di Mauro Baldrati
X
è uno scrittore. Uno scrittore famoso. Di lui abbiamo letto un paio di
libri. Ci hanno entusiasmato. Che stile. Semplice e innovativo. Preciso.
E che storia. Che personaggi. Reali, interessanti. Opere perfette. Ci
hanno stimolato il desiderio di altre letture.
Così, qualche mese dopo, in un supermercato notiamo un nuovo libro.
Perché essendo X famoso, e pubblicato da un editore di quelli potenti, i
suoi libri vanno nei supermercati e negli autogrill. Bella copertina.
Bel titolo. Intrigante. E recensioni. Tutte entusiaste. Un gradimento
universalizzato. Lo compriamo di getto. Senza pensarci. Ci spinge l’eco
delle passate letture. Non vediamo l’ora di rientrare a casa per
iniziare questa nuova meraviglia.
Ma, non appena abbiamo scaricato la spesa, e ci siamo messi comodi in poltrona, dopo una decina di pagine non scatta nessuna madeleine.
Il ritmo non funziona. È ripetitivo. E dopo un altro pacchetto si
mette male. Sembra che attinga dagli altri libri, le soluzioni
narrative, i dettagli, ma è merce usata. Che delusione. E rabbia pure.
Tempo e soldi sprecati.
Ma impariamo. In fretta. Mai più fidarsi. Mai più a scatola chiusa.
Uno scrittore, dopo un po’ di anni di successi, di interviste, di
presentazioni, può rifilarci dei pacchi micidiali. Il suo magazzino di
creatività si è svuotato, così attinge da idee già consumate, da
personaggi che diventano logori, da storie che si ripetono. Perché è uno
scrittore famoso. Un professionista. È troppo impegnato a gestire
l’attività, con annesse pubbliche relazioni. È dura essere sempre “in”.
Mai un cedimento, mai perdersi. Così resta poco tempo per coltivare la
ricerca. Le energie creative vengono mangiate dalla necessità di
scrivere e poi pubblicare e poi vendere un nuovo libro. Perché deve
sempre esserci un nuovo libro. Per non sparire.
Se poi lo scrittore professionista non è “molto” famoso la situazione
cambia di poco. Anzi, può essere persino più impegnativa e dispersiva.
Deve inventarsi nuove attività. Attività collaterali. Tradurre, se può.
Articoli, se può (ma non è facile, letteratura e giornalismo non sono
molto interattivi – salvo quando un giornalista famoso scrive un
romanzo). Qualche corso di scrittura.
Ma se la scrittura attinge dalla vita, per raccontarla, capirla,
rappresentarla (e in alcuni casi cambiarla), e la vita invece si sagoma,
si configura in funzione della scrittura, come si esce da questa
spirale? Magari i più famosi diventano addirittura dei manager, dirigono
enti, associazioni, eventi editoriali, e quando pubblicano le nuove
opere, allora quanti déjà vu, e quanto esibizionismo di bello stile,
quanto professionismo.
Dov’è finito quel coraggio errante di quando erano giovani, e
curiosi, e disponibili, spinti dalla sfida ma anche da quell’eleganza
naturale, ancestrale, che permetteva loro di osare ma anche di lavorare
la materia, di trasformarla e controllarla? Come riportare le cose alla
loro naturale, “vecchia” normalità?
La soluzione ci sarebbe. Sta nel rimettere le cose al loro posto.
Restituire alla scrittura la sua funzione di servizio rispetto alla
vita. Privilegiare la vita dunque, in tutti i suoi aspetti. E ritrovare
la necessaria umiltà, il necessario rispetto. Spezzare la catena
dell’introvertibilità che fa implodere l’energia in funzione di un
meccanicismo seriale che muta facilmente in chiusura e arroganza.
Il lavoro manuale. È una cura che funziona. Combatte l’insonnia
cronica dello scrittore professionista, perché lo costringe ad alzarsi
presto per andare al lavoro. Lo costringe a interagire con persone che
non siano altri scrittori o agenti o giornalisti o editori o lettori.
Sente il sangue che scorre fatto di tessuto vero, e non di inchiostro
elettronico. Sente i propri muscoli che lavorano. Il proprio cervello
che si concentra su cose concrete. I pomodori per esempio. Raccogliere
pomodori in estate, coi lavoratori immigrati. Oppure lavorare nei
cantieri, coi badili o con le macchine operatrici. Tutt’altro che
semplice. Tutt’altro che banale. Un lavoro impegnativo a stretto
contatto con gli operai immigrati. E quindi conoscerli, parlarci,
litigarci, scoprirne pregi e difetti e contraddizioni, superando così
l’inquadramento degli stessi in un’entità romanticizzata che li
considera come figure idealizzate e non di carne e sangue e miserie e
gioie e violenze e pregiudizi come tutti. Oppure dedicarsi a lavori di
falegnameria, o di carpenteria, o di sartoria, opere di taglio
artigianale, lavorando con le mani, con la segatura e la limatura, con
le forbici. È il principio dell’alternanza. Lavoro intellettuale e
lavoro manuale, come pare facessero durante un certo periodo della
rivoluzione culturale in uno dei regni del Male Assoluto, la Cina
rivoluzionaria maoista. Nessuno si isolava sulle torri, nessuno si
“elevava” sugli altri. Nessuno si rinchiudeva in un marketing di
supposto privilegio, in realtà di svilimento delle proprie risorse
creative per una misera paga di illusioni.
Così facendo il famoso scrittore X pubblicherebbe di meno, ma
pubblicherebbe meglio. Opere vere, opere vissute, generate da quelle
forze motrici che sono l’umiltà e la curiosità. Il piacere di darsi agli
altri, di scoprirli, rifiutando ogni forma di inutile e infelice
snobismo.
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