Il documento, frutto del lavoro collettivo svolto nel corso dell’ultimo anno scolastico, inquadra l’Alternanza Scuola Lavoro all’interno del più generale processo di asservimento della scuola alla logica di mercato, così come si sta realizzando in tutti i Paesi europei e prova a ipotizzare delle strategie di resistenza e risposta a questo nuovo dispositivo obbligatorio, che riteniamo estremamente pericoloso.
L’ASL infatti, oltre a creare manodopera gratuita minorenne, punta a modificare il modo stesso di pensare e pensarsi degli studenti e del corpo docente, con l’evidente scopo di formare manodopera più meno specializzata che sposi una idea di mobilità professionale e geografica estrema e che si abitui fin da subito alla logica della precarietà e della mancanza di diritti.
Siamo convinti che la ASL non sia riformabile, ma che debba essere combattuta nelle scuole e nei luoghi di lavoro, dove ha la potenzialità di trasformarsi in una sottrazione di posti di lavoro per il personale retribuito e che debba essere rigettata dagli studenti stessi, oggi costretti a svolgerla perché inserita in modo obbligatorio nell’Esame di Stato.
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L’alternanza scuola lavoro: un’analisi critica.
Di che cosa stiamo parlando
Da decenni l’UE sta lavorando per modificare in modo radicale e irreversibile i sistemi di istruzione e formazione dei Paesi membri, con lo scopo, ormai nemmeno più tanto nascosto, di diffondere in modo capillare la cultura di impresa e di mercato e di formare giovani generazioni disponibili al lavoro sottopagato, quando non gratuito, ma anche a spostarsi molto lontano dal paese d’origine per “inseguire” il lavoro e pronte ad una continua mutazione della propria professionalità, legata solo e soltanto alle esigenze del mercato. Dall’autonomia scolastica (leggi Bassanini) in poi, passando per le riforme Berlinguer, Moratti, Gelmini e infine per la L. 107/15, il lavoro di trasformazione del sistema di istruzione italiano è continuato in questa direzione. Non è un caso che l’ISFOL nel suo rapporto annuale del 2007 scrivesse: «È caduto un muro come quello di Berlino tra scuola, formazione e lavoro e si è aperto un cantiere, il più grande del mondo, il cantiere della formazione. L’autonomia scolastica, la Formazione professionale, l’Apprendistato hanno gettato le fondamenta di una nuova costruzione». È proprio in questo quadro che si inserisce a pieno titolo l’Alternanza Scuola Lavoro (d’ora in poi ASL), divenuta legge con la cosiddetta Buona Scuola (L. 107/15 commi 33-42) e definitivamente inserita nell’Esame di Stato conclusivo della Scuola Secondaria dalla Legge Delega 384/17. Come tutti sanno l’ASL consiste in un percorso di 200 o 400 ore, a seconda dell’indirizzo di scuola, da svolgersi almeno parzialmente in contesti lavorativi.
Prima di addentrarci nella descrizione dell’alternanza, bisogna ricordare che centrale anche in questo contesto, come in tutte le trasformazioni del sistema di istruzione e formazione degli ultimi anni, è il concetto di competenza. Competenza è un termine ampiamente dibattuto a livello teorico e spesso presentato come un termine pedagogicamente neutro, che mira a mettere in luce il semplice Saper fare, nella realtà dei fatti è un termine nato nel contesto della formazione lavorativa (1) e come tale ha assunto una valenza ideologica precisa. Vale dunque la pena richiamare le Linee Guida (2) ministeriali sull’ASL nelle quali si definisce la “competenza” come «comprovata capacità di utilizzare, in situazioni di lavoro, di studio o nello sviluppo professionale e personale, un insieme strutturato di conoscenze e di abilità acquisite nei contesti di apprendimento formale, non formale o informale». (3) Questa è una definizione chiara, precisa e importante, perché ci porta dentro la natura stessa dell’ASL e smonta le argomentazioni di coloro che anche in estrema sincerità vedono nell’ASL e nelle competenze utili strumenti per favorire la partecipazione attiva degli studenti ai processi di apprendimento. Le competenze sviluppate nel corso dell’alternanza sono competenze funzionali al mercato del lavoro e alla logica di impresa. Questo “essere al servizio di” sta alla base della sua stessa nascita ed ha molto a che fare con i processi di centralizzazione e le trasformazioni interne all’Unione Europea.
Le radici europee
Iniziamo col dire che l’ASL non è una novità nel quadro della scuola italiana. Le prime forme di apprendimento in ambito lavorativo risalgono forse alla cosiddetta terza area o area professionalizzante, prevista per i professionali dal Progetto ’92 (partito dall’a.s. 1995/1996), il cui scopo era adeguare l’offerta di tali scuole al mercato del lavoro, secondo il mantra per cui la formazione scolastica fosse vecchia e inadeguata, ma anche seguendo un’esigenza sentita dal corpo docente, di rendere più attiva la partecipazione degli allievi all’apprendimento, in un contesto scolastico, quello delle scuole superiori, che pareva immutabile e ancorato ad un insegnamento/apprendimento in gran parte astratto e trasmissivo. Tale progetto prevedeva corsi su particolari tematiche legate ad esigenze regionali e territoriali, coordinati da un tutor, definiti all’inizio dell’anno scolastico dal Collegio dei docenti e articolati in una serie di lezioni frontali e stage aziendali. Successivamente, l’art. 4 della Legge delega n. 53 del 28/03/2003 (Legge Moratti) ha sancito il principio per cui l’ASL entrava nel curriculum didattico dell’Istruzione secondaria di II grado; mentre il D.Lgs n. 77 del 15/04/2005 ha disposto che gli studenti a partire dal sedicesimo anno di età debbano alternare periodi di studio e di lavoro.
In qualche modo, utilizzando l’esigenza di una didattica meno “ingessata”, il mondo del mercato e dell’impresa si è aperto un varco nel mondo della scuola, un passo alla volta, a partire dalle scuole più indirizzate all’impiego lavorativo immediato, per arrivare a quelle che sono sempre state considerate preparazione ai percorsi universitari e quindi “al sicuro” da questi processi, i licei.
L’ASL trova però la sua vera origine nelle azioni per l’istruzione e la formazione europee. Se prendiamo in considerazione i più recenti documenti dell’Unione in merito agli obiettivi posti nell’ambito del programma “Europa 2020: la strategia europea per la crescita”, (4) in cui si parla di una crescita intelligente, sostenibile, inclusiva, vediamo che, per quel che riguarda l’istruzione e la formazione, tale crescita si traduce nel programma “Istruzione e Formazione 2020”. (5) Leggendo anche sommariamente questi documenti, appare evidente che, al chiaro intento di centralizzare il processo, per il quale le “riforme” dei sistemi scolastici nazionali sono finalizzate ad obiettivi decisi in sede sovranazionale dall’UE, si affianca il forte impulso alla mobilità giovanile del mercato del lavoro, sia dal punto di vista della disponibilità alla precarietà in quanto tale, sia nei termini di emigrazione di forza lavoro dalle aree deboli alle aree più forti dell’UE e nel loro inserimento precoce nel mondo del lavoro, tramite contratti deboli, o addirittura il lavoro gratuito. Nel testo del programma leggiamo infatti che «La strategia identifica le aree prioritarie in cui i paesi dell’UE devono attivarsi maggiormente per raggiungere obiettivi condivisi in materia di istruzione e definisce le modalità in base alle quali l’Unione può sostenere le loro politiche di modernizzazione». Se poi andiamo a vedere più nello specifico il “Quadro strategico: istruzione e formazione 2020” leggiamo che: «Nel 2009, ET 2020 ha fissato quattro obiettivi comuni dell’UE per affrontare le sfide per i sistemi di istruzione e formazione entro il 2020: «fare in modo che l’apprendimento permanente e la mobilità divengano una realtà, migliorare la qualità ed efficacia dell’istruzione e della formazione promuovere l’equità, la coesione sociale e la cittadinanza attiva, incoraggiare la creatività e l’innovazione, compreso lo spirito imprenditoriale, a tutti i livelli dell’istruzione e della formazione».
Il quarto punto ci riporta direttamente ai temi dell’ASL e i contenuti del quadro strategico europeo sono pienamente recepiti dal MIUR, laddove nelle Linee Guida sull’alternanza, a proposito della possibilità di avviare nelle scuole progetti di impresa formativa simulata (d’ora in poi IFS), una delle opzioni possibili per svolgere l’Alternanza Scuola Lavoro, si afferma che la seconda fase di tali progetti «ha il compito di sensibilizzare il giovane ad una visione sistemica della società civile attraverso la cultura d’impresa, in modo da sviluppare il senso etico dell’interagire con l’ambiente economico circostante, nel rispetto delle conoscenze fondamentali dei concetti di azienda, impresa, etica aziendale e del lavoro». La Terza fase dell’IFS mette poi il giovane «“in situazione” consentendogli di utilizzare gli apprendimenti teorici acquisiti in contesti formali, di dare spazio alla propria creatività scegliendo un modello di riferimento sul territorio e definendo la propria idea imprenditoriale (Business Idea), supportandola dalla necessaria analisi di fattibilità. Ad essa seguirà l’elaborazione del Business Plan. Concetti fondamentali di questa fase sono quelli di impresa tutor o madrina, mission aziendale, scelta della veste giuridica aziendale attraverso la quale esercitare l’attività d’impresa». Siamo di fronte alla costruzione a tutti i livelli dell’Unione Europea in senso prettamente capitalista e neoliberista e del cittadino Europeo. Un cittadino che apprenda la logica di impresa fin dalla sua istruzione e che si renda disponibile alle esigenze del mercato senza nessuna analisi critica.
Nella guida operativa sono inoltre esplicitati con chiarezza i fini e le modalità dell’ASL. L’idea che i documenti ufficiali propagandano insistentemente è la seguente: alla luce della crisi economica e del suo impatto sull’occupazione giovanile, risulta sempre più urgente diffondere forme di apprendimento basato sul lavoro di alta qualità. Questo in linea con le indicazioni di “Europa 2020”: aumentare gli standard e il livello dei risultati di apprendimento, per rispondere al bisogno di competenze e consentire ai giovani di inserirsi con successo nel mondo del lavoro. Stiamo parlando ovviamente di un mercato del lavoro europeo, e della necessità di avere strumenti di misurazione e comparazione delle capacità lavorative dei soggetti in formazione. Tradotto in parole povere: i ragazzi non trovano lavoro perché non sono sufficientemente formati, e perché lo sono poco rispetto alle esigenze d’impresa.
Autoimprenditorialità, spirito pro-attivo, flessibilità, competenze digitali saranno la soluzione. Al di là della veridicità di questa affermazione – queste generazioni nei fatti trascorrono molti più anni a formarsi a scuola e non solo, ci sarebbe da discutere sulla qualità e le finalità di tale formazione – l’alternanza è di solito una formazione di alto livello? Il più delle volte no, da quello che si può scoprire anche con una semplice ricerca in rete. Prendiamo i casi denunciati dall’Unione degli Studenti in Puglia: «Nadia, al quarto anno di un professionale alberghiero della provincia di Bari è stata mandata in una fiera dedicata alla promozione di matrimoni a distribuire volantini. “Lì – racconta – facevo solo quello e davo indicazioni al pubblico che mi chiedeva informazioni sulle toilette o su dove trovare uno stand” [...] Secondo Nadia sono stati violati anche i minimi diritti del lavoratore: “Spesso mi è capitato di fare dieci, dodici ore continuative con una pausa di quindici minuti al massimo”. E al ristorante [...] non è andata meglio. Lei che segue il corso di cucina si è trovata accanto al cuoco una sola volta: “Per il resto delle ore ho pulito tavoli e bagni. L’alternanza dovrebbe essere un’opportunità e un percorso di crescita professionale ma le aziende ci usano come manovalanza gratuita»; mentre in un Liceo di Barletta gli allievi sarebbero stati utilizzati per sistemare vecchi archivi o catalogare libri, ovvero attività che spetterebbero al personale assunto e che nulla hanno a che fare con il loro percorso di studi. (6) Ma riteniamo che ognuno di noi abbia presente situazioni analoghe dove i ragazzi sono stati utilizzati semplicemente per sostituire forza lavoro, così da non doverla pagare e per le mansioni più basse. Già anni fa, quando l’Asl era solo sperimentale, la nota fiera Seridò di Brescia, dedicata all’infanzia, utilizzava gli allievi dei Licei delle Scienze Umane e dei Professionali Sociosanitari per lunghissime giornate (anche di 10 ore) di lavoro pressoché ininterrotto, presso gli stand della fiera, con le mansioni più basse (mettere a posto giocattoli e materiale ad ogni cambio di gruppo, far entrare e uscire i gruppetti di bambini...), senza alcuna formazione pregressa o tutoraggio reale. Queste esperienze, peraltro, sembrano a prima vista più facili da riscontrarsi nei tecnici e nei professionali, dove la durata dell’ASL (400 h complessive) è tale da costringere le scuole e gli studenti a veri e propri tour de force e dove è più facile tradurre l’indirizzo di studi in una immediata spendibilità lavorativa. È facile ravvisare qui, come per altri aspetti della riforma della scuola, la divisione in scuole di serie A e B: progetti più “pensati” per i Licei e meno per gli altri indirizzi. Sono recentissime le notizie di cronaca che parlano di violenze sessuali su studentesse della Formazione Professionale in stage. In questo caso non si tratta di ASL, ma di una forma similare e assimilabile di prevalenza della formazione in azienda su quella in un luogo deputato alla formazione. Al di là della gravità assoluta del caso specifico, esso mostra l’impossibilità di controllare in modo serio ed accurato quanto avviene agli studenti che sono in ASL: le loro condizioni di lavoro, i loro diritti, la loro sicurezza.
La Guida Operativa prosegue facendo riferimento all’impegno che la Commissione europea in prima persona prende nella promozione dell’apprendimento basato sul lavoro di partenariati tra istituzioni pubbliche e private e sulla mobilità (Erasmus +). Il quadro di riferimento è quello della “Garanzia giovani” e degli altri strumenti per agevolare la transizione scuola lavoro. La necessità è quella di giungere ad un piano comunitario unico per la trasparenza delle qualifiche e delle competenze, per la loro misurabilità e comparabilità, in vista di un vero e proprio apprendistato perenne. Tutto ciò si traduce, oltreché nella parola “competenze”, nella relazione sempre più stretta tra alternanza e valorizzazione dell’apprendistato prevista dal JOBS ACT. Impresa simulata, business plan ed altri idoli della cultura d'impresa sono le parole d’ordine di questo nuovo modello educativo: tutto passa e deve passare, è persino inutile dirlo, anche su un piano ideologico. E, naturalmente, dal collegamento con il Jobs Act attraverso l’apprendistato: analoga la struttura flessibile dei percorsi e la progettazione congiunta tra scuola e azienda. L’idea è senz’altro quella di far fare prima alternanza e poi apprendistato: di procedere cioè ad una precarizzazione totale. In questo senso va anche la Legge Delega 61/17, sulla revisione dei percorsi di Istruzione professionale, che prevede percorsi di ASL e apprendistato già dalla seconda classe.
Nel documento vengono appena evocati i temi della salute e della sicurezza, ma non è difficile supporre che, con i numeri di cui si parla, sia solo questione di tempo perché un incidente grave o addirittura un morto sul lavoro (di alternanza) non metta la questione al centro dell’attenzione.
Nelle finalità dell’ASL troviamo espresso con maggior chiarezza ancora il senso di tutto il percorso: attuare modalità di apprendimento flessibili ed equivalenti sotto il profilo culturale ed educativo, collegando formazione ed esperienza pratica. Ci viene detto che l’ASL «si pone l’obiettivo di accrescere la motivazione allo studio e guidare i giovani nella scoperta delle vocazioni personali [...] Tale condizione costituisce un vantaggio competitivo.». Ecco ancora il preciso collegamento tra filiera formativa e filiera produttiva. A livello pratico tutto questo si traduce in protocolli di lavoro tra scuole, territori, aziende e pubbliche amministrazioni (attraverso i Poli tecnico-professionali, il registro dell’alternanza). I livelli di accentramento sono tanti, ma è evidente una strategia generale che ribalta l’autonomia scolastica, pur mantenendola formalmente. Che si sia ad un livello strutturale e classista in tutto questo, ce lo conferma la già citata Legge Delega 61/2017 sui percorsi professionali e la 62/2017 sull’Esame di Stato, che rende obbligatorie Invalsi ed ASL per il conseguimento del diploma.
Non è secondario poi ricordare che tanti soldi arrivano alle scuole dall’ASL e dai progetti europei. Anche questo è un dato materiale da non rimuovere in un settore di PI a contratto bloccato, perché questi fondi diventano il salario accessorio di chi è disposto a spendersi per mandare avanti il carrozzone.
A quale progetto sociale, politico e culturale risponde l’ASL?
V’è certamente, nell’ASL, come nell’intero impianto delle riforme di questi decenni, un’imprescindibile dimensione materiale dei processi, che si fatica a vedere come docenti, perché, oltre ad essere estranea al nostro modo di ragionare e lavorare coi ragazzi, essa si nasconde dietro un linguaggio, che è quello della pratica, dell’educazione al fare e per mezzo del fare, dell’educazione al lavoro e tramite il lavoro – inteso in senso alto, come dimensione creativa dell’essere umano – un’educazione che ha matrici pedagogiche importanti, nell’attivismo novecentesco, nelle migliori esperienze di educazione popolare ottocentesche, fino ad arrivare al grande progetto pedagogico di Rousseau. Questo linguaggio nasconde però la dimensione reale, socio-economica dei processi: l’ASL fornisce un serbatoio inesauribile di manodopera gratuita per le imprese, e in questo senso è una delle misure con cui la crisi economica sistemica viene affrontata attraverso l’abbassamento complessivo del costo del lavoro e quindi l’aumento dell’estrazione di plusvalore assoluto. A ciò si affianca, come abbiamo già detto, la dimensione ideologica del fenomeno, che non è meno importante né tanto meno trascurabile. Il compito al quale sono chiamate le istituzioni scolastiche è sempre quello di costruire un nuovo tipo d’uomo, pienamente forgiato nell’ottica del mercato e felice di farne parte. L’insegnamento finalizzato all’acquisizione della cultura d’impresa, al “diventare imprenditori di se stessi”, che si esprime pienamente nell’IFS, porta inoltre con sé corollari di formazione fiscale, contabile e di tipo finanziario, su cui si sono gettate le varie fondazioni bancarie, un esempio tra tutti FEDUF, Fondazione per l’Educazione Finanziaria e il Risparmio, che propone percorsi formativi che insegnino ai ragazzi come arrivare dalla Business Idea al Bussiness Plan, passando per l’analisi di mercato, in modo da sapere attirare investitori per il lancio della propria SimulImpresa. All’interno dell’IFS è infatti necessario fondare un’azienda e darle una forma societaria in presenza di un notaio, fare la SCIA, aprire un conto corrente, oltre che produrre un prototipo di prodotto e possibilmente commercializzarlo tramite un sito internet e presso fiere dedicate (che poi possono essere cancellate, come in Lombardia quest’anno, per scarsezza di fondi). Non è difficile vedere cosa si nasconda dietro la forma accattivante del progetto, della creatività, del produrre qualcosa di “mio”. Non possiamo però non sottolineare che l’IFS è altresì la sola forma di Alternanza che permetta di tenere i ragazzi a scuola per l’intera durata del percorso, impedendo loro di trasformarsi in manodopera a costo zero, quando le altre forme prevedono tutte un periodo di lavoro in azienda.
È anche con la dimensione ideologica che dobbiamo confrontarci, per la sua portata pervasiva e per la capacità estremamente persuasiva di creare consenso e di colonizzare l’immaginario non solo degli studenti e delle famiglie, ma anche degli insegnanti. Infatti l’ASL gode per ora di favore, in quanto viene percepita come misura concreta atta a dare risposte ai problemi dell’occupazione giovanile, quanto meno fino a quando lo studente non sperimenta in prima persona quanto frustrante possa rivelarsi e quanto inutile essa sia allo scopo di trovare un futuro lavoro retribuito. Il modello dell’ASL, in un progetto di Europa in cui le istituzioni politiche e, nello specifico, quella istituzione sovranazionale che è l’UE, intervengono in maniera massiccia sul piano della produzione di leggi e trattati vincolanti per gli stati membri e recepiti dagli ordinamenti nazionali al fine di costruire un ordine favorevole all’appropriazione privata del profitto – a fronte della millantata ideologia del mercato cui viene lasciata libera la mano – è da inquadrare meglio all’interno degli strumenti che quello che oggi viene definito ordoliberismo utilizza per trasformare l’immaginario individuale:
1) il principio meritocratico della concorrenza come valore regolativo assoluto che conduce il soggetto a percepirsi come “imprenditore di se stesso”, in competizione atomistica con gli altri attori della società di mercato;
2) le tecnologie di valutazione deputate a misurare il grado di adeguamento del soggetto alle regole dell’economia di mercato, allo scopo di premiare i meritevoli e punire i riottosi.
Questi due meccanismi sono perfettamente rappresentati all’interno della L. 107/15, attraverso l’introduzione di forme di valorizzazione della competizione tra docenti (si pensi al cosiddetto bonus di merito, o alla chiamata per competenze dei neoimmessi), ma anche della valutazione sistematica dei docenti (comitato di valutazione, bilancio di competenze per i neoimmessi, portfolio del docente, solo per fare qualche esempio). Per quanto concerne gli studenti, il nuovo esame di maturità, con la valutazione delle esperienze obbligatorie di ASL, costituisce un indicatore del tutto esplicito del ruolo assunto dalle tecniche di valutazione quali strumenti di misurazione dell’adesione al modello sociale imperniato sui principi ordoliberisti; a ciò va affiancata l’enfasi sempre più accentuata negli ultimi anni sugli strumenti di misurazione e di valutazione quantitativa nell’attività scolastica, a discapito dei processi e dei contenuti di apprendimento (si vedano per esempio il ritorno ai voti numerici nel ciclo d’istruzione primario e i test Invalsi), oggettività che prelude alla confrontabilità e alla gerarchizzazione dei risultati, cui, c’è da credere, si assoceranno prima o poi le distribuzioni delle risorse alle scuole e non certo nel senso di un sostegno delle scuole in maggiore difficoltà, come già avviene ad esempio in Gran Bretagna. Tutte queste metodologie, presentate come innovative, promuovono una didattica apparentemente democratica, mirante a sviluppare capacità che sulla carta favoriscono il pensiero critico e l’espressione individuale; in realtà, in quest’ottica lo spirito critico diviene competenza e strumento da acquisire, piuttosto che risultato della formazione, un aspetto meramente tecnico rispetto al quale è del tutto assente la riflessione sulla finalità della formazione, in quanto la stessa è subordinata alle esigenze del sistema produttivo. In tale contesto, l’invito rivolto allo studente a esprimere la propria opinione personale diviene mera riproduzione del senso comune dominante; lo stesso “spirito critico”, separato da ogni contenuto culturale disciplinare, diviene una competenza trasversale, necessaria a promuovere il proprio capitale umano nel mercato del lavoro, perdendo la potenzialità di strumento volto a pensare la società nella sua complessità e a immaginarne una possibile trasformazione democratica. Viene meno del tutto la dimensione in senso ampio politica e civile dell’istruzione scolastica e universitaria che perde qualunque finalità pubblica orientata alla formazione del cittadino consapevole del suo ruolo nella società e viene intesa come acquisizione di competenze puramente tecniche e individuali da spendere nel mercato del lavoro, vale a dire imparare a divenire “imprenditori di se stessi”, che poi significa essere manodopera flessibile e disponibile alle esigenze dell’azienda.
Che risposte si possono dare?
Quanto scritto fino ad ora crediamo chiarisca come l’ASL, lungi dall’essere una pratica didattica ancorché discutibile, è il tassello di un progetto preciso e strutturato di egemonia sia economico-sociale che culturale, volto a costruire una società totalmente funzionale alle regole del mercato. In queste condizioni chi difende una prospettiva sociale, politica ed economica diversa non può non cercare di mettere in atto pratiche che contrastino l’ASL e la visione di essere umano e di società ad essa sottesa.
Sono diverse le dimensioni sulle quali si può lavorare per contrastare l’Alternanza: una dimensione prettamente sindacale, che si richiama al CCNL è sicuramente centrale, poiché il Contratto Nazionale non prevede, almeno per ora, l’Alternanza Scuola Lavoro tra gli obblighi di un docente. Non è un caso che l’attività di tutoring venga retribuita con fondi appositi, per incentivare la partecipazione dei docenti. Il rifiuto di partecipare ai progetti di alternanza ha sicuramente anche una portata deontologica. È però importante chiedersi che ricaduta reale possa avere questa forma di lotta. Noi temiamo che l’effetto di tale azione possa non essere rilevante, per diverse ragioni. In primo luogo perché è improbabile in un contesto ideologico così colonizzato che i colleghi aderiscano in massa a un boicottaggio del genere e quindi, pur tenendoci fuori dalla questione, non riusciremmo ad incidere sul fenomeno in modo rilevante.
Inoltre il fatto che l’ASL sia divenuta parte integrante dell’Esame di Stato rende ancora più difficile un’adesione di massa tra i docenti a questo tipo di protesta. Sappiamo inoltre che essendo divenuta legge, essa sarà proposta come parte integrante della funzione docente nel prossimo contratto. Ciò non toglie che un sindacato conflittuale possa e debba indicare a iscritti e simpatizzanti la via per sottrarsi all’alternanza e in questo momento essa consiste in un rifiuto scritto di eventuali incarichi come tutor e/o di accompagnamento alle diverse iniziative.
Il problema reale è che questa risposta, in un contesto come quello descritto rischia di restare individuale e poco efficace, tanto quanto, paradossalmente, quella, scelta da altri docenti, di proporre percorsi di ASL che tengano i ragazzi il più possibile tra le mura scolastiche e che comportino elementi di innovazione didattica realmente legati all’acquisizione di abilità incentrate sul saper fare, che non si tramutino però in addestramento a competenze esecutive e che mantengano un rapporto vivo con i contenuti culturali di insegnamento: laboratori di giornalismo per la creazione di giornalini scolastici capaci di produrre mini-ricerche sociali, realizzazione di prodotti multimediali, ma anche ristoranti, pasticcerie, orti didattici nelle scuole professionali, attraverso le quali si rifletta sul valore sociale del lavoro, ambienti nei quali la produzione non avviene in azienda ma è interna alle strutture scolastiche, o percorsi di impresa simulata che non siano volti alla produzione diretta, come può essere, ad esempio, la creazione di una casa editrice e la scrittura e pubblicazione di un libro. Per quanto queste iniziative siano lodevoli e significative dal punto di vista pedagogico, esse rischiano di dare prestigio all’ASL, nascondendone i lati di sfruttamento più bieco, oltre a comportare un carico enorme di lavoro sostanzialmente non o poco retribuito per i docenti che lo svolgono.
Alla luce di queste considerazioni, riteniamo che qualsiasi azione che si svolga su un unico piano rischi di limitarsi alla mera testimonianza, tanto più che anche gli studenti non paiono dell’idea di un boicottaggio tout court dell’alternanza, peraltro impossibile in questo momento, visto che l’ASL risulta necessaria per essere ammessi all’Esame di Stato.
Pensiamo alle rivendicazioni, portate avanti anche da alcune formazioni politiche giovanili, per il riconoscimento di un salario agli studenti in alternanza. Questa iniziativa può essere per certi versi appoggiata, soprattutto come strumento di denuncia dell’ASL quale vero e proprio lavoro gratuito non pagato, nell’ottica di far emergere in modo sempre più palese le contraddizioni dell’alternanza. Non è però escluso che vi siano aperture sulla possibilità di un gettone di presenza per gli studenti in alternanza. A quel punto l’ASL diviene accettabile? La mera rivendicazione di un salario rischia di dare per scontato che, una volta pagati, la subordinazione degli studenti in alternanza al lavoro comandato in impresa possa apparire del tutto legittima. Anche la proposta di boicottare le aziende che non rispettano determinate condizioni in termini di sicurezza e diritti dei lavoratori e degli studenti in alternanza appare riduttiva. Questa è sostanzialmente l’impostazione della campagna lanciata dall’Unione degli Studenti (7), organizzazione dialogante con la CGIL, alla quale è legata organicamente sino dal 2006. La denuncia delle attività di alternanza che si traducono in vero e proprio sfruttamento è fondamentale ed ineludibile nell’ottica di far emergere le contraddizioni, (8) ma non possiamo attestarci su una posizione che si limiti a migliorare l’ASL differenziando le imprese buone da quelle cattive.
Altre realtà giovanili si stanno orientando verso “un’altra” alternanza, come nel caso dell’iniziativa del Centro Sociale Il Cantiere di Milano, che propone una Carta Etica dell’Alternanza, che, oltre a richieste scontate, come il fatto che l’azienda non sia stata protagonista di licenziamenti di massa, non venda armi, non sia luogo di discriminazioni, non paghi i dipendenti con i voucher, ecc., chiede anche che l’alternanza sia indirizzata agli interessi attuali dello studente, che la scuola segua passo passo l’intero percorso dello studente (richiesta, facciamo notare, in assoluto contrasto con l’ipotesi di un boicottaggio dei docenti) e, criterio più interessante, che il lavoro svolto dallo studente non tolga posti di lavoro a persone potenzialmente assumibili. (9)
In generale, riteniamo che le proposte illustrate fin qui, seppur di natura diversa, possano essere utili a gestire il presente e non rispondono in alcun modo ad una strategia di più lungo periodo volta ad un efficace rifiuto di questo modello formativo. Noi crediamo che non si possa agire su un unico piano, sindacale o studentesco che sia. È necessario agire dentro la scuola e nel mondo del lavoro coordinando le azioni di studenti, docenti e lavoratori delle aziende e degli enti in cui l’alternanza si svolge, questo anche e soprattutto in considerazione del ruolo cardine della ASL nel quadro ordoliberista europeo che abbiamo illustrato. Le forme di queste azioni vanno probabilmente trovate e calibrate nelle diverse situazioni, partendo dal presupposto che i lavoratori della scuola si devono alleare con i lavoratori dei luoghi dove l’ASL si svolge proponendo azioni di rifiuto e denuncia comuni. Ma tali azioni non possono avere una reale efficacia se non si fa anche un lavoro culturale riprendendo a ragionare sul tema dell’educazione, dell’educazione al lavoro e alla pratica da una prospettiva diversa da quella capitalistica e neoliberista. Non possiamo infatti arroccarci nella difesa di una concezione puramente teorica e astratta dell’apprendimento e della cultura, novelli sostenitori del ritorno a un’inaccettabile visione pedagogica gentiliana, oltreché allontanarci dalle migliori esperienze e teorizzazioni pedagogiche apparse nel corso di molti secoli: sarebbe come dimenticare che riflessioni provenienti anche dalla pedagogia di ispirazione marxista hanno contribuito a un rinnovamento profondo della scuola e che in queste esperienze abbia avuto un ruolo centrale il tema dell’educazione del lavoro, analizzato prevalentemente da Freinet. In questo senso è profondamente vero che l’educazione al saper fare e le esperienze di didattica laboratoriale abbiano contribuito, anche nel nostro paese, al superamento della scuola classista nata dalla riforma Gentile. Va ribadito, tuttavia, che la riflessione sulle metodologie didattiche e sulle impostazioni pedagogiche non può essere condotta in una dimensione avulsa dai rapporti sociali esistenti. La pedagogia del lavoro di Freinet mirava a fare della scuola un ambiente di formazione volto alla trasformazione dei rapporti sociali esistenti, non certo, come la didattica delle competenze, piegata all’alternanza scuola lavoro, a formare gli studenti ad essere riproduttori passivi dei meccanismi sociali vigenti. In questo senso andava anche il Movimento di Educazione Cooperativa che tanta importanza ha avuto per la trasformazione della didattica soprattutto nella scuola elementare (pensiamo all’opera di Rodari e Lodi) e che proprio a Freinet si ispirava, così come tutta quella fase così importante di trasformazione della pratica didattica e della teoria pedagogica che si è svolta tra gli anni ’60 e ‘70, da Barbiana a Danilo Dolci, per fare solo degli esempi importanti.
In questo senso una battaglia democratica fondamentale degli anni ‘70 è stata quella per il riconoscimento del diritto alla formazione nei luoghi di lavoro, che si basava sull’idea secondo cui il lavoratore ha diritto ad una formazione globale che non sia il semplice addestramento all’esecuzione di compiti relativi alla mansione che svolge, ma possibilità di apprendere per modificare la propria condizione sociale, ampliare la propria identità personale e i propri orizzonti di significato, pensare in modo critico e trasformativo il proprio ruolo nella società.
Se la battaglia nei decenni passati era per aprire alla formazione i luoghi di lavoro, oggi, in virtù del rovesciamento dei rapporti di forza, rovesciato è anche il rapporto tra formazione e lavoro: ridurre la scuola a mero apprendistato e avviamento al lavoro, preparando i giovani all’accettazione di un futuro di lavoratori precari, senza diritti e avvezzi al lavoro gratuito. In questo senso occorre ribattere ai sostenitori delle competenze e del “saper fare”, che le attività pratiche come strumento di apprendimento possono essere sperimentate con profitto solo nell’ambito formativo scolastico, come didattica laboratoriale unita alla riflessione sui contenuti teorici che si studiano, imprescindibili quali strumenti di creazione di identità e consapevolezza sociale; non certo nell’ambiente dell’impresa, dove la dimensione formativa è del tutto assente, senza dimenticare poi come la “riforma” Gelmini ha sensibilmente ridotto proprio le ore di laboratorio, specie negli istituti tecnici e professionali; inoltre, il taglio delle ore delle materie culturali nei Licei (esempio evidente la riduzione delle ore di Storia) e l’aumento del numero di alunni per classe riduce sensibilmente i margini a disposizione dei docenti per la sperimentazione di pratiche didattiche a carattere seminariale e laboratoriale.
In conclusione sembra chiaro che per rigettare l’ASL, così come la didattica per competenze e tutti quei corollari pedagogici che derivano dalla visione ordoliberista che caratterizza questa fase del sistema capitalistico, che fanno della scuola un laboratorio della condizione di sfruttato e un serbatoio di manodopera gratuita, è necessario formarsi, prendere consapevolezza, formare e informare, oltreché agire in modo strutturato mettendo insieme studenti e docenti e sensibilizzando i lavoratori dei luoghi dove l’ASL viene svolta perché essi stessi ne sono danneggiati, in termini di posti di lavoro e di qualità del lavoro, nella consapevolezza che non sarà una battaglia di breve periodo.
Note
1) La sua origine può essere collocata sia nel contesto scolastico delle “pedagogie per obiettivi”; ovvero quelle scuole che da Tyler in poi hanno cercato di organizzare l’educazione per obiettivi, intesi come comportamenti osservabili e misurabili, primo tra tutti il mastery learning e l’ambito prettamente aziendale della selezione del personale: nel 1973, infatti, McClelland introdusse il termine competenza in merito dell’opportunità di usare, per la selezione del personale, la valutazione appunto delle competenza dei candidati piuttosto che i test di intelligenza.
2) Attività di alternanza scuola lavoro. Guida operativa per la scuola, p. 37, pubblicato dal MIUR, nell’Ottobre 2015.
3) pp. 22-23
4) Comunicazione della Commissione [COM (2010) 2020].
5) Consultabile sui siti dell’UE http://ec.europa.eu/education/policy/strategic-framework_it, (2009/C119/02)
6) http://www.tecnicadellascuola.it/item/28084-alternanza-scuola-lavoro-i-percorsi-formativi-fra-pulizia-dei-bagni-e-12-ore-di-volantinaggio.html
7) http://www.unionedeglistudenti.net/sito/formati-non-sfruttati-al-via-la-campagna-sullalternanza-scuola-lavoro/
8) Si veda, ad esempio l’articolo pubblicato sul “Fatto Quotidiano” e rilanciato da Orizzonte Scuola http://www.ilfattoquotidiano.it/2017/03/06/alternanza-scuola-lavoro-la-denuncia-degli-studenti-sfruttati-per-pulire-i-bagni-dei-ristoranti-e-fare-volantinaggio/3422124/ che raccoglie le denunce lanciate proprio dall’UDS
9) http://www.cantiere.org/18699/alt-quale-alternanza-scuola-lavoro/
Fonte
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