La vicenda di Rimini, ormai nota
nel suo contorno di pestaggi e stupri, potrebbe aiutare la costruzione
di qualche riflessione seria su migranti, politica delle popolazioni,
devianza e stato sociale. Una riflessione, diciamolo con parole
terra terra, di quelle cambiano le politiche reali. Non accadrà,
perlomeno nell’immediato. Perché i fatti, finché sono caldi, sono
ostaggio dei toni forti dei media, tutti giocati nella logica
dell’audience, e dell’abituale delirio da social. Dove l’impotenza, di
una buona parte di paese ancora dentro la crisi, trova un riscatto
simbolico nelle richieste di punizione o espulsione di qualsiasi
soggetto definito, a vario titolo, come extracomunitario.
Nelle società dell’1%
l’inclusione è infatti una pratica delle classi agiate. Il denaro,
elemento simbolico dell’accettazione nelle classi sociali, è
notoriamente apolide e richiede naturalmente l’accettazione del diverso.
Soggetto che viene accettato nelle classi agiate, quelle che fanno vita
globale, qualunque sia la sua provenienza purché dotato di una robusta
linea di credito. Nel resto della società, dove gli spazi di
ricchezza si riducono da una generazione, il diverso è semplicemente
colui che è visto come qualcuno che accelera questa erosione degli
standard di vita. E tanto più questa sensazione è forte tanto
più si alza, sui social media che si fanno giuria popolare elettronica,
la richiesta di pene spettacolo, riabilitando una spettacolarità della
pena pre-moderna già sperimentata, in forme stavolta concrete, dallo
stato islamico. Certo, le bande notturne e l’affollamento dei social
sono il riflesso, entrambi, di territori come tali disabitati e questo è
il tratto antropologico che li unisce.
Entrambe le vicende - quella di
un gruppo di immigrati che trova coesione nella sopraffazione altrui e
quella dei social che cercano di costruire simbolicamente i termini di
una punizione tanto più adeguata tanto più simile all’esecuzione - sono
ben conosciute. Si tratta di fenomeni classici quando si
guarda al di fuori del nostro paese. Sui nostri territori si tratta
della disseminazione di singoli e di piccoli gruppi che trovano un
senso, nel complesso e per i propri membri, nel marchiare i corpi altrui
mentre, sui social, abbiamo una convergenza, a sciame, di singoli e
piccoli gruppi che trovano un senso nel dibattito infinito sulla misura
della pena adeguata.
E mentre marchiare i corpi da
parte di gruppi senza morale (o, meglio, con una propria morale interna)
caratterizza un modo di vivere e significare il territorio, la
costruzione sociale del consenso verso la pena, che oggi passa per i
social media, è un modo, di diverso segno ma altrettanto identitario, di
significare il mondo. In questo contesto i media hanno gioco
facile a significare i gruppi che, in vario modo, aggrediscono e
feriscono come “il branco”. Questa connotazione di “branco” per
i gruppi aggressivi, chi si è occupato di rappresentazione
giornalistica della devianza o dei fenomeni criminali lo sa benissimo, è
piuttosto datata, da ben prima dei fenomeni migratori verso l’Italia e
funziona: fa audience ed è sempre stata efficace nel rappresentare un
nuovo tribalismo sui territori. Solo che tra il nuovo tribalismo
giovanile delle metropoli anni ’80 appena uscite dal fordismo, e
il tribalismo con lo smartphone legato alle recenti ondate migratorie ci
sono territori, e panorami sociali, neanche più riconoscibili tra loro.
Una funzione della cronaca nera è quello di servire come registrazione delle mutazioni sociali.
Bene, un fatto simile avvenuto a Rimini ancora dieci anni fa sarebbe
entrato nelle categorie, e nei protagonisti materiali, della narrazione
dell’Emilia ricca che si annoia. Oggi tocca il nesso che sta tra
immigrazione, insicurezza sociale e impoverimento materiale e
immateriale di questi territori. La lunga crisi ha tolto certezze a
chiunque. Il significato della cronaca nera si ridisloca.
Certo, rispetto alle cronache
anche recenti abbiamo un gruppo a provenienza etnica mista. Finora
protagoniste erano state bande etnicamente compatte: dai lontani tempi
degli albanesi, a quelli dei romeni fino alle bande di nigeriani (ottime
in Sicilia per la manovalanza della mafia). Ma questo
interessa poco, anzi nulla, alla stragrande maggioranza dell’opinione
pubblica che vede i fenomeni senza capirli. Anzi, col timore che il
fatto di capirli comporti la mitigazione del desiderio di forca. Eppure
l’emergere di bande miste significherebbe anche una ristrutturazione di
relazioni sociali nel territorio che toccano il piano, invisibile e
microfisico della bande. Ma interessa a qualcuno? Tutto ciò che non è
marketing politico, appalti, capitale di relazioni o voti non tocca la
sfera di quello che viene impropriamente chiamato “la politica”. La
linea su questi temi la quindi fanno i social, in questa operazione
digitale di ristabilimento simbolico, attraverso richieste di politiche
draconiane a ogni fatto di cronaca, dei torti veri o presunti subiti
durante l’interazione quotidiana.
Un branco comunque non può che
avere un capo e questo è stato individuato in Guerlin Butungu, 20 anni,
congolese. Nella rappresentazione mediale la coesione criminale del
branco esiste fino a quando non interviene lo stato. Una
poliziotta, sul Corriere, si fatta è avanti nel testimoniare che i lupi,
quelli del branco, tornano agnelli una volta che il gruppo è stato
sciolto dallo stato. Butungu è un capro espiatorio di primissima
qualità. Giova ricordare che il capro espiatorio non è, come da luogo
comune, l’innocente che viene sacrificato in un qualche complotto. E’
piuttosto una persona abietta, colpevole certo di un delitto spregevole
il cui sacrificio (materiale o simbolico) sortisce due effetti: il
ristabilimento simbolico dell’ordine sociale, una volta sacrificato il
colpevole, e la certificata superiorità morale di chi opera il
sacrificio. La persona indicata è tanto più capro espiatorio visto che
Butungu ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Dal
punto di vista simbolico un dono ripagato con uno sfregio. Qualsiasi sia
stata le dinamica, tra i quattro del gruppo, degli stupri di Rimini,
sul capro espiatorio puro Butungu si costruisce così la legittimità
giuridica e morale dell’intervento dello stato, degli operatori di
polizia e dei giornalisti che, in diretta, non esitano a parlare di
branco. Nel processo di ristabilimento dell’ordine, internando il capro
espiatori, sui social è poi polemica infinita sul tipo di simbolico da
attribuire alla pena.
Da notare come i media abbiano
dato risalto alla mediazione tra padre marocchino e capitano dei
carabinieri necessaria per l’autoconsegna dei componenti minorenni del
“branco”. Questa mediazione restituisce, simbolicamente quando
spettacolarizzata, legittimità al padre extracomunitario, con precedenti
penali, nel momento in cui consegna i figli al carabiniere. Sono atti
ritualmente necessari non solo perché è stato compiuto un delitto ma
anche per il disordine cognitivo presente in questo atto. Lo stupro
sulla spiaggia, una zona di frontiera, a un trans, una sessualità di
frontiera, l’assoluto nonsense e la piena improduttività del gesto
affermano un disordine cognitivo di un gruppo così forte che deve essere
riparato socialmente. L’accordo tra l’extracomunitario padre
microcriminale e il carabiniere, che si comporta come un padre di
famiglia, almeno nelle parole del padre marocchino, si collocano in un
contesto di riparazione di questi testi. Socialmente parlando il
territorio continuerà a vivere le dinamiche che hanno prodotto questo
genere di devianza (il termine è generico e scivoloso ma serve per
capirsi) ma, in compenso, sul piano simbolico, quello che genere
consenso sui piani di comunicazione, l’ordine pare ristabilito.
Qui deve essere chiara una cosa. Questi ragazzi hanno compiuto gesti atroci. Su persone inermi.
Ma non sono loro gli indifendibili. E’ indifendibile chi fa di tutto
per peggiorare la situazione, giocando sul simbolico, incapace di
intervenire nella società amplificando così gli effetti di criticità
sociale presenti in atti come questo. Chi costruisce forche digitali,
ossessionato dal prigionismo come surrogato della giustizia, come
elemento compensativo delle proprie paure. Chi, nei media si
alimenta di questi fenomeni facendone audience. Chi fa carriera pubblica
sulla caccia all’animale. Chi fa spettacolo (si fa per dire) politico
chiedendo castrazioni chimiche ed espulsioni di massa. Chi
taglia i servizi ubriacandosi di costruzioni della realtà, operate dagli
uffici stampa, dove si può riconoscere nei comitali locali per l’ordine
pubblico. Per non parlare di chi, senza una reale idea di società,
indica l’immigrazione come causa.
L’immigrazione non è un fenomeno
romantico è una scommessa: per chi arriva e per le società che fanno da
punto di approdo. La nostra società sta invecchiando, non esiste
ripresa economica permanente senza un ringiovanimento complessivo della
società. E ringiovanire la società con l’immigrazione, per quanto
necessario, comporta problemi di ogni genere in Germania, paese più
attrezzato del nostro, figuriamoci in Italia. Ad ogni fatto
come quello di Rimini alla fine si imbocca invece sempre la strada
sbagliata: attaccare i flussi migratori, dimenticando che dall’Italia
causa crisi fuggono anche gli stranieri. Oltretutto dimenticando che
oggi non esistono società sigillate. Il problema è invece un altro: come
cresce la società, in strutture, servizi e intervento pubblico di
fronte a un tessuto sociale che produce fenomeni di questo tipo. E come
si interviene “dopo”, in una rete di recupero che non sia quella dei
Muccioli del XXI secolo. Una rete di recupero che valorizzi la
formazione e le economie pubbliche di questo recupero che non sia
assoggettamento del soggetto finalmente addomesticato. Producendo un
know-how collettivo e dei posti di lavoro contenenti un forte capitale
sociale. Va spezzato il legame, che si è di nuovo rinsaldato con
dinamiche postmoderne, tra miseria e richiesta di forca. Un legame che
tanto più si legittima tanto più produce nuova miseria.
Il “branco” di Rimini porta così
due vuoti a confronto: quello del gruppo che ha marchiato persone
inermi e quello dei social in perenne trip da richiesta di forca. Ma è
il terzo vuoto che è il più pericoloso. Quello di istituzioni pubbliche
abbattute dalle loro stesse politiche di austerità, che
reiterano il mito della “sicurezza” perché non sono in grado di
attivare, o sostenere, le necessarie reti sociali che servono da
ammortizzatore di questi fenomeni.
Per Senza Soste, nique la police
8 settembre 2017
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