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25/08/2017

Referendum sul Kurdistan: attese e timori

A un mese dal previsto referendum promosso da Massoud Barzani sull’ipotetica “indipendenza della regione del Kurdistan e di zone fuori dal territorio” (dunque i governatorati di Erbil, Sulaymaniyah, Dohuk più l’ambitissima Kirkuk) la Turchia, che è ferrea oppositrice dell’iniziativa nonostante i discreti rapporti col leader del Partito democratico del Kurdistan (Kdp), ha rilanciato un’azione diplomatica di dissuasione. Il ministro degli Esteri Çavuşoğlu è in queste ore a Baghdad, ospite dell’omologo al-Jaafari, per ribadire l’unicità di due obiettivi. Primo: lavorare per la totale liberazione delle aree tuttora sotto il controllo dell’Isis (piuttosto ridotte rispetto a tre anni fa). Secondo: garantire l’integrità della nazione irachena. Parlare d’integrità per un territorio che, solo nel triennio della nascita del Daesh, ha subìto sanguinose lacerazioni accanto a idee di soluzioni buone per ogni velleità geopolitica, sembra una totale astrazione. Ma pur fra le mille incertezze prodotte dalla condizione di Stato in dissoluzione e dalle strategie per tener congelata (ma esecutiva) una guerra che dal 2003 opprime milioni di persone, chi è interessato all’Iraq e alla sua cospicua ricchezza di petrolio (epigoni delle Sette sorelle del petrolio, Usa, Daesh, petromonarchie e i capiclan dei 5 milioni di kurdi iracheni) il problema se lo pone.

Se lo pongono anche gli ingombranti vicini turchi e iraniani, interessati a un presente che è già futuro, sia nel caso d’implosione di un territorio da tutti invidiato per l’oro nero del sottosuolo, sia per il temibile effetto domino che la scelta dell’autodeterminazione dei kurdi locali potrebbe produrre fra i 15 milioni di kurdi di Turchia e gli 8 milioni presenti nel nord-ovest iraniano. Esorcizzare ed evitare questo passo, ritenuto un pericolo ad Ankara come a Teheran, fa parte della missione di Çavuşoğlu. Dal canto suo con l’attuale referendum, già proposto tempo addietro, Barzani vuol cogliere i frutti d’un momento favorevole per il territorio che amministra in virtù di quelle concessioni statunitensi successive alla prima guerra del Golfo (1991). Una soluzione di passaggio che vedeva gli Usa tutori interessati per tenere una presenza indiretta nella regione, che dal 2003 divenne occupazione. Anche in quel caso Washington fece ricorso al popolo kurdo e alle storie dei massacri da esso subiti nel 1988 su ordine di Saddam Hussein. Il vecchio leader del Kdp lancia lo strumento consultivo anche per rafforzare la propria posizione sullo scenario della dirigenza kurdo-irachena, per limitare le velleità del Movimento per il cambiamento (Gorran) propostosi nelle elezioni locali del 2013 come partito d’opposizione, una novità rispetto allo storico dualismo fra Kdp e Puk (Unione patriottica del Kurdistan).

Eppure Barzani in una recente dichiarazione ha lasciato intendere che la rinuncia al referendum, temuto da turchi e iraniani, potrebbe avvenire solo di fronte a una soluzione alternativa di buona vicinanza. Intuitivamente parlava anche dei vicinissimi dell’amministrazione di Baghdad che in caso di successo del sì, dovrebbe vedersi privata di tutta la fascia settentrionale irachena, controllate, e non da oggi, dai combattenti peshmerga. Del resto la regione autonoma del Kurdistan (Krg), rafforzata sul terreno geopolitico dal 2005, ha ricevuto un ulteriore benestare dal 2014. Gli scontri sui campi di battaglia contro i miliziani dello Stato Islamico sono stati sostenuti dai peshmerga e quest’imprinting politico, suggellato nella lotta, è la carta di credito cui il Krg non vuol rinunciare. Certo, i successi kurdi sono scaturiti scontrandosi casa per casa con un nemico motivato e feroce, ma sono seguiti alle azioni di copertura garantite dall’aviazione Nato. Attualmente l’establishment occidentale sembra preferire l’ingombrante idea dell’autonomia della regione kurdo-irachena a quell’espansione dell’Isis, che in quell’area ha seminato un biennio di lutti e paure. Ma proprio la Casa Bianca, dopo il decennio di distruzioni creato, spinge per una possibile rinascita dell’Iraq. C’è poi appunto la contrarietà turca sul tema dell’autonomia del Kurdistan orientale, cui potrebbe seguire una richiesta di quello orientale: il Rojava.

Sebbene in quest’area la continuità dei cantoni (Efrin-Kobanȇ-Jazira-Șehba) non sia totalmente garantita, per la presenza ancora di sacche controllate dall’Isis, in più occasioni Erdoğan in persona ha minacciato l’uso dell’esercito contro un aggregato politico non gradito, che, a suo dire, minaccia la sicurezza nazionale turca. Non è un segreto come l’elaborazione del progetto politico del Rojava, che esalta l’autonomia territoriale e prospetta una società democratica e paritaria, veda il Partito dell’unione democratica di Siria (Pyd) in stretto rapporto col Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Tracciando un’equazione securitaria il presidente turco spinge affinché anche il Pyd subisca ostracismo e trattamento applicati da anni al Pkk e venga considerato un’organizzazione terroristica. Di mezzo s’è posta la guerra civile siriana, il ruolo giocato dalle determinatissime ‘Unità di protezione popolare’ e di ‘protezione della donna’, che hanno difeso con la vita quei territori, impedendo un’avanzata delle bandiere nere da sud verso nord, confine turco compreso. Così la comunità kurda meno numerosa, quella siriana che conta circa tre milioni di persone, oltre a essere giocoforza mobilitata dagli eventi, risulta altamente politicizzata e determinata, tanto da fare invidia allo stesso Barzani. Su tali divisioni vecchie e nuove, sui disegni politici che separano taluni leader kurdi e il loro seguito, insistono gli altri attori regionali. In una partita riaperta, che può però ripetere i voltafaccia compiuti nella storia del Novecento da potenze grandi e medie per lasciare un antichissimo popolo di oltre trenta milioni d’individui senza patria. Mentre nascevano Kosovo e simili.

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