di Michele Giorgio – Il Manifesto
«I tentativi dell’Italia
di esercitare pressione sull’Egitto per la brutale uccisione del
ricercatore Giulio Regeni sono ostacolati dalla concorrente
preoccupazione per la sicurezza nazionale: ottenere la cooperazione del
Cairo in Libia». I colleghi del Guardian già il 16 maggio del 2016, in un articolo dal titolo «Realpolitik hinders hunt for killer of Italian researcher in Egypt»,
ci raccontavano il finale, al quale abbiamo assistito tre giorni fa, del
film narrante la crisi diplomatica tra Italia ed Egitto. Una crisi culminata
nel richiamo del nostro ambasciatore al Cairo e segnata dai rozzi
tentativi di depistaggio messi in piedi dai servizi segreti egiziani
indicati da più parti come i responsabili di quel crimine.
Protagonista del finale di questo film non poteva che essere
Angelino Alfano, notoriamente avvezzo a ogni compromesso e cambio di
casacca e perciò il più idoneo ad ignorare, in nome degli «interessi
nazionali», le aspettative della famiglia Regeni e ad archiviare le
pressioni dei tanti italiani che chiedono verità e giustizia per Giulio. E infatti il Guardian
spiegava che «L’Italia e i suoi alleati che sostengono il governo di
Fayez el-Sarraj in Libia appoggiato dall’Onu, sono impantanati in una
lotta complessa in cui l’alleanza dell’Egitto è vista come chiave del
successo del nuovo governo libico».
«Il ministero degli esteri dell’Italia – aggiungeva il quotidiano
britannico – ha rifiutato di commentare il presunto appoggio dell’Egitto
alle forze di Tobruk», guidate dal generale Khalifa Haftar, «ma lo
scontro (in Libia) incarnerà i passi successivi che Roma prenderà sulla
questione di Regeni». Il Guardian vedeva lontano.
Da allora di cose ne sono accadute tante in Libia e il potere di Khalifa
Haftar, appoggiato sin da subito dal presidente egiziano Abdel Fattah el
Sisi (e da alcune monarchie del Golfo), si è fatto persino più
decisivo, fino al punto da rivolgere minacce dirette alla missione
italiana volta a fermare le partenze di gommoni e battelli con a bordo i
migranti diretti verso l’Europa.
Agli occhi dell’Italia el Sisi è in grado di orientare le
scelte di Haftar e di persuaderlo a non ostacolare i piani del governo
Gentiloni. Pesano e non poco anche le elezioni politiche in Italia nel
2018. Angelino Alfano ha fatto il lavoro sporco però la
responsabilità della normalizzazione delle relazioni con el Sisi è di
tutto il governo, a partire dal presidente del consiglio.
Messo da parte l’assassinio di Giulio Regeni, adesso Roma si
attende che el Sisi cominci a favorire in Libia i disegni italiani oltre
a quelli dell’Egitto. Il Cairo, non si dovesse raggiungere
l’unità nazionale in Libia punta in alternativa alla creazione di un
protettorato egiziano in Cirenaica da affidare all’uomo forte Haftar
disposto a combattere contro jihadisti e milizie islamiste armate e
impegnato a garantire la stabilità lungo i 1.200 chilometri di frontiera
condivisa tra i due Paesi, a cominciare dallo stop al traffico di armi
diretto agli affiliati dell’Isis nel Sinai.
Stabilità che vorrebbe dire anche il ritorno massiccio di lavoratori
egiziani in Libia, o in parte di essa, che attraverso le proprie rimesse sarebbero in
grado garantire la sopravvivenza di parecchie decine di migliaia di
famiglie in patria, come avveniva nell’era Gheddafi.
Per questo il Cairo da tempo riversa tutto il suo appoggio militare e
diplomatico su Haftar e garantisce il flusso dei finanziamenti al
generale libico dagli Emirati e da altre petromonarchie. Un
interrogativo è d’obbligo. El Sisi, dopo aver incassato la fine della
crisi diplomatica e il ritorno al Cairo dell’ambasciatore italiano, sarà
davvero disposto a fare in Libia ciò che si attende Roma? È una grande scommessa considerando il personaggio e il governo Gentiloni rischia di perderla dopo aver sacrificato la verità su Giulio Regeni.
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