di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Non c’è tregua che regga a
Idlib. Ieri nella provincia nord-occidentale siriana si è ripetuto
quanto accaduto esattamente due mesi fa, il 19 giugno, quando un missile
siriano aveva colpito una base militare turca nel nord del paese.
Stavolta a essere colpito da un bombardamento aereo delle
forze governative (alzando l’asticella della contraddizione
politico-militare che è Idlib) è stato un convoglio di Ankara lungo
l’autostrada che collega Aleppo a Damasco. Tre morti e dodici feriti, secondo il governo turco in quello che definisce un atto di aggressione.
Identica la versione damascena ma ribaltata: ad aver violato la
sovranità siriana è stata la Turchia che ha fatto entrare dal valico di
Bab al-Hawa, profondo nord-ovest siriano, un corposo convoglio militare
scortato da una delle fazioni armate sponsorizzate da Ankara.
Un camion, sette carri armati e 25 veicoli con soldati e
attrezzature militari e logistiche diretti a dare man forte – secondo la
versione governativa – ai gruppi islamisti di opposizione a sud di
Idlib, a Khan Sheikhoun, oggetto in questi giorni della controffensiva russo-siriana: ieri,
per la prima volta dal 2014, le truppe di Damasco sono entrate nella
città in mano a Hayat Tahrir al-Sham (l’ex al-Nusra) e ne hanno assunto
il controllo, costringendo i qaedisti alla fuga.
Secondo Ankara, invece, i suoi soldati si stavano muovendo verso il
posto di osservazione numero 9 a nord di Idlib, uno dei 12 impiantati
dalla Turchia dopo l’invasione via terra del nord della Siria,
nell’agosto 2016, e l’accordo stipulato lo scorso anno ad Astana con
Russia e Iran sulle cosiddette «zone di de-escalation», mai realmente
entrate in vigore.
Prosegue così la controffensiva lanciata a fine aprile da Mosca e
Damasco contro l’ultimo pezzo di territorio ancora in mano alle
opposizioni.
Un’operazione che, secondo l’Onu, avrebbe provocato
500 morti tra i civili (oltre a 1.400 miliziani e 1.200 soldati
governativi) e 400mila sfollati. Tra cui buona parte della popolazione
di Khan Sheikhun: dei 100mila abitanti, molti dei quali sfollati da altre zone del paese, ne restano pochissimi.
Si fugge, per l’ennesima volta, verso nord per evitare la battaglia
finale tra Damasco e islamisti, fatta di raid aerei da una parte e
dall’altra di missili e kamikaze.
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