C’è modo e modo di organizzare una reunion – specie in un
periodo storico che ne sembra più che mai (e spesso inutilmente) saturo.
Al di là del merito di certe discutibili operazioni di “scongelamento”,
infatti, si può anche scegliere di celebrare il passato con una scelta
filologicamente inesatta, ma “spiritualmente” azzeccatissima. E per
nostra fortuna è proprio questo il caso del tour per il quarantennale
dei Flipper (1979), veri punk americani d’antan, i cui membri storici rimanenti hanno invitato per l’occasione due coeve leggende della scena: David Yow e Mike Watt,
vale a dire rispettivamente LA voce e IL basso del post-hardcore
(semplificando sulla tassonomia). Tanto basta a rendere l’evento, più
che ghiotto, decisamente irrinunciabile.
La prima delle tre date italiane in calendario è ospitata in un luogo per veri true, un antro bolognese che conserva l’estetica e l’anima dell’underground
in senso proprio: il Freakout Club è l’arena ideale per annegare nel
sudore e negli spintoni, al ritmo indiavolato di un trio o quartetto
d’assalto. A scaldare l’atmosfera ci pensano dunque i texani WE Are The
Asteroid, dagli exploit più recenti ma non certo di primo pelo in quanto
a età e curriculum artistico (a inizio millennio il bassista Nathan
Calhoun ha brevemente militato anche nei Butthole Surfers).
Un sound
veramente corposo, il loro, con una sezione ritmica rombante e
distorsioni assordanti, che a momenti di stampo hard-blues alterna
gravose cadenze stoner, ma sempre all’insegna di un interplay
sovreccitato e ricco di personalità. Alla fine dei quaranta minuti
d’ordinanza la scatola di sardine è già una sauna, e chi può ne
approfitta per una rapida boccata d’aria o di birra fredda.
Per
il resto sarebbe stato difficile non avere aspettative elevate nei
confronti degli “attuali” Flipper: attese d’altronde ripagate in toto,
soprattutto grazie a un frontman che, senza nulla togliere agli
altri veterani, ha il potere di ipnotizzare e trascinare nel proprio
gorgo allucinato tutti gli astanti. Fra la chitarra di Ted Falconi (il
vero “dinosauro” della formazione), la batteria di Steve DePace e
l’integerrimo quadrettato Watt, i muscolari riff degli
strumentisti sono il trampolino di lancio per il cianciare sudaticcio di
Yow, destinato a rubare la scena con siparietti i più sconvenienti
possibile.
Le grida di inni ribelli come “Way Of The World”, “I Saw You Shine” e “Life Is Cheap” (dal miliare “Generic”,
1982), nonché il ghigno sardonico di “Ha Ha Ha” (da “Blow’n Chunks”,
1984), vanno man mano confondendosi in un tragicomico balletto con la
folla, che il vocalist utilizza a piacimento come piedistallo,
giardinetto da innaffiare e conforto affettivo, tra abbracci disperati e
baci senza grazia, nel più completo abbandono all’ebbrezza provocata
dall’alcol e dalla crescente spossatezza fisica. Se infatti i musicisti
sembrano divertirsi parecchio e scambiarsi ammiccamenti d’intesa, anche
in questo caso la performance del mastino Yow si tramuta in un
gioco al massacro, un libidinoso impeto di autodistruzione che si
riflette nel vuoto dei suoi occhi di lucertola e nel barcollamento che
lo spinge più volte a poggiarsi per un poco, stremato, contro gli
amplificatori ai lati del palco.
Non che il clima di festa ne
potesse risentire, ma in fondo ogni grande esibizione punk-rock conserva
quell’amarezza di fondo che ne è in sostanza la scintilla originaria,
il moto scatenante che porta a imbracciare le chitarre e gettarsi nella
mischia senza indugi né amor proprio.
Sarebbe ipocrita negare che la
partecipazione di David Yow abbia messo parzialmente in ombra i suoi
comprimari, ma d’altro canto ha di certo dato a tutti i partecipanti
l’occasione per non rimanere passivi di fronte al più genuino e
turbolento spettacolo di rabbia e passione che l’hardcore possa offrire.
Certo, alla fine dei giochi il mio unico pensiero è stato di procurarmi
al più presto una doccia e un letto, ma quanto ne è valsa la pena.
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