Su Laclau e le ambivalenze di un significante vuoto
1. Una cosa appare certa. Comunque si fissino i confini del populismo, sta di fatto che le sue manifestazioni si vanno particolarmente moltiplicando. Come quel mito che tagliata una testa ne appare un’altra, e un’altra ancora; oppure come tutti gli incubi della borghesia, quel fantasma che non si riesce ad acciuffare e si aggira terrorizzando la pace sociale. Metafore a parte, di populismo e di partiti populisti, in realtà, si è ricominciato a parlare all’incirca un trentennio fa, anche se è con il cronicizzarsi della crisi e con l’indebolimento dell’Unione Europea che si è imposto come termine più attentamente monitorato dai media e tema più aspramente dibattuto dagli studiosi di scienza politica. E la sua origine e la sua definizione restano tuttavia un rompicapo irrisolto: se non ricorrendo a spiegazioni che non ne sciolgono la questione dei confini. Tanto è vero che l’etichetta populista viene usata per il Front National di Le Pen, l’UK Independence Party di Farage e la Lega di Salvini; un po’ meno per il Movimento Cinque Stelle, mentre, in altro versante, viene utilizzata per i movimenti anti-austerity come Podemos o Syriza.
Il populismo non è un fenomeno anomalo, bensì un ceppo profondamente istallato nel tronco della democrazia rappresentativaQuali sono, dunque, i confini del populismo? Che essi siano a geometria variabile, in base al posizionamento, si muovono comunque all’interno di un piano costituzionale. D’altronde, condividiamo la tesi di Bobbio, per cui il populismo non è un fenomeno anomalo, bensì un ceppo profondamente istallato nel tronco della democrazia rappresentativa, tant’è che molto spesso è sintomo di una drammatica contestazione delle procedure e delle istituzioni della democrazia costituzionale.
In queste succinte note cercheremo di comprendere la logica che sottende al populismo e, allo stesso tempo, le risorse che esso attiva e i limiti cui cede. Ci guideranno le analisi di Ernesto Laclau e del suo classico, La ragione populista, il cui scopo era assai prensile della piega ambivalente assunta dallo stesso termine: vale a dire, segnalare metodo e attrezzi per riabilitare il populismo dalle secche delle formazioni di destra in cui precipita con estrema facilità.
2. Prendiamo in prestito alcune riflessioni di Emanuele Leonardi sul populismo della Lega nord[1]. La «duttilità» o la «capacità di adattamento» della Lega come cifra della sua azione politica nel neoliberismo, ossia la plasticità e prossimità con «il rischio d’impresa», «le categorie del mercato» e «la competizione internazionale» possono essere estese a tutti quei partiti che hanno in agenda – e dunque non contrastano – le dinamiche di sviluppo capitalistico nelle forme di finanziarizzazione spinta, la presenza nelle attività governamentali nei vari livelli amministrativi e le nuove figure produttive e soggettive emerse nel contesto post-fordista e dell’economia di rete.
Il populismo risulta così essere un paradigma di adattamento alle politiche di austerity e, in particolare, un termine di paragone di formazioni leghista e neofasciste dichiaratamente antisistemiche – e anti-europeiste – ma, in realtà, player determinanti nello sviluppo della finanza territoriale e nella gestione del mercato del lavoro, rosicchiando poltrone e nomine al vecchio da scalzare. Tanto è vero che queste formazioni fanno spesso leva sull’espediente retorico del nuovo contrapposto al vecchio: il nuovo che detronizza il vecchio. Con un coup de théâtre, appare ora un giovane politico, ora un nuovo rampollo, ora un illibato candidato, ma, in fin dei conti, tutte figure figlie di partiti profondamente sistemici e, oltretutto, molto spesso cooptate dalle medesime famiglie di sangue, se non di partito, come fosse un destino patrilineare.
Il populismo leghista e neofascista altro non è che «una reazione tradizionalista alle minacce d’insicurezza portate ai territori […] dalla globalizzazione capitalistica», risultando essere così una «risposta complessa, talvolta funzione e talaltra no, alle necessità di governo della nuova interazione tra flussi globali di capitale e contesti produttivi regionali che proprio il neoliberalismo impone su scala planetaria»[2].
Volgendo l’analisi oltre l’Atlantico, mutatis mutandis, il «populismo come adattamento» o – per dirla con Mezzadra (Il populismo come sintomo. Lottare per un popolo che manca) – il «populismo come sintomo» funziona anche come spiegazione del caso Trump. Le diagnosi catastrofiste sulla diminuzione del reddito medio degli americani usate da Trump contro Clinton sono state rivolte in passato dagli economisti progressisti contro Bush per dare la volata vincente a Obama; mentre, oggi, il senso comune e il sentire della gente che fatica a sbarcare il lunario, gli impossibilitati a competere sul mercato del lavoro, si affidano alle parole di Trump. Si affidano appunto a quel nuovo che spodesta il vecchio. Il vento populista, un editoriale de «Il Sole 24 Ore» di domenica 14 agosto 2016, penso abbia colto efficacemente l’inquietudine che soffia sul consenso di Trump: «Chi è baciato dai benefici della globalizzazione, soprattutto i ceti istruiti e metropolitani che vivono sulle due coste, possono a buon diritto baloccarsi coi problemi post-materialisti e post-moderni dei diritti civili […] ma per chi ha capito solo ora di non avere futuro, per gli abitanti del profondo sud e dell’America interna, il divario fra i loro problemi e quelli che soli paiono interessare le élite e i ceti medi riflessioni è diventato troppo ampio».
Occorre attingere all’archivio gramsciano per attrezzarsi a intervenire non tanto sul populismo quanto sul campo sociale e ideologico su cui esso fa presa: per cogliere cioè il senso comune, il sentire delle classi lavoratriciQuesta tesi spiega altrimenti proprio la versatilità e la capacità di adattamento del populismo. Ciononostante non è sufficiente a identificare lo stesso come un fenomeno ascrivibile alla destra. O per meglio dire, non è in grado di cogliere le forze che muove, i dispositivi su cui fa leva, l’ordine del discorso che attiva. Occorre attingere all’archivio gramsciano per attrezzarsi a intervenire non tanto sul populismo quanto sul campo sociale e ideologico su cui esso fa presa: per cogliere cioè il senso comune, il sentire delle classi lavoratrici, e su di esse esercitare pratiche e discorsi, istanze e programmi che raccolgano sofferenza e rabbia dei nuovi working poors d’Europa.
Da qui in poi ci lasciamo condurre da Laclau e dal suo tentativo di riscattare il populismo in funzione contro-egemonica e anti-capitalista. Da parte nostra, invece, il tentativo di recuperare dalla cassetta laclausiana qualche attrezzo in grado di organizzare il comune e di raccogliere il sentire comune dei proletari d’Europa, pena il lasciarli ulteriormente precipitare nella palude delle formazioni razziste e neofasciste.
3. Laclau giunge a La ragione populista a seguito di alcune elaborazioni fondamentali intrattenute con Slavoj Zizek e Judith Butler in Contingency, Hegemony, Universality [3] del 2000 e, prim’ancora, Hegemony and Socialist Strategy del 1985 scritto con Chantal Mouffe[4].
In Italia il pensiero di Laclau è in realtà molto marginale, al contrario del notevole successo internazionale. La ragione è che il suo pensiero infastidisce le scuole accademiche ad usum delphini. Non è un caso che nell’articolo succitato de «Il Sole 24 Ore», propriamente sul populismo, non si faccia menzione del filosofo argentino, né tantomeno gli editorialisti, nonché docenti, de «Il Corriere» o «La Repubblica», lo abbiano mai fatto nell’affrontare quel mostro dalle mille teste che è il populismo. Eppure Laclau è tra i pochi ad averne scritto così manifestamente alcuni esempi, elaborando addirittura una metodologia d’analisi.
Il complesso impianto teorico del filosofo argentino si presta paradossalmente a essere tradotto in una forma politica efficace. Un apprendistato filosofico che non rimane dunque confinato a un piano astratto, ma che una volta tradotto adeguatamente ha ripercussioni nella pratica politica. Tanto è vero che gli esempi da lui considerati si fondano su eventi storici, analizzati con un modo perentorio tipicamente della politologia statunitense: in particolar modo, Laclau si sofferma largamente sull’Argentina di Juan Domingo Perón e il «ritorno di Perón». D’altro canto – come prontamente segnalato da Maura Brighenti e Sandro Mezzadra (Il laboratorio politico latinoamericano. Crisi del neoliberalismo, movimenti sociali e nuove esperienze di governance) – lo stesso Laclau «non occulta il suo appassionato sostegno all’esperienza del kirchnerismo in Argentina, come «alternativa al sistema tradizionale dei partiti» e «progetto coerente di cambiamento». Ritorna l’espediente del nuovo che detronizza il vecchio. E a maggior ragione, «tra le fonti di un ritorno al populismo latinoamericano», quale cassetta cui attingono anche alcuni partiti e movimenti europei, s’intravede un ritorno al popolo e di un «peronismo senza Perón» tra i governi progressisti latinoamericani, ossia «un modello latinoamericano di governance postneoliberale». Ritorna viepiù l’idea che la reazione populista appaia come risposta alle funzioni di governo, tra flussi globali di capitale e contesti produttivi periferici, secondo modelli di neoliberalismo a scala regionale.
Le teorie di Laclau hanno visto un’applicazione concreta, almeno negli ultimi tre lustri in America Latina, grazie all’avanzata sulla scena politica di quei governi, in Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador, Venezuela, che hanno prodotto le condizione per esperienze di «governance postneoliberale», recuperando la potenza destituente dei movimenti che, nel ¡que se vayan todos!, avevano messo in discussione proprio la questione della rappresentanza. Per dirla con Miguel Mellino, dopo los piquetes y los cacerolazos del 2001 e del 2002, non è stato più come prima nel campo del governare, dacché incombe quotidianamente «il potere destituente della moltitudine» (Il kirchnerismo come governance postneoliberista: alcune considerazioni).
Queste esperienze, pur dimostrando dei limiti, sono rimaste in larga misura incomprese in Europa a causa di una copertura giornalistica sommaria e incapace di leggere le politiche latinoamericane. Un eurocentrismo che ha impedito di comprendere fino in fondo le potenzialità di una certa logica politica che nel continente sudamericano andava progressivamente crescendo. Ma soprattutto di leggere quella logica come pericolosa risorsa nelle mani delle formazioni neofasciste, perdendo di vista istanze e classi sociali su cui si regge il populismo. Sull’onda dell’ascesa di Podemos in Spagna – e prima di Syriza, con i giusti distinguo fra le due formazioni – un certo tipo di interpretazione populistica, assai più vicina all’impianto teorico laclausiano, è iniziato a imporsi anche nel panorama europeo.
La ragione populista viene data alle stampe nel pieno di una congiuntura storica determinata, che ha interessato l’America Latina nel decennio socialista, definito anche il «Socialismo del Siglo XXI»4. La ragione populista viene data alle stampe nel pieno di una congiuntura storica determinata, che ha interessato l’America Latina nel decennio socialista, definito anche il «Socialismo del Siglo XXI». Cambi presidenziali a maggioranza di centro-sinistra; rottura con il modello del «Washington Consensus»; l’integrazione e la cooperazione continentale in campo finanziario ed economico; gli accordi interregionali sulle infrastrutture e il fabbisogno energetico. È all’interno di questa cornice che per molti governi sudamericani la posta in gioco è stata quella di avviare un riordinamento politico-economico e culturale in cui termini come «autonomia territoriale», «sviluppo endogeno», «plurinazionalità», «decolonizzazione», «rivoluzione epistemica», «modernizzazioni alternative», fossero diretti allo smantellamento dell’ideologia neoliberale violentemente imposta dalla «Modernità Europea» prima, e dall’imperialismo statunitense, poi. Senza schiacciare o relativizzare il discorso di Laclau, possiamo dire che questa sia una tra le congiunture storiche cui indirettamente La ragione populista guarda, seppur pensata per una divulgazione massiva.
Per altro verso, La ragione populista ripercorre la biografia politico-intellettuale di Laclau, allorché militava negli anni Sessanta nel Partido Socialista Argentino (PSA) e nel Partido Socialista de la Izquierda Nacional (PSIN). Vale a dire, la parabola marxista nella sua ricezione latinoamericana alla luce del fallimento del comunismo internazionale e della conseguente difficoltà di fronteggiare un nuovo ordine di problemi centrati sul moltiplicarsi di movimenti sociali, su fenomeni come il multiculturalismo, la globalizzazione e la deterritorializzazione. Negli anni Sessanta, le vicende storico-politiche del Sudamerica (l’indipendenza e la sua ricostruzione, nel quadro del «buon vicinato»; le rivoluzioni anti-imperialiste e le violente repressioni militari) trovavano risonanza già in studi decolonizzati per fornire ricerche teoriche e concettuali al processo di emancipazione delle realtà coloniali e subalterne.
Dopo la militanza giovanile, negli anni in cui Laclau affronta tra Europa e Stati Uniti la sua formazione teorica, la parabola «eurocentrica» sembra muovere verso il suo rapido declino. In un doppio movimento di presa di coscienza della realtà coloniale e della propria costituzione intellettuale, l’Europa si scopre dominatrice, denunciando le proprie pretese universalistiche, nel momento stesso in cui le realtà appena decolonizzate inaugurano un percorso di dura denuncia e d’emancipazione, la cui parabola teorica culmina nella rapida diffusione del post-strutturalismo e decostruzionismo francesi. Così, le lotte di indipendenza e liberazione, cioè il dare voce ai senza voce, raggiungono le università del Primo mondo.
Ultimo appunto biografico e intellettuale: i punti di riferimento di Laclau, oltre al pensiero post-strutturalista, sono la psicoanalisi lacaniana, la linguistica saussuriana e il marxismo prevalentemente di matrice gramsciana e althusseriana; da qui, l’idea di democrazia radicale e plurale su cui si regge il campo di azione del populismo.
5. In questo contesto biografico e geografico nasce il populismo di Laclau, quale strumento di azione politica, di costruzione di egemonia e di consenso, e dunque di comunicazione politica. Infatti, il fulcro delle sue ricerche è di riabilitare un concetto screditato: il populismo, che di per sé non possiede alcuna «unità referenziale proprio perché non designa un fenomeno circoscrivibile, ma una logica sociale, i cui effetti coprono una varietà di fenomeni. Il populismo è, se vogliamo dirla nel modo più semplice, un modo di costruire il politico».
Beninteso, il filosofo argentino non è difensore di qualsiasi populismo, bensì di un populismo di sinistra, capace di reinserire la tradizione politica progressista nella lotta per l’egemonia da cui è stata a lungo esclusa. Per Laclau, il populismo non è demagogia o eversione oppure reazione, ma un meccanismo democratico attraverso cui i settori marginalizzati della società tentano di far valere la propria voce e di ripristinare il controllo popolare sulle sorti della collettività. L’asse portante del populismo è la suddivisione della società in due poli avversari: il popolo e le élite. Il che spiega anche la sua forte connotazione anti-oligarchica.
Il popolo non è qualcosa di obiettivamente dato, ma il frutto di una costruzione. Il popolo non è un dato identitario e storico, bensì un’invenzione della tradizione e in quanto tale attrezzo indispensabile del politicoIl popolo non è qualcosa di obiettivamente dato, ma il frutto di una costruzione. Il popolo non è un dato identitario e storico, bensì un’invenzione della tradizione e in quanto tale attrezzo indispensabile del politico. Il popolo è l’assemblaggio di diversi settori, ma soprattutto di differenti domande, l’insieme di «domande democratiche inascoltate». Il sistema istituzionale è incapace di assorbirle in modo differenziale – isolate l’una dall’altra – così che fra esse si stabilisce una relazione d’equivalenza che le rende sempre più omogenee, favorendo di conseguenza l’identificazione non più nei soggetti ma nel soggetto delle domande: il popolo. Le domande che Laclau chiama democratiche sono definibili sia in termini socio-economici che culturali, e gravitano attorno a un’idea principale – insieme a un gruppo che l’incarna – e che in un determinato momento storico detiene una centralità nel discorso pubblico. In questo modo, il popolo diviene un’identità politica nuova, singolare e dunque irriducibile alla semplice sommatoria dei settori articolati. Qui si nota il debito gramsciano in Laclau, ossia nel concetto di egemonia: la capacità di una classe di far valere le proprie istanze, in primo luogo, come fattore ideologico e, in secondo luogo, come fattori economico e sociale. Estremizzando i termini gramsciani: chi detiene il «sentire comune», detiene anche il consenso e il potere politico ed economico. Sono così le classi o i gruppi in grado di unificare le domande dell’«eterogeneità sociale» a detenere, potenzialmente, il consenso e il potere politico.
Nella cassetta di Laclau, alcuni attrezzi sono indispensabili nella produzione del discorso, donde l’egemonia e il consenso. Tra questi, troviamo quello di «significante vuoto» o «universale vuoto», ossia un costituente neutro, generico, dell’interazione sociale. Lo stesso concetto di populismo è di per sé un significante vuoto. Così come la stessa società, poiché per definizione non soddisfa tutte le esigenze dei suoi membri. Sorgono in essa un certo numero di richieste, di per sé eterogenee e asimmetriche, che vengono a un certo punto poste su un piano di equivalenza da parte di chi le attiva, e così diventano politiche: espressione di una parte della società che si sente, pur restando parte, legittimata a rappresentare l’intero, a rappresentare cioè il popolo. Il popolo è questo «significante vuoto» da riempire dei significati più vari.
Se il sociale è composto di differenze insormontabili per cui solamente un’eterogeneità può rappresentarla, la domanda che si pone Laclau è se «esista una differenza che, senza cessare di essere una differenza particolare, diventi ciononostante la rappresentazione di una totalità incommensurabile»[5]. Il populismo, dunque, rappresenta un significato quanto più universale possibile che non dinieghi però l’eterogeneità del sociale. In questo iato fra universale e particolare interviene l’egemonia come «operazione di assunzione da parte della particolarità di un significato universale incommensurabile». Va da sé che il concetto di populismo sia adoperabile tanto per una politica progressista, riformista o rivoluzionaria egualitaria quanto addirittura reazionaria e conservatrice, dacché è quell’universalità che tende ad assorbire ogni domanda particolare.
L’equivalenza può costruire un popolo che si contrapponga agli aristocratici, ai capitalisti, ma anche ai rom, ai migranti, ai poveri. L’equivalenza cede qui alla logica del nemico interno. E l’ambivalenza diventa inesorabilmente ambiguitàInoltre, lo strumento dell’equivalenza ha come suo agente dinamico il fatto che, se le richieste non vengono soddisfatte, è per colpa di «qualcuno». Sarebbe di certo rilievo se in tal modo si costituisse un punto di vista di parte, un punto di vista tale da cui prendere posizione secondo uno schema schmittiano di amico-nemico. Il che ci permetterebbe ancora di accogliere tale strumento, se non fosse che nell’universalismo si offuscano le origini differenti, le istanze in partenza eterogenee, per dar luogo funzionalmente al legame emotivo da frapporre all’ostacolo da superare o all’estraneo da espellere oppure al nemico di cui dichiararsi vittime. Nemico che, dopotutto, può assumere le fattezze più diverse. A questo punto le nobili intenzioni laclausiane cedono alla radicale ambiguità del populismo e dei suoi frutti nocivi. L’equivalenza può costruire un popolo o un gruppo che si contrapponga agli aristocratici, ai capitalisti, ma anche ai rom, ai migranti, ai poveri, e così via scendendo negli inferi di quella eterogeneità sociale, donde le domande più disparate purché accolte in un contenitore in grado di divenire maggioranza e contendere il potere al vecchio. L’equivalenza cede qui alla logica del nemico interno. E l’ambivalenza diventa inesorabilmente ambiguità.
In conclusione, Laclau ha elaborato uno schema davvero utile a comprendere la progressione del populismo, ma anche e soprattutto a riconoscere punti di forza e limiti della composizione sociale cui si richiama. Metodi dell’azione politica che, d’altro canto, tramite un attento uso dell’archivio gramsciano potrebbero aiutarci a non cedere all’universalismo che, nel contenere ogni domanda sociale, produca viceversa movimenti di chiusura e partiti reazionari. Gramsci, certo, muoveva le sue analisi dalle forze produttive e dai rapporti di produzione, donde l’eterogeneità sociale, ma questa doveva poi essere istradata verso istanze e riconoscimenti che producevano a forme di organizzazione e di partecipazione consiliare direttamente nei luoghi della produzione. Così come, il consenso passa dall’analisi della cultura popolare e del sentire comune, ma con l’intento di intervenirvi con quegli stessi strumenti e con una comunicazione che cortocircuiti l’ordine del discorso reazionario, leghista e neofascista.
E non in ultimo, il problema del leader e della figura carismatica tipicamente del populismo. Lo stesso Laclau non si è sottratto, né tantomeno ha risolto il problema della leadership eccessivamente accentrata che sorge nei movimenti e nei partiti populisti. Perché non è un problema, anzi, è una risorsa dello stesso populismo. D’altronde, la teoria laclausiana risente della realtà latinoamericana, dove il riferimento al popolo ha una valenza potentemente simbolica, ma con un forte ascendente da parte di forme di presidenzialismo spinto e di leader carismatici. Si evince icasticamente da questo stralcio di intervista a Laclau citato da Brighenti e Mezzadra: «nell’attuale periodo storico, senza Chávez il processo di riforma in Venezuela sarebbe impensabile […] Senza Evo Morales, il cambiamento in Bolivia è impensabile. In Argentina non siamo arrivati a una situazione in cui Kirchner è indispensabile, però se tutto ciò che rappresenta il kirchnerismo come configurazione politica scompare, scompariranno altresì molte possibilità di cambiamento». Un anno e mezzo dopo, sulla scorta del trionfo elettorale di Cristina Kirchner, Laclau torna a difendere la sua posizione: «in America Latina abbiamo sistemi presidenzialisti forti e i processi di cambiamento si cristallizzano intorno a certe figure, ragion per cui sostituirle crea uno squilibrio politico» (Il laboratorio politico latinoamericano).
Questi punti di debolezza potrebbero essere ambivalenze su cui intervenire. Finora, però, sono state ambiguità di un concetto fortemente incisivo quanto potenzialmente pericoloso. Ogniqualvolta si parli di populismo è indispensabile coglierne la continua ambivalenza e/o ambiguità, col rischio di ritrovarsi involontariamente nel campo nemico, seppur con nobili intenzioni.
Note
1. ↩ E. Leonardi, Populismo come adattamento. Note critiche sull’analisi laclausiana della Lega Nord, in M. Baldassari, D. Melegari (a cura di), Populismo e democrazia radicale, ombre corte, Verona 2012, pp. 84-95.
2. ↩ Ivi, pp. 91-92.
3. ↩ J. Butler, E. Laclau, S. Žižek, Dialoghi sulla Sinistra. Contingenza, egemonia, universalità, a cura di L. Bazzicalupo, Laterza, 2010.
4. ↩ E. Laclau, C. Mouffe, Egenomia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale, a cura di F. M. Cacciatore , M. Filippini, Il Nuovo Melangolo, 2011.
5. ↩ E. Laclau, La ragione populista, a cura di D. Tarizzo, Laterza, 2008, pp. 66-67.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento