di Salvatore Cannavò
L’economia internazionale è in subbuglio, c’è in corso una guerra delle valute, innescata da Donald Trump, ma soprattutto, nota Emiliano Brancaccio professore di Politica economica all’Università del Sannio, recente autore de Il discorso del potere, “c’è davvero il rischio di una nuova, forte, recessione globale il prossimo anno”.
La previsione per il futuro deve farci preoccupare?
Tra i previsori istituzionali comincia a emergere una certa inquietudine circa la possibilità che il 2020 rappresenti l’anno della prima vera recessione negli Stati Uniti dopo la grande crisi del 2008. Recessione causata dal fatto che l’espansione degli anni passati è stata trainata da un boom del mercato azionario solo parzialmente giustificato dalla crescita dei dividendi. Quindi, trainato dall’ennesima bolla speculativa.
E come si è riformata questa bolla?
Il mercato finanziario americano, e non soltanto, è stato inondato di liquidità destinata al settore privato proprio allo scopo di rilanciare i prezzi dopo il crollo del 2008. Tutta questa liquidità è finita nelle casse di quei soggetti definiti rialzisti. La crescita di questi anni è stata sostenuta da questo meccanismo. Un meccanismo vecchio che è stato esasperato.
Ma perché è avvenuto?
Gli Stati Uniti non riescono a far rientrare il proprio disavanzo commerciale verso l’estero. Restano la più grande potenza politico-militare del mondo, ma il tallone d’Achille sul piano economico; un’economia più fragile di quanto si immagini. Le politiche protezionistiche che sono state avviate già prima di Trump a quanto pare non riescono o riescono molto lentamente a ovviare al problema.
Per questo Trump svaluta il dollaro?
Esattamente, anche se Trump interviene su tre fronti: il deprezzamento della valuta, l’abbattimento delle tasse e il protezionismo vero e proprio. Va però detto che, nonostante io pensi tutto il male possibile di Trump, la sua strategia è obbligata, è provocata da una causa di forza maggiore, perché gli Usa non riescono a ridurre il loro deficit verso l’estero. Questa precipitazione della politica americana, sempre più guerresca nei rapporti commerciali, è una necessità oggettiva del capitalismo americano in crisi di egemonia. Trump è solo la maschera di processi molto profondi.
Ma in questo gioco c’è allora la responsabilità dei Paesi che invece hanno un surplus commerciale?
Certo, i Paesi che si trovano in surplus commerciale non contribuiscono all’equilibrio e all’espansione economica. E non parlo tanto della Cina, quanto della Germania e dei Paesi europei che ne sono ormai diventati satelliti tecnico-produttivi. La composizione della domanda di merci in Germania è ormai fatta di esportazioni più che in ogni altro Paese del mondo.
Questa è una ragione anche della attuale dinamica negativa della produzione tedesca?
Sì, la Germania rallenta nel 2019 per via del ciclo mondiale perché è uno dei Paesi più dipendenti dall’economia mondiale. Ovviamente in Germania, e non solo, ci sono interessi prevalenti che preferiscono mantenere un orientamento votato all’esportazione, al forte contenimento dei salari e della domanda interna, accettando qualche recessione in più. Questo posizionamento consente di avere elevati profitti ed elevate possibilità di distruzione dei capitali minori. I capitali maggiori resistono alle recessioni e i più deboli vengono acquisiti o spazzati via. E magari permettono qualche affare a prezzo di saldo.
Se la debolezza è soprattutto negli Usa, quale è la ragione?
Al tempo di Obama emerse una ferma intenzione a far sì che l’intervento pubblico Usa di reazione alla crisi non assumesse un carattere “socialista”. Così si espresse allora l’establishment, riferendosi a un massiccio intervento pubblico in economia. Si ampliò il deficit pubblico, fino al 10 per cento del Pil, ma non con l’obiettivo di espandere l’intervento dello Stato, ma di far risalire i prezzi azionari. E questo è avvenuto in modo abbastanza semplice: lo Stato e la banca centrale hanno acquistato titoli a mani basse fin quando i titoli hanno cominciato a crescere. Se nella prima fase si è fatta spesa pubblica keynesiana in stretto senso, poi la liquidità è stata dirottata sui mercati.
Draghi ha fatto lo stesso?
Assolutamente sì. Anzi, se negli Usa c’è stato un dibattito sulla minaccia socialista, in Europa la Bce è intervenuta a sostegno dei titoli di Stato solo a condizione di politiche restrittive.
Eppure si va avanti con la stessa politica.
La politica monetaria ha però esaurito il suo potenziale di espansione. I tassi, quando raggiungono lo zero, non possono andare sotto zero più di tanto. La politica monetaria, come avvertiva Keynes, non ce la può fare da sola a governare la “bestia” del capitale. Questo limite lo stiamo ora toccando con mano.
Cosa si può fare?
Se la politica monetaria non ce la fa, arriva la recessione. Se non ci sono le condizioni per un rilancio della spesa e degli investimenti pubblici, rischiamo di doverci abituare a una oscillazione del capitalismo con un alternarsi di cicli di sviluppo e di crisi molto più accentuato di quelli registrati nella seconda metà del ‘900. Il capitalismo privo di moderazione rischia di essere molto più instabile di quanto ci siamo abituati. Un’instabilità che non è solo economica ma anche politica, e che rischia di pregiudicare ulteriormente quel che resta degli istituti democratici del Novecento.
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