“Il cambiamento” non arriva, dunque si prepara “la svolta”. La giornata di ieri, per la maggioranza di governo, potrà forse essere ricordata come quella in cui l’incrinatura è diventata palese.
Che il movimento Cinque Stelle in versione Di Maio potesse continuare a lungo a vedersi dettare l’agenda dal socio scomodo Salvini, perdendo punti nei sondaggi e credibilità nella propria base, era naturalmente impossibile. “La svolta” è avvenuta però solo quando “il Ruspa” ha pianificato una vera e propria invasione di campo, sostenendo la linea degli inceneritori alla vigilia del vertice di governo fissato nel capoluogo della “terra dei fuochi”. Sotto casa Di Maio, in pratica.
Cedere ancora una volta avrebbe significato arrendersi allo strapotere del nordista travestito da “itagliano”, oltre che portatore degli interessi del padronato nazionale, schiacciato sui mercati dallo strapotere delle multinazionali (nonostante un costo del lavoro ormai da terzo mondo, o da fascia bassa dell’Europa a 28), gonfio di liquidità ma restio ad investire “in patria”, semmai pronto a delocalizzare a Est.
Dunque la linea di demarcazione è stata tracciata e, per una volta difesa, con ostinazione. Il tutto nel bel mezzo di manifestazioni antigovernative, mobilitazione delle truppe cammellate pro-Di Maio e pro-Salvini, con tanto di “contraddizioni in seno al popolo”, che hanno riempito le strade di Napoli e Caserta.
Si capisce dunque che i 20 deputati grillini che hanno sottoscritto un documento per pretendere emendamenti sostanziali al “decreto sicurezza” (che sta per andare in votazione alla Camera) non sono dei “pericolosi dissidenti interni”, ma una manovra diversiva che deve mettere in allarme l’invadente alleato di governo. Proprio sul suo terreno.
E’ nella logica delle cose di potere. I Cinque Stelle, forti del loro 30% il 4 marzo, hanno preteso per sé ministeri fondamentali per realizzare una linea di politica economica in qualche misura diversa dal recente passato (Lavoro, Sviluppo economico, Infrastrutture, ecc). Ma sono tutte postazioni da cui – se anche riuscissero a mettere in campo un’idea vincente, cosa che non si è ancora vista – producono risultati sul medio-lungo periodo. Qualche anno, diciamo, se tutto va bene.
Al contrario, Salvini può giostrare mediaticamente un ministero in cui non mette materialmente mai piede, ma da cui fa partire quotidianamente uno sgombero, un blocco di navi, una carica di polizia. Cose che danno un senso di “governo del fare” anche se, in effetti, si tratta di cazzatine a costo zero, di breve durata anche sul piano comunicativo (ogni giorno, non per caso, Matteo 2 se ne deve inventare una...).
Fin qui tutto questo è bastato a fargli raddoppiare, nei sondaggi, il risultato già eccessivo raccolto nelle elezioni politiche. Ma l’unico dispositivo istituzionale che potrebbe effettivamente produrre risultati disastrosi – per quanto “decisionisti” – è il “decreto sicurezza”. Altro non è stato fatto né pensato. Quindi minacciare rotture su questo terreno significa, per i grillini in versione Di Maio, compensare i danni subiti nel rapporto con le fasce sociali che li hanno votati sperando in un “cambiamento”. La risposta del lumbard è stata ovviamente nel solito stile: “Il dl sicurezza serve al Paese e passerà entro il 3 dicembre o salta tutto e mi rifiuto di pensare che qualcuno voglia tornare indietro”.
La “sintesi dell’arrotino” (grazie a Blob…) è stata quindi semplice: «Tutto finito, se il contratto di governo è a rischio». Da oggi in poi, simul stabunt, simul cadent.
Esce dunque allo scoperto l’impossibilità concreta di andare avanti a lungo per una coalizione che socialmente ha basi profondamente diverse. Al di là del gesuitismo democristiano di Di Maio, infatti, “trovare la quadra” tra interessi sociali contrastanti è un’impresa per cui questa “classe politica” è palesemente inadatta. Anche perché non sembra possibile garantire profitti a un sistema di imprese non troppo avanzato (complessivamente, ma con isole di grande capacità innovativa, come testimonia il bilancio positivo dell’import/export tecnologico) e contemporaneamente restituire briciole di reddito alle fasce sociali marginali rispetto al cuore della produzione.
Una analisi fredda, basata sui fondamentali economici e sociali, spazza via rapidamente le stupidaggini politiciste (“tutti fascisti”, per dirne una) e consente di vedere le linee di frattura in quello che fin qui è stato presentato come un muro invalicabile supportato dal “60% di consensi”. Se nel muro ci sono – e si individuano – le linee di frattura, si può lottare per farle esplodere; altrimenti si può anche restare a casa e sparare maledizioni dalla tastiera...
La seconda notizia rilevante di ieri viene da un altro personaggio tipico del demi-monde politico “itagliano”: Antonio Tajani, giunto miracolosamente fino alla presidenza del Parlamento europeo. Come è stato notato, l’esponente di Forza Italia ha anticipato la sua facile profezia: “Governo Lega-FI dopo le Europee”.
Se i sondaggi valessero seggi in Parlamento, non ci sarebbe problema, anche se il 32,7 della Lega – secondo il lancio Swg di ieri – pur sommato al 7,4% dei berlusconiani, non garantirebbe comunque una maggioranza. I pesi nell’attuale Parlamento sono infatti assai diversi, e il vecchio centrodestra (Lega+FI+FdI) mette insieme appena 261 deputati e 137 senatori. Troppo pochi per fare un governo (316 e 156, rispettivamente); altrimenti l’avrebbero già fatto il 5 marzo.
Da qui in poi si va nel campo delle ipotesi fantapolitiche (se si dovesse prendere sul serio le autocertificazioni “antifasciste” degli altri partiti), ma perfettamente realizzabili sotto la spinta congiunta dei “mercati”, della Troika e di Mattarella (che alcuni boatos danno come propenso a non firmare una legge di bilancio che sfora i parametri e dunque anche gli obblighi previsti dell’art. 81 della Costituzione rivista dalla Ue).
Quindi, o si imbarcano altre formazioni, oppure si va alle elezioni anticipate...
Non si può far conto sui grillini dissidenti (al Senato sono appena due, e anti-leghisti). Dunque parlare di un governo diverso dall’attuale significa sapere – “aver subodorato” – che il Pd è imbarcabile, e anche la pattuglia dei radicali. In chiave “europeista”, per forza di cose; “salvataggio della Patria” e via chiosando, a seconda delle diverse “sensibilità”. Con Minniti segretario sarebbe persino facile, qualche problema di “narrazione” in più se dovesse prevalere Zingaretti.
Insomma: il gioco è far fuori i grillini. Su questo sono tutti prontissimi.
E’ uno scenario politico da tener presente, facendo opposizione di classe. Perché il movimento Cinque Stelle, una volta fuori dal palazzo, farebbe fatica ad accreditarsi nuovamente come “anti-sistema”. Ma resta l’esigenza di massa di poter avere un “delegato politico” – magari persino confusionario e poco affidabile – fuori e contro l’establishment. E dunque resta la domanda politica di una alternativa radicale nel programma politico ed anche nel linguaggio.
E’ il problema posto – a tutti – dall’emergere improvviso di momenti di lotta imprevedibili, come quello dei gilets jaunes in Francia. Nato su un problema “unificante” – e interclassista, ma fino ad un certo livello di reddito – e non su un sistema di valori. O, marxiamente, su un interesse, non sulle opinioni.
Saremo all’altezza di questa sfida?
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