di Michele Giorgio
La prova di forza
e di capacità strategica offerta da Israele negli ultimi giorni
potrebbe essere solo l’inizio di qualcosa di più grosso e pericoloso per
il Medio Oriente. Ieri, mentre nella regione si accendevano le proteste
di leader di Stato e di governo e di organizzazioni militanti
riconducibili all’Iran per i bombardamenti che l’aviazione israeliana ha compiuto in Siria, Iraq, Libano, e nella Striscia di Gaza, Benyamin Netanyahu ha convocato il leader dell’opposizione ed ex capo di stato maggiore, Benny Gantz,
e attraverso i suoi consiglieri lo ha informato sulla situazione. Un
segnale inequivocabile. I primi ministri di solito informano il capo
dell’opposizione su questioni di sicurezza nazionale in caso di una
guerra imminente o molto probabile. Qualcuno ridimensiona il rischio di
un conflitto diretto tra Israele e Iran. Spiega l’escalation in
corso con Netanyahu che, a tre settimane dal voto, vuole apparire agli
occhi degli elettori come “Mr. Sicurezza”, colui «che le suona ad arabi,
palestinesi e iraniani». Il quadro però è più complesso.
Nella notte tra sabato e domenica, dopo l’attacco israeliano contro
una presunta base nei pressi di Damasco della Brigata al Quds della
Guardia rivoluzionaria iraniana – Tehran smentisce e il movimento sciita
libanese Hezbollah sostiene che si trattava di una sua struttura – Netanyahu è uscito allo scoperto.
In pubblico, come di rado fa Israele, ha rivendicato il raid sostenendo
di averlo ordinato allo scopo di prevenire un «attacco imminente»
dell’Iran con droni contro il nord della Galilea che, a detta del primo
ministro, avrebbe avuto gravi conseguenze. Quindi ha lanciato un nuovo avvertimento. «L’Iran non ha alcuna immunità. Le nostre forze operano in ogni settore»
ha detto per sottolineare le capacità strategiche e di intelligence
delle forze armate ai suoi ordini. A inizio della scorsa
settimana a mezza bocca Netanyahu aveva indicato un possibile
coinvolgimento di Israele nei recenti attacchi avvenuti in Iraq contro
organizzazioni legate a Tehran. Coinvolgimento poi confermato da un
funzionario governativo statunitense al New York Times.
E mentre rivendicava l’attacco in Siria, prontamente
giustificato come “autodifesa” dagli Stati Uniti, il premier israeliano
ha innescato una escalation di attacchi in mezzo Medio Oriente.
In Libano due droni israeliani sono caduti in circostanze poco chiare a
sud di Beirut, la roccaforte di Hezbollah. Poi nelle ore successive
aerei, forse ancora droni, hanno preso di mira, nella Valle della Bekaa, una caserma del Fronte popolare-comando generale (partito palestinese vicino alla Siria). Quindi è giunto l’attacco in Iraq
– è stato ucciso un importante comandante militare – nella provincia
di al Anbar, a qualche chilometro dal valico di Qaim con la Siria,
contro un convoglio della Brigata 45 delle Hashd al Shaabi, le Forze sciite di mobilitazione popolare prese di mira da Israele quattro volte nell’ultimo mese. Infine è stata colpita Gaza,
in risposta al lancio di tre razzi di cui Hamas nega la responsabilità
sua o di altre organizzazioni palestinesi. Israele ha annunciato che
farà entrare a Gaza solo metà della quantità necessaria di carburante.
Attacchi a ripetizione che stanno incendiando la regione. Domenica il
leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha avvertito che «È finito il
tempo in cui Israele bombardava il Libano rimanendo poi al sicuro»
e ha annunciato che la sua organizzazione abbatterà i droni israeliani
che entreranno nello spazio aereo libanese. I suoi commenti hanno
ricevuto l’appoggio prima del capo di governo, il sunnita Saad Hariri, e poi del presidente, il cristiano Michel Aoun,
che ha definito l’attacco israeliano una «dichiarazione di guerra».
Uguali le parole delle Hashd al Shaabi che hanno annunciato: «ci
riserviamo il diritto di rispondere» a Israele. L’Iraq rischia di
trasformarsi in un campo di battaglia a causa di questi attacchi. Le
conseguenze potrebbero travolgere il premier Abdul Mahdi
impegnato a consolidare il suo fragile potere e a colpire le fazioni
delle Hashd al Shaabi che operano ancora al di fuori dell’autorità del
suo governo. I raid aerei umiliano l’Iraq, ne evidenziano la
debole sovranità e rafforzano i critici di Abdul Mahdi che mantiene
ottimi rapporti con gli Stati Uniti alleati di Israele. In queste ore si levano più forti nuove e vecchie voci che chiedono l’uscita dei militari Usa dal paese.
Sullo sfondo di questa ondata di attacchi israeliani, c’è il G7.
Non pare un caso che i raid siano scattati proprio mentre il presidente
francese Macron accoglieva Donald Trump e i leader degli altri paesi
membri e a Biarritz arrivava «a sorpresa» il ministro degli esteri
iraniano Mohammad Javad Zarif. In casa israeliana si guarda con sospetto all’iniziativa di Macron per un allentamento della tensione tra Usa e Iran. Donald
Trump senza alcun dubbio è un alleato strettissimo di Netanyahu e lo ha
dimostrato più di una volta. Però è anche imprevedibile e potrebbe
cercare il dialogo con Tehran che oggi appare impossibile.
Intanto Trump ha fatto al premier israeliano un regalo elettorale. A
Biarritz ha annunciato che con ogni probabilità gli Usa presenteranno il
loro piano (Accordo del Secolo) prima del voto in Israele il 17
settembre.
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