dei Saud) e segna un
punto anche in campo saudita, a sentire il ministro degli Esteri Zarif:
dopo il pellegrinaggio alla Mecca, l’Hajj, i due rivali potrebbero
scambiarsi visite ufficiali. «Sono stati rilasciati i visti da
entrambe le parti per effettuare il viaggio – ha detto Zarif, affabile
volto dell’Iran moderato che intende ergersi a potenza regionale
riconosciuta – L’Iran ha sempre voluto avere buone relazioni con i
vicini».
Teheran pigliatutto: l’«Iranofobia» dell’amministrazione Trump,
condita dai noti pruriti bellici israeliani, non limita la Repubblica
Islamica nella regione né fuori. L’Iran avanza, forte della vincente
strategia in Siria, dell’accordo sul nucleare (che sta portando ai
primi, miliardari, contratti con compagnie straniere) e della veste di
mediatore che il presidente Rouhani gli ha cucito addosso.
E ora guarda alla Turchia su una questione che accomuna due paesi
dall’antica rivalità, radicata da secoli di guerre tra imperi persiano e
ottomano: quella kurda. A prospettare un’operazione
Ankara-Teheran in Iraq contro il Pkk (e le sue filiali siriana, Ypeg, e
iraniana, Pjak) è stato lo stesso presidente turco Erdogan, lunedì:
«Un’azione comune contro gruppi terroristici è sempre in agenda».
Subito è giunta la smentita delle Guardie Rivoluzionarie («Non
abbiamo in mente alcuna operazione fuori dai confini della Repubblica
Islamica») ma per più di una fonte la possibilità non è affatto remota:
una cooperazione militare frutto di un incontro storico (la prima
visita, il 15 agosto, di un capo di Stato maggiore iraniano ad Ankara
dal 1979) e del riavvicinamento di Astana, con l’intesa siglata da
Turchia, Iran e Russia per le zone di de-escalation in Siria.
Una possibilità che si affaccia a un mese esatto dal previsto referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno,
costantemente in forse a causa delle pressioni dell’alleato Usa ma che
ha già fatto lanciare alla Turchia minacce di intervento contro
un’entità, Erbil, che con Ankara intesse ottimi relazioni diplomatiche e
commerciali.
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