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L’obiettivo con cui l’Unione bancaria europea è nata era quello di ridurre la balcanizzazione finanziaria dell’Eurozona. La balcanizzazione – la frattura del sistema bancario transfrontaliero che avviene quando creditori nervosi si ritirano verso i sicuri porti nazionali – è stata percepita a ragione come uno dei maggiori pericoli per la stabilità e la sussistenza stessa della moneta unica.
Infatti, all’indomani della crisi finanziaria, gran parte delle ricerche disponibili evidenziavano come il sistema – che sino al 2008/2009 si presentava così interconnesso da essere apparentemente inestricabile – si era andato ridisegnando secondo linee “nazionali”. I prestiti transfrontalieri nell’eurozona erano crollati all’incirca alla metà dei valori pre-crisi, e ingenti capitali erano stati rimpatriati da molte banche e investitori nei paesi core (Germania e Francia). I prestiti nei paesi cosiddetti periferici (Grecia, Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo) nel frattempo tornavano ad essere sostanzialmente nazionali. Questo, politicamente, era imbarazzante, ma anche pericoloso, poiché rendeva tecnicamente possibile la fine della moneta unica.
Peggio ancora, questa situazione creava un problema ulteriore non meno grave: un circolo vizioso potenzialmente distruttivo tra rischio di credito e rischio sovrano – cioè il rischio che una nazione potesse essere spinta alla bancarotta.
Un obiettivo, tre pilastri
L’idea originale era che un’unione bancaria avrebbe ristabilito un mercato bancario e finanziario integrato attraverso tre pilastri: 1) un sistema unico di vigilanza bancaria 2) procedure di risoluzione che limitassero il rischio di contagio in caso di crisi, e 3) una garanzia europea sui depositi tale da spezzare il nesso tra rischio Paese e rischio bancario.
Questa la teoria. Nella pratica, l’unione bancaria ha generato enormi asimmetrie e condizioni competitive inique in tutta l’Eurozona. Queste asimmetrie hanno colpito in particolare il sistema bancario italiano, in un modo che contribuisce a spiegare gli avvenimenti degli ultimi anni.
Per quanto riguarda il primo pilastro, la vigilanza bancaria unica ha effetti di copertura molto differenti tra i vari sistemi bancari nazionali. Trascura un rischio sistemico molto serio in alcune importanti nazioni dell’Eurozona e perciò le favorisce, almeno nel breve periodo.
Quanto al secondo pilastro, le procedure di salvataggio o risoluzione delle banche in crisi – caratterizzate dal sostanziale divieto di salvataggio pubblico – hanno avuto anch’esse effetti fortemente asimmetrici che hanno danneggiato pesantemente alcuni sistemi nazionali (in primis l’Italia). In particolare, queste regole sono state stabilite solo dopo che molti paesi europei avevano elargito aiuti pubblici senza precedenti alle proprie banche nazionali. Questi enormi trasferimenti finanziari avevano sostanzialmente sospeso – sull’onda dell’emergenza – la normativa europea sugli aiuti di Stato, ovvero sugli interventi pubblici nazionali. Così alterando in misura sostanziale il panorama concorrenziale del sistema bancario in Europa.
Impedire a questo punto la possibilità di qualsiasi tempestivo salvataggio pubblico risulta oggi fortemente penalizzante per quei Paesi, come l’Italia, che nella fase precedente non avevano proceduto a sostenere in modo massiccio il proprio sistema bancario nazionale. Per questi Stati, l’opzione del salvataggio è adesso soggetta a criteri estremamente stringenti e subordinata al cosiddetto “bail-in” – ovvero uno schema che pone in primo luogo a carico di azionisti, obbligazionisti e correntisti le perdite bancarie – non escludendo affatto la strada della risoluzione/chiusura della banca interessata.
Quanto all’entità del sostegno di cui le banche di altri Paesi europei avevano goduto prima dell’entrata in vigore dell’Unione bancaria, un articolo pubblicato da M. Frühauf sulla Frankfurter Allgemeine del 16 agosto 2013 – pochi mesi prima dell’approvazione del meccanismo unico di vigilanza bancaria da parte del Consiglio Europeo – offre dati a dir poco impressionanti. Solo per fare un esempio dei molti salvataggi tedeschi all’indomani della crisi finanziaria, il governo fornì alla compagnia di assicurazione Hypo-Re una garanzia fino a 145 miliardi di euro. Il costo di questo solo salvataggio per i contribuenti tedeschi finora è stato di 20 miliardi di euro. Altre fonti forniscono numeri complessivi leggermente diversi sui salvataggi pubblici, ma quel che emerge chiaramente è la peculiarità della situazione bancaria italiana, che finora ha comportato aiuti pubblici molto inferiori a quelli degli altri paesi europei.
Gli effetti negativi dei primi due pilastri divenivano poi addirittura dirompenti a causa dell’assenza del terzo pilastro: la garanzia europea sui depositi. Questo meccanismo era assolutamente essenziale al fine dichiarato dell’Unione bancaria: arrestare il processo di “balcanizzazione finanziaria”. Infatti l’assenza di una garanzia europea manteneva l’onere della protezione (parziale) dei risparmiatori in capo al sistema Paese interessato. E, ancora una volta, contraddiceva quella solidarietà europea che dovrebbe essere il fondamento dell’architettura istituzionale dell’UE, e in particolare dell’Eurozona.
L’effetto di questo insieme di norme – i due pilastri che ci sono e quello che non c’è – è stato devastante in particolare per il sistema bancario italiano, per il quale le nuove regole hanno mutato in misura sostanziale – e per di più senza alcuna fase transitoria – il panorama normativo vigente da decenni, oltretutto in contraddizione con almeno due articoli della Costituzione italiana (l’art. 43 e l’art. 47).
A dispetto delle intenzioni, il nuovo contesto normativo ha penalizzato pesantemente i risparmiatori, in particolare i detentori delle cosiddette obbligazioni subordinate, diventate improvvisamente più rischiose col nuovo regime.
E, come era facilmente prevedibile, l’assenza sia di una rete di sicurezza pubblica per le situazioni di crisi che di un sistema di garanzia europeo, ha innescato una vera e propria corsa agli sportelli in relazione agli istituti percepiti come più deboli, o che erano alle prese con crisi aziendali che sarebbero state facilmente gestibili nel contesto normativo precedente. In tal modo, secondo il meccanismo ben noto delle previsioni che si auto-avverano, i problemi di liquidità di alcuni istituti hanno dato luogo a una fuga dei depositi che ne ha posto a rischio la solvibilità.
Un’altra pericolosa asimmetria proviene dal trattamento del rischio di mercato nel nuovo regime. Il peso di questo rischio – legato all’attività finanziaria, incluse le transazioni in derivati – risultava assolutamente sottodimensionato rispetto alla sua portata reale già negli Stress Test e Asset Quality Review condotti dalla Banca centrale europea. Il nuovo sistema pone un’attenzione molto maggiore sul rischio di credito – e conseguentemente penalizza i sistemi bancari come quello italiano che sono relativamente meno finanziarizzati, ma nei quali il rischio di credito è un fattore relativamente più importante.
Ma c’è di più: il rischio di mercato, al contrario del rischio di credito, non figura nemmeno nelle 5 priorità della Vigilanza bancaria europea esercitata dalla BCE, come evidenziato nei Rapporti annuali della BCE del 2015, 2016 e 2017 (si veda l’ultimo).
In questo modo risulta insufficientemente vigilata precisamente la tipologia di rischio alla quale è attribuito lo scoppio della crisi culminata nella Grande Recessione. Più concretamente, è insufficientemente vigilato il rischio di mercato espresso da alcune grandi banche tedesche e francesi, e in particolare quello di un colosso quale Deutsche Bank. Conoscere il valore effettivo dei Level 3 assets (derivati) di Deutsche Bank è un esercizio più prossimo alla divinazione che alla stima scientifica: in effetti al team ispettivo della Vigilanza BCE che ha recentemente condotto un’ispezione presso la banca di Francoforte “non è stato richiesto nemmeno di prezzare il valore dei derivati in portafoglio”. L’Autorità di vigilanza europea aveva alzato le mani con un curioso ragionamento: giudicando cioè irrealistico valutare l’adeguatezza del pricing dato ai derivati nel portafoglio di Deutsche Bank e di altre grandi banche, vista la discrezionalità concessa al riguardo a banche e revisori (si veda L. Davi, BCE, 68 banche sotto ispezione. Fuori i Level 3 dalle verifiche, “Il Sole 24 Ore”, 25 gennaio 2017).
Il vincitore è...
Il grande vincitore dell’Unione bancaria è stato il sistema bancario tedesco. Tutte le banche tedesche, ma in particolare le banche di piccole e medie dimensioni, che hanno infatti beneficiato in primo luogo di una costruzione del primo pilastro che ha fissato a 30 miliardi di asset il livello minimo per essere vigilati dalla Bce. Per ottenere questa soglia minima, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble minacciò di mettere il veto all’Unione bancaria, e non è un mistero che l’obiettivo era tenere fuori le Sparkassen dalla Vigilanza europea.
Delle 417 Sparkassen soltanto una è oggi vigilata dalla Vigilanza BCE; stiamo parlando di banche cui spetta il 22,3% degli impieghi di quel paese, per un totale di oltre 1.000 miliardi di euro.
Del resto non è questo l’unico modo in cui queste banche pubbliche, tradizionalmente legate alla CDU, sono state protette. Vanno citati almeno altri due modi.
Il primo è rappresentato dal trattamento di favore riservato dalla normativa europea ai cosiddetti Institutional Protection Schemes (IPS). Gli IPS sono sistemi di mutua protezione e garanzia tra le banche associate, regolati contrattualmente a livello di associazione di categoria. Sono diffusi soprattutto in Germania (Sparkassen e Volksbanken), Austria (banche Raiffeisen) e Spagna (Casse di risparmio). Differiscono sia dai gruppi bancari, sia dai network di banche. Pertanto non sono direttamente oggetto della disciplina europea – ad esempio nella Direttiva europea sui requisiti di 4 capitale (CRD IV) gli IPS non sono neppure citati – né degli accordi di Basilea. La cosa è stata giudicata da Thomas Stern, esperto dell’Austrian Financial Markets Authorities, in questi termini: “la decisione del legislatore europeo di non estendere la regolamentazione riguardante capitale e liquidità agli IPS è rimarchevole e difficile da capire da un punto di vista prudenziale”. Stern scrisse queste righe nel 2014, ma da allora la situazione non è cambiata.
Il fatto di essere membri di un IPS in effetti dà alle banche associate una serie significativa di privilegi regolamentari. È appena il caso di dire che le banche italiane in qualche modo confrontabili con le banche che in altri Paesi europei sono associate in IPS, le Banche di Credito Cooperativo, rientrano invece pienamente nella normativa europea anche per quanto riguarda i requisiti di capitale e di liquidità; non solo: con la L. 49/2016 il legislatore italiano ha imposto l’inclusione delle Banche di Credito Cooperativo in Gruppi bancari che, oltre a snaturare la natura mutualistica e cooperativa degli enti associati, avranno in 2 casi su 3 la dimensione di banche “significative” a livello europeo e quindi saranno direttamente vigilate dalla BCE sulla base dei requisiti più stringenti in termini di capitale previsti per le banche di maggiori dimensioni.
Il secondo modo in cui il governo tedesco ha aiutato le proprie Sparkassen è molto interessante, ma purtroppo poco noto: è consistito precisamente nel rimandare sine die il sistema di mutua garanzia e assicurazione dei depositi tra le banche europee.
Il nesso può non apparire immediato. Nel 2013 viene decisa la partenza dell’Unione bancaria con due pilastri su tre. È stato un gravissimo errore dell’Italia non impedire questa asimmetria, che rendeva l’unione bancaria incoerente rispetto alle sue stesse finalità dichiarate.
Nel 2015 comunque procedono in qualche modo i negoziati per attivare anche la mutua garanzia. Ma Sparkassen e Volksbanken non ne vogliono sapere di partecipare al sistema di mutua garanzia europeo, essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché ritengono di essere in grado di proteggersi da sole grazie al loro status speciale di IPS; in secondo luogo, perché temono di dover rendere le proprie regole specifiche omogenee a quelle delle altre banche, senza più beneficiare delle eccezioni regolatorie.
Le prime prese di posizione delle Sparkassen contro la mutua garanzia europea risalgono all’estate 2015. Successivamente Schäuble ha minacciato di bloccare la norma nel Consiglio, con la scusa ufficiale che la Germania si rifiutava di pagare per i problemi bancari degli altri paesi. Diversi tentativi di compromesso andarono a vuoto, perché tutti implicavano qualche tipo di vigilanza europea sulle banche tedesche – svelando così la vera natura del problema: il desiderio del governo tedesco di ostacolare qualsiasi forma di vigilanza europea sulle Sparkassen tedesche e le altre banche minori.
A inizio dicembre 2015 Schäuble sembrò arrendersi alle pressioni della Commissione Europea e dei principali altri Stati dell’Eurozona. Il quotidiano economico Deutsche Wirtschafts Nachrichten evidenziò come una decisione del genere potesse aprire la strada a un duro conflitto tra il settore bancario tedesco e il governo.
Poi, l’8 dicembre, il colpo di scena. Il piano di contrattacco di Schäuble da un lato è consistito nel delegittimare la BCE per il suo presunto conflitto di interesse tra il ruolo di guida della politica monetaria e quello di organismo di vigilanza bancaria – una condizione che i leader europei, Schäuble incluso, avevano da poco deliberato. Ha poi annunciato la sua opposizione alla proposta di mutua garanzia in assenza del recepimento da parte di tutti gli Stati della normativa europea sul bail-in, e, punto fondamentale, fino a che non fossero ridotti i rischi del sistema bancario. Successivamente ha precisato come fosse necessario che le banche europee riducessero la 5 quota in portafoglio dei titoli di Stato del proprio paese. Questa mossa tattica non solo ha rimandato sine die la discussione, ma ha anche spostato l’attenzione dal rischio bancario al rischio (sovrano) delle singole nazioni, un campo nel quale la Germania non ha nulla da temere. Fu infatti l’Italia, con il Presidente del Consiglio Renzi, ad essere costretta a porre il veto alla discussione sui bond sovrani nei bilanci bancari, bloccando così la discussione sul terzo pilastro.
Frattanto venivano attivati gli altri due pilastri, saltando completamente il periodo transitorio originariamente proposto per attenuare gli effetti del cambiamento delle regole. Il risultato è presto detto: le Sparkassen tedesche potranno continuare a beneficiare di requisiti di capitale più laschi e di una vigilanza esclusivamente nazionale. Un combinato disposto che rappresenta un mix esplosivo dal punto di vista dei rischi di crisi bancaria.
Oggi una crisi di questo comparto in Germania non avrebbe nulla da invidiare, nei suoi effetti, alla crisi delle casse di risparmio statunitensi (Saving & Loans Banks) degli anni Ottanta. Un ciclo economico tedesco positivo e il fatto che le aree a maggior rischio di crisi sono altre concorrono a far sì che nessuno oggi si avveda del problema. Nel frattempo, le Sparkassen e le altre banche tedesche difendono con le unghie e coi denti la propria autonomia e il diritto di non essere vigilate da nessuna autorità di vigilanza europea (si veda “Deutsche Banken sehen EU-Aufsicht kritisch”, Franckfurter Allgemeine Zeitung, 1 giugno 2017).
Le conseguenze
Comprendendo questo contesto, le radici dei problemi del sistema bancario italiano diventano più chiare. Il peso dei crediti deteriorati (NPL) è derivato dalla peggiore crisi economica in tempo di pace dal 1861. Il problema è emerso anche perché dopo il 2008 non è stato intrapreso nessun salvataggio bancario. Se prendiamo le quotazioni di borsa del settore bancario negli ultimi anni, è facile osservare un andamento fortemente negativo. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, si nota che la caduta dei prezzi è in genere avvenuta in concomitanza, più che con notizie genericamente “negative”, con le novità inerenti alla regolamentazione del settore a livello europeo, o in relazione a interventi del regolatore europeo stesso su questa o quella situazione, su questa o quella banca. Si pensi alle lettere spedite dalla vigilanza europea a questa o quella banca, o anche a diverse banche insieme, per esempio per chiedere di cedere subito i crediti problematici – pertanto ad un prezzo molto basso.
Dalla fine del 2015 – quando la Commissione Europea bloccò l’intervento del fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare quattro banche locali nei guai – sino al febbraio 2016, dopo l’entrata in vigore del bail-in senza un periodo di transizione e senza alcuna garanzia europea sui depositi, sono stati bruciati 46 miliardi di capitalizzazione di borsa dei titoli bancari italiani su un totale di 134,6. Un crollo del 35%.
È in ogni caso importante sottolineare che in tutti i casi di crisi bancaria verificatisi da fine 2015 in poi un elemento determinante è stata la fuga dei depositi, che semplicemente non avrebbe avuto luogo in vigenza della normativa nazionale precedente l’entrata in vigore dell’Unione bancaria. In tutti questi casi è stata determinante, e ha giocato un ruolo pesantemente negativo, l’assenza di un backstop pubblico sotto forma di salvataggio (bailout). In tal modo non è azzardato affermare che per il sistema bancario italiano la nuova regolamentazione europea ha rappresentato sin dalla sua introduzione un ulteriore fattore di rischio, anziché – come avrebbe dovuto essere – di stabilizzazione.
Che fare?
A inizio 2016 vi fu un dibattito in Italia sull’opportunità o meno di sospendere la regolamentazione sul bail-in. Erano i mesi in cui una buona parte degli Stati dell’Unione Europea sospendeva de facto il Trattato di Schengen – l’accordo di libera circolazione all’interno della UE in vigore dal 1995. Quella sospensione di fatto perdura tuttora, mentre il bail-in non fu mai sospeso. Ciò è stupefacente – specialmente a causa del fatto che le regole del bail-in contraddicono la Costituzione italiana, e date le asimmetrie insite nello strano e traballante tavolo a due gambe che gentilmente chiamiamo “unione bancaria”. Ma non è mai troppo tardi per rovesciare politiche sbagliate e errori di negoziazione. Purché li si comprenda.
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