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29/08/2019

Altro giro, altro Conte, stesso ristagno

Tutto secondo logica e copione scritto nei cieli. Giuseppe Conte risale al Quirinale per ricevere l’incarico di formare un nuovo governo, mettendo insieme Cinque Stelle e Partito Democratico.

Sul piano strettamente istituzionale, non fa una piega. Nel Parlamento eletto il 4 marzo 2018 ci sono sostanzialmente tre formazioni di minoranza e l’unico governo possibile vien fuori dall’accorpamento di due di queste, tenendo conto che i Cinque Stelle hanno una notevole maggioranza relativa che impedisce soluzioni che li escludano (anche se Pd e Lega si somigliano più di quanto non si voglia ammettere).

Al primo tentativo sono state Lega e Cinque Stelle a formare una coalizione fortemente mostruosa, ora si prova con l’altra soluzione. La cosa più difficile è stata ed è farla digerire a “capi politici” (sia del Pd che grillini) che avevano costruito il proprio “nemico giurato” nella forza che ora devono sposare per forza. Basti guardare a quei poveretti di Repubblica, costretti per settimane da un lato ad appoggiare il tentativo e dall’altra “obbligati” a proseguire il bombardamento cui Cinque Stelle descritti come “antisistema” (anti UE, anti euro, filocinesi, ecc.) nonostante ogni evidenza contraria.

Se non si voleva andare alle elezioni immediatamente questo era l’unico governo politico possibile, altrimenti se ne faceva uno di “garanzia elettorale”, incaricato di firmare la legge di stabilità (che tanto viene strutturata nei fondamentali dalla Commissione UE) e di gestire in modo un po’ meno ad personam lo svolgimento delle elezioni (con Salvini ministro dell’interno, dunque padrone della macchina di raccolta dei risultati, ogni sospetto di brogli sarebbe stato legittimo e impossibile da allontanare).

Ma il piano istituzionale non esaurisce il problema politico. Il rapporto tra “partiti” e popolazione è ai minimi termini, la credibilità dei “leader” sale e scende in un attimo, la “comunicazione” ha sostituito le differenti visioni del mondo (sciolte nel “pensiero unico neoliberista”) e favorito la ricerca ossessiva dello slogan di facile presa e durata zero.

Questo governo, dunque, è come gli altri formalmente legittimo e popolarmente non credibile. Dà tregua, togliendo qualche megafono ai leghisti (i grandi media, specie televisivi, sono lestissimi a seguire il carro del vincitore momentaneo), e dunque garantisce qualche mese di ordinaria amministrazione, senza strilli generali sull’“invasione”, i “porti chiusi”, gli inviti al pogrom contro immigrati e rom.

Ma non risolve niente. Le dinamiche che vanno devastando il corpo sociale restano tutte attive, e la mancanza di soluzioni non potrà che agevolare il compito dei guastatori. Anche perché i Di Maio, gli Zingaretti e tutto il codazzo delle seconde linee (Renzi, Calenda, Di Battista, ecc.) non riesce proprio a nascondere la propria piccineria, l’ansia di protagonismo, stile “mi si nota di più se dico questo o quest’altro”. Aumentando l’antica certezza che “quelli lassù” a tutto pensano meno che a diminuire i problemi della maggioranza delle figure sociali.

La stessa Lega, che alzerà i toni proporzionalmente alla restrizione degli spazi televisivi, è fortemente deflazionista sul piano interno. Voleva e vuole ripristinare le “gabbie salariali”, con stipendi differenziati per aree e regioni (più bassi comunque al Sud), impedire l’approvazione di qualsiasi salario minimo (e dunque protrarre il semischiavismo dei salari a 2-3 euro l’ora, come per riders e braccianti di qualsiasi nazionalità), favorire in ogni modo le imprese e i ricchi (flat tax, taglio dei contributi previdenziali in busta paga per dare l’impressione di “aumenti salariali” finanziati con la riduzione delle entrate e dei servizi sociali), tagliare la spesa sanitaria in dimensioni drastiche (la battuta di Giorgetti sull’inutilità dei medici di base è indicativa).

Ma le prime indiscrezioni sulle caratteristiche della “manovra” di fine anno, in via di concertazione tra i nuovi soci di governo, non si discosta molto dalle linee che anche la Lega condivide. Giusto un po’ più di “reddito di inclusione” camuffato da “reddito di cittadinanza” (spiccioli, in termini assoluti), per fare vedere che ci si preoccupa dei più poveri (che dalla flat tax non avrebbero nessun vantaggio). Propaganda, insomma, che accompagna le cose più importanti e meno pubblicizzate.

C’è da bloccare ancora una volta l’aumento automatico delle aliquote Iva, e in genere questo significa taglio ad altre spese, oppure un aumento delle entrate fiscali. Da questo punto di vista il prossimo ministro dell’economia potrà contare sul un discreto pacchetto di miliardi derivante dall’entrata in vigore della fatturazione elettronica che, pur non essendo inaggirabile, ha comunque eliminato un bel po’ di evasione dell’Iva. Almeno setto-otto miliardi, secondo le stime del ministro Tria, che consentirebbero a qualsiasi governo di limitare interventi brutalissimi su altri capitoli di spesa.

Altri miliardi sono disponibili per i minori esborsi relativi a “quota 100” e reddito di cittadinanza. Quindi un po’ meno lacrime e sangue, ma comunque una manovra dura che il prossimo anno peserà sulla popolarità anche di questo esecutivo.

Dei “tre governi” in uno – Lega, grillini, Unione Europea – è rimasto in pedi soltanto quello con una solida base di potere alle spalle e con un “programma” da cui non si può prescindere. Il prezzo maggiore lo paga l'“alternativa farlocca” incarnata per qualche anno da i Cinque Stelle, passati nel giro di appena diciotto mesi dal “non faremo governi insieme a nessuno” all’aver fatto governi con tutti, senza naturalmente cambiare assolutamente nulla.

Il problema dell’alternativa a questa rappresentanza politica – tutta – resta immutato, ma se non altro sono state bruciate molte cazzate diventate “senso comune” anche in certi ambiti “di sinistra” (l’antipolitica, “uno vale uno”, la “democrazia in rete”, “ognuno dice la sua”, “destra e sinistra non esistono più”, ecc.). La breve stagione di successo dei grillini mostra che si può rompere lo schema del “bipolarismo obbligato”, cui il nuovo governo Conte oggettivamente riconduce. Sta a noi dare risposta a una domanda sociale che resta inevasa.

La destra per ora fa mostra di indignazione, ma è probabilmente già iniziato lì dentro il processo di giubilazione di Salvini e la caccia a un nuovo “leader” (che sia ovviamente un “bravo comunicatore”). Perché – almeno a noi – sembra impossibile tenersi un “genio” capace di mandare in fumo un capitale di potere e consenso delle dimensioni di cui era arrivato a godere il Secondo Matteo.

Tutto come al solito, insomma. Il lento declino determinato dall’adesione ai trattati europei proseguirà senza scossoni troppo forti, come rane che si adeguano alla temperatura dell’acqua nella pentola, fino a ritrovarsi bollite.

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