Alberto Fernandez e Cristina Kirchner, candidati della sinistra peronista, hanno sconfitto il Presidente Macrì alle primarie per le elezioni presidenziali del prossimo autunno: 47 contro 32 per cento il durissimo verdetto. Quindici punti di differenza che possono trasformarsi in distanza incolmabile. È stata una di quelle batoste che il presidente argentino di origini italiane, dai modi gentili e dalle idee rozze, con amicizie discutibili e politiche devastatrici, difficilmente dimenticherà. La relazione tra fallimento economico del governo e crisi di consensi pare ineludibile.
L’umiliazione di Macrì è la risposta degli elettori alle devastanti politiche ultraliberiste decise di concerto con il Fondo Monetario Internazionale. Come già avvenne con la sua musa ispiratrice, Menem, sostenuto dall’emissario dei fondi speculativi, Domingo Cavallo, la cura turbo liberista imposta agli argentini ha lastricato di fame, disoccupazione ed incertezza l’intero paese.
A rendere evidente a livello mediatico ciò che non si voleva vedere a livello socioeconomico, è arrivato il pesantissimo tonfo della Borsa di Buenos Aires il giorno seguente al voto delle primarie. Lo S&P Merval Index ha chiuso in calo del 37,93%. Particolarmente penalizzati i titoli dei settori finanziario ed energetico, i cosiddetti fondi buitre, per intenderci. Il Peso è stato drammaticamente, ulteriormente svalutato del 34% tornando ai livelli raggiunti all’insediamento dello stesso Macrì nel 2015.
È vero che le Borse internazionali soffrono in quasi tutte le piazze del mondo, ripercussione delle dichiarazioni di Trump sulla difficoltà di arrivare ad un accordo con la Cina sui dazi e di quanto avviene ad Hong Kong, dove gli Stati Uniti stanno spingendo sull’acceleratore della destabilizzazione politica e finanziaria in funzione anticinese.
Ma se nelle altre piazze le perdite sono fisiologiche, a Buenos Aires sono state devastanti.
Certo che per gli speculatori (definiti elegantemente “investitori privati o istituzionali”) la vittoria della sinistra in Argentina non è – né potrebbe mai essere – una buona notizia: i loro profitti sono a rischio di fronte ad un governo che si occupasse del bene pubblico. Dunque niente di strano che il mercato azionario e valutario veda il ritorno della sinistra come una sicura inversione delle priorità socioeconomiche del Paese e tema seriamente per i suoi interessi speculativi. Davvero non si ripeterebbe quanto deciso da Macrì, ovvero il ricorso al Fondo monetario internazionale per un prestito da 56 miliardi di dollari legato a un programma di riforme (come viene eufemisticamemente chiamato lo smantellamento del sistema universalistico di garanzie). E l’enorme problema è che gran parte del debito argentino (circa l’80%) è in dollari e il crollo del Peso rende costosissimo ripagarlo. Poi certo, come sempre, al FMI non interessa che lo si paghi, semmai che lo si rinnovi a interessi ogni volta più salati, in modo da stabilire attraverso la leva debitoria, il controllo totale sulle politiche economiche argentine.
Macrì ha indicato nella fuga dei capitali il rischio di una vittoria della sinistra peronista: ma la verità è che i capitali scappano con Macrì ed è proprio nel tentativo di mettere un freno alla loro fuga che la Banca Centrale è intervenuta oltre ogni limite, alzando il TUS (tasso di sconto) a livelli impensabili.
Si è insomma di fronte ad un generale fallimento delle politiche di riordino finanziario sostenute con l’azzeramento della spesa pubblica e del welfare, che hanno colpito le classi popolari e la stessa classe media e generato un vero e proprio apartheid sociale nel Paese, determinando l’impoverimento di massa, la contrazione fortissima della domanda e la riduzione al minimo dei consumi interni, l’aumento dei fenomeni delinquenziali e la corsa alla speculazione ed al mercato nero della valuta.
E se a livello microeconomico l’Argentina soffre il peso delle politiche neoliberiste, nemmeno a livello macroeconomico queste mostrano le loro virtù: i diritti sociali sono stati calpestati senza che il bilancio dello Stato ne abbia tratto giovamento. A fine 2018, infatti, il debito era pari all’86% del Pil e mentre l’Fmi prevedeva che alla fine del 2019 sarebbe sceso attorno al 75%, ora sui mercati si prevede che arriverà al 100 per 100.
È questo esito nefasto dell’applicazione delle ricette turbo liberiste che ha determinato il risultato delle primarie e confermerà alle elezioni la sconfitta di Macrì, che viene ora sfiduciato anche dai mercati. Perché l’esposizione debitoria alla quale Macrì ha condannato l’Argentina genera le preoccupazioni di chi ha investito ma che ora, nella crescita di ben 45 punti del “rischio paese”, teme di trovarsi a breve-medio termine con titoli di Stato (che hanno ceduto il 17%, colpito anche il famoso, ridicolo, Bond Centenario) ridotti in prospettiva a carta straccia.
I media internazionali, soprattutto quelli legati mani e piedi all’ideologia turbo liberista (in Italia spicca La Repubblica, ovviamente), sono con le mani tra i capelli. Denunciano autentico terrore di fronte alla possibilità che la sinistra torni al governo; vedono il neoliberismo minacciato dal sovranismo ma dimenticano che il sovranista per eccellenza, Donald Trump, è alleato di Macrì e non di Cristina. Tra lo stiraggio delle bretelle e quello della chioma, un autonominato analista economico si domanda come sia possibile che un esemplare dell’establishment finanziario possa essere sconfitto. Gli basterebbe leggere alcuni dati argentini per capirlo.
Il paese viaggia in recessione, con una inflazione superiore al 50%, un tasso di povertà al 35% della popolazione e con tassi di interesse al 64%! L’impoverimento massiccio di oltre la metà della popolazione, milioni di lavoratori espulsi dalle aziende, l’azzeramento del welfare, la repressione violenta, hanno trasformato l’Argentina in un buco nero. Dunque perché stupirsi se il voto popolare lo castiga?
Per allarmare l’elettorato, i media ufficiali presentano la possibile vittoria della sinistra peronista con il rischio default, perché il governo di sinistra potrebbe non riconoscere il debito contratto da quello di destra in carica. Ma la storia argentina insegna esattamente il contrario: il default avvenne soprattutto per colpa del governo Menem e fu invece quello di Nestor Kirchner a guidare l’Argentina alla ripresa economica proprio grazie al rifiuto delle ricette del FMI.
Tanta paura da parte dei sacerdoti dell’impero del Dollaro è però comprensibile: non c’è solo il testo argentino ma anche il contesto latinoamericano. La vittoria di Alberto Fernandez e Cristina Kirschner alle elezioni del prossimo autunno altererebbe in profondità, infatti, tutto lo scacchiere latinoamericano, data l’enorme importanza politica, economica e militare dell’Argentina. Le conseguenze della vittoria della sinistra, quindi, non restituirebbero solo l’Argentina ai suoi abitanti ma potrebbero innescare un generale cambio di contesto per l’area Sud del continente e si ripercuoterebbero positivamente sulla resistenza del Venezuela, della Bolivia, del Nicaragua e di Cuba. Entrerebbe in crisi la strategia statunitense che utilizza gli uni contro gli altri i paesi latinoamericani, facendo perno sui regimi reazionari di Bogotà, Brasilia, Buenos Aires e Santiago per indebolire il blocco dell’ALBA e ridurre la potenza politica, evocativa persino, dell’unità latinoamericana contro il Nord imperiale.
Con il Messico e l’Uruguay al suo fianco, l’Argentina determinerebbe un nuovo quadro politico latinoamericano, con ripercussioni sulla stessa esistenza – e comunque sulla funzionalità – del Gruppo di Lima. Non solo: lo stesso Brasile risentirebbe dell’effetto contagio. In una sorta di domino, che ha sempre caratterizzato i movimenti elettorali nel Cono Sud, Brasilia, alle prese con una protesta popolare massiccia contro la privatizzazione dell’istruzione e della salute e con una crisi di fiducia delle stesse élite finanziarie e militari nei confronti del governo, potrebbe risentire del cambio di linea politica del paese vicino e, ove si concretizzasse il ritorno in campo di Lula, si arriverebbe a breve-medio termine alla chiusura della parentesi nazievangelica di Bolsonaro.
Insomma a Buenos Aires si gioca una buona parte della partita del prossimo futuro tra il blocco democratico e socialista latinoamericano e la destra agli ordini di Washington. L’altra sera a Buenos Aires i festeggiamenti per il risultato delle primarie offrivano all’ascolto una musica seducente; il tango della ribellione ha ora una sua data prefissata.
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