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29/08/2019

Alcune semplici riflessioni sugli scrittori professionisti

di Mauro Baldrati

X è uno scrittore. Uno scrittore famoso. Di lui abbiamo letto un paio di libri. Ci hanno entusiasmato. Che stile. Semplice e innovativo. Preciso. E che storia. Che personaggi. Reali, interessanti. Opere perfette. Ci hanno stimolato il desiderio di altre letture.

Così, qualche mese dopo, in un supermercato notiamo un nuovo libro. Perché essendo X famoso, e pubblicato da un editore di quelli potenti, i suoi libri vanno nei supermercati e negli autogrill. Bella copertina. Bel titolo. Intrigante. E recensioni. Tutte entusiaste. Un gradimento universalizzato. Lo compriamo di getto. Senza pensarci. Ci spinge l’eco delle passate letture. Non vediamo l’ora di rientrare a casa per iniziare questa nuova meraviglia.

Ma, non appena abbiamo scaricato la spesa, e ci siamo messi comodi in poltrona, dopo una decina di pagine non scatta nessuna madeleine. Il ritmo non funziona. È ripetitivo. E dopo un altro pacchetto si mette male. Sembra che attinga dagli altri libri, le soluzioni narrative, i dettagli, ma è merce usata. Che delusione. E rabbia pure. Tempo e soldi sprecati.

Ma impariamo. In fretta. Mai più fidarsi. Mai più a scatola chiusa. Uno scrittore, dopo un po’ di anni di successi, di interviste, di presentazioni, può rifilarci dei pacchi micidiali. Il suo magazzino di creatività si è svuotato, così attinge da idee già consumate, da personaggi che diventano logori, da storie che si ripetono. Perché è uno scrittore famoso. Un professionista. È troppo impegnato a gestire l’attività, con annesse pubbliche relazioni. È dura essere sempre “in”. Mai un cedimento, mai perdersi. Così resta poco tempo per coltivare la ricerca. Le energie creative vengono mangiate dalla necessità di scrivere e poi pubblicare e poi vendere un nuovo libro. Perché deve sempre esserci un nuovo libro. Per non sparire.

Se poi lo scrittore professionista non è “molto” famoso la situazione cambia di poco. Anzi, può essere persino più impegnativa e dispersiva. Deve inventarsi nuove attività. Attività collaterali. Tradurre, se può. Articoli, se può (ma non è facile, letteratura e giornalismo non sono molto interattivi – salvo quando un giornalista famoso scrive un romanzo). Qualche corso di scrittura.

Ma se la scrittura attinge dalla vita, per raccontarla, capirla, rappresentarla (e in alcuni casi cambiarla), e la vita invece si sagoma, si configura in funzione della scrittura, come si esce da questa spirale? Magari i più famosi diventano addirittura dei manager, dirigono enti, associazioni, eventi editoriali, e quando pubblicano le nuove opere, allora quanti déjà vu, e quanto esibizionismo di bello stile, quanto professionismo.

Dov’è finito quel coraggio errante di quando erano giovani, e curiosi, e disponibili, spinti dalla sfida ma anche da quell’eleganza naturale, ancestrale, che permetteva loro di osare ma anche di lavorare la materia, di trasformarla e controllarla? Come riportare le cose alla loro naturale, “vecchia” normalità?

La soluzione ci sarebbe. Sta nel rimettere le cose al loro posto. Restituire alla scrittura la sua funzione di servizio rispetto alla vita. Privilegiare la vita dunque, in tutti i suoi aspetti. E ritrovare la necessaria umiltà, il necessario rispetto. Spezzare la catena dell’introvertibilità che fa implodere l’energia in funzione di un meccanicismo seriale che muta facilmente in chiusura e arroganza.

Il lavoro manuale. È una cura che funziona. Combatte l’insonnia cronica dello scrittore professionista, perché lo costringe ad alzarsi presto per andare al lavoro. Lo costringe a interagire con persone che non siano altri scrittori o agenti o giornalisti o editori o lettori. Sente il sangue che scorre fatto di tessuto vero, e non di inchiostro elettronico. Sente i propri muscoli che lavorano. Il proprio cervello che si concentra su cose concrete. I pomodori per esempio. Raccogliere pomodori in estate, coi lavoratori immigrati. Oppure lavorare nei cantieri, coi badili o con le macchine operatrici. Tutt’altro che semplice. Tutt’altro che banale. Un lavoro impegnativo a stretto contatto con gli operai immigrati. E quindi conoscerli, parlarci, litigarci, scoprirne pregi e difetti e contraddizioni, superando così l’inquadramento degli stessi in un’entità romanticizzata che li considera come figure idealizzate e non di carne e sangue e miserie e gioie e violenze e pregiudizi come tutti. Oppure dedicarsi a lavori di falegnameria, o di carpenteria, o di sartoria, opere di taglio artigianale, lavorando con le mani, con la segatura e la limatura, con le forbici. È il principio dell’alternanza. Lavoro intellettuale e lavoro manuale, come pare facessero durante un certo periodo della rivoluzione culturale in uno dei regni del Male Assoluto, la Cina rivoluzionaria maoista. Nessuno si isolava sulle torri, nessuno si “elevava” sugli altri. Nessuno si rinchiudeva in un marketing di supposto privilegio, in realtà di svilimento delle proprie risorse creative per una misera paga di illusioni.

Così facendo il famoso scrittore X pubblicherebbe di meno, ma pubblicherebbe meglio. Opere vere, opere vissute, generate da quelle forze motrici che sono l’umiltà e la curiosità. Il piacere di darsi agli altri, di scoprirli, rifiutando ogni forma di inutile e infelice snobismo.

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