Tra Matteo Renzi e Licio Gelli (tappa intermedia, Silvio Berlusconi) c’è stata una costante lunga settant’anni: il bombardamento sistematico delle (poche) istituzioni repubblicane funzionanti con un briciolo di autonomia dal potere politico e/o partitico. Un processo lunghissimo, che sta ora arrivando al risultato finale.
La Banca d’Italia era stata fin qui una delle istituzioni più rispettate, tanto da esser considerata negli ultimi 30 anni una vera e propria “riserva della Repubblica”. Ovvero una fucina di funzionari di altissimo livello che potevano – in caso di difficoltà serissime nella gestione dello Stato (e di casi ce ne sono stati molti) – essere promossi a cariche governative di altissima responsabilità. Un elenco non lunghissimo, ma decisamente pesante, con nomi come Guido Carli, Carlo Azeglio Ciampi, Domenico Siniscalco; senza ovviamente dimenticare quel Mario Draghi che in molti – ma non in Italia – vorrebbero seduto a Palazzo Chigi.
Solo un idiota, un massone o un criminale – in uno Stato liberale preoccupato di sopravvivere – può dedicare tempo ed energie a smontare la credibilità dei vertici della Banca d’Italia. Il Pd renziano lo fa da almeno tre anni con una pervicacia al limite della persecuzione.
Sia chiaro. Dal nostro punto di vista Bankitalia è oggi una filiale della Bce, un garante dei vincoli monetari e finanziari fissati dai trattati che tengono in vita l’Unione Europea. Dunque un’istituzione che svolge una funzione pesante del determinare le politiche neoliberiste decise a Bruxelles e Francoforte, ma applicate qui come in altri paesi.
Sembra dunque incomprensibile che “il” partito di governo che fa dell’“europeismo” l’unico straccio sventolabile sia impegnato a minare proprio l’istituzione italiana più efficiente del dispositivo Ue.
Stiamo alla cronaca. Ieri il Procuratore della Repubblica di Arezzo, Roberto Rossi, è stato “audito” dalla Commissione parlamentare di indagine sulle banche presieduta da Pierferdy Casini e voluta fermamente da Renzi. Il procuratore ha portato botti di benzina sotto la pira su cui il duo Renzi-Boschi sogna ancora di bruciare Ignazio Visco, appena riconfermato come Governatore della Banca d’Italia dal presidente del consiglio piddino Paolo Gentiloni.
Si parlava di Banca Etruria e l’accusa a via XX Settembre è stata quella di “omessa o scarsa vigilanza”. Non è stato mai difficile, per gli uomini di Visco, dimostrare il contrario, visto che già nel 2013 (prima che Renzi entrasse a Palazzo Chigi trascinandosi dietro Maria Elena) scriveva: “si ritiene che la Popolare (Banca Etruria aveva quello status, ndr) non sia più in grado di percorrere in via autonoma la strada del risanamento”. Insomma: che o porta i libri in tribunale o si fa assorbire da un altro istituto di “elevato standing”.
Sulla porta, pronta a ingoiare Etruria, c’era un solo pretendente: la Popolare di Vicenza, guidata da Gianni Zonin, che non era affatto in condizioni migliori.
Tanto è bastato al procuratore Rossi per giudicare “strana” la posizione di Bankitalia, dipingendola come un suggerimento implicito all’allora cda di Etruria (in cui sedeva il padre della Boschi come vicepresidente) di “consegnarsi” ai vicentini.
E tanto è bastato ai renziani di stretta osservanza per scattare come un sol uomo in difesa del capo, della Boschi e di suo padre: “l’avevamo detto, noi!”.
Per la cronaca, bisogna anche sapere che un anno dopo Bankitalia rimproverava al cda di Etruria non di non essersi venduta ai veneti, ma di “non aver portato all’attenzione dei soci l’unica offerta giuridicamente rilevante”. Tradotto: i vertici di Etruria sapevano benissimo di essere tecnicamente falliti o quasi, che nessuno li voleva assorbire, e ciò nonostante nemmeno avvertivano i soci che un’offerta – per puzzolente che potesse essere – c’era. Quindi dritti verso il baratro, senza cercare neanche un’alternativa. Questo sì che è davvero “strano”...
Che si tratti di un “attacco politico” a Bankitalia è chiaro. Tutti fanno notare che il procuratore Rossi è stato consulente della Presidenza del consiglio fino a due anni fa. Insomma, l’accusatore subliminale di Visco era collaboratore di Renzi. Più che una coincidenza, un incidente...
Non ci addentreremo oltre nei contorti meandri della cronaca, anche per manifesta impossibilità di verificare le reciproche contestazioni. Ma ci appare chiaro che sulla vicenda delle banche fallite – che hanno tra l’altro truffato i propri correntisti rifilandogli obbligazioni non garantite spacciandole come “super-sicure” – si stia consumando uno scontro tra poteri piuttosto diversi e con riferimenti praticamente opposti.
Da un lato c’è l’istituzione tecnicamente più autorevole, coerente con la struttura “europea” che noi (nella nostra modestia) combattiamo. Dall’altra un grumo di interessi personali, familiari, massonici, locali, che per un miracolo di equilibri stranissimi è stato per tre anni ai vertici politici dello Stato e lì vorrebbe tornare presto, anche in coabitazione con Berlusconi e naturalmente senza dimenticare Verdini. E che pur di riuscirci è disponibilissima a distruggere quel poco che resta di “istituzioni credibili” in questo paese (dopo l’Iri, l’Istat, l’università, la scuola, la sanità, Alitalia, il trasporto pubblico, il sistema previdenziale e chi più ne ha più ne metta). Una disposizione distruttiva condivisa spesso, fin qui, proprio con quell’Unione Europea ordoliberista impegnata a distruggere il “modello sociale europeo”. Ma che gli si contrappone quando quella “livella” arriva a toccare “la robba mia”, quei piccoli anfratti oscuri entro cui un certo ceto politico-affaristico si riproduce e arricchisce.
E’ la storia della fogna italica, immutata nella struttura mentale, ma con qualche spin doctor più aggiornato.
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