Alla fine ci sono arrivati anche loro...
La Germania è in crisi, la sua crescita si è fermata, anzi – scrive Bundesbank, la banca centrale tedesca, nel suo Bollettino mensile – «anche nel trimestre in corso, l’attività economica potrebbe diminuire leggermente». Per le regole statistiche, a quel punto Berlino sarà in recessione tecnica. Di poco, si dirà, ma va ricordato che nell’attuale modo di produzione capitalistico la “crescita” dovrebbe essere la norma, altrimenti comincia una fuga dagli investimenti e dai consumi che può gettare nel caos il sistema in aree più o meno estese.
E la Germania è diventata negli ultimi tre decenni il “motore” d’Europa, riscrivendo la geografia delle filiere industriali in funzione delle proprie. Quindi se “decresce” si trascina dietro tutti gli altri paesi.
Se ci è arrivata persino Bundesbank la situazione deve essere davvero grave. Gli “esperti” dei suoi uffici studi, infatti, ancora in febbraio scrivevano che “L’economia tedesca ha fatto registrare un chiaro rallentamento nel corso degli ultimi mesi ma non vi sono segnali che questo rallentamento si stia tramutando in una recessione vera e propria”. Come indovini fanno davvero pena, diciamolo...
C’è però una ragione politica, e ben poco scientifica, dietro questa voluta cecità. Berlino è il cuore pulsante delle politiche dell’Unione Europea, in special modo per quanto riguarda la gestione dell’economia. L’“austerità” è stata imposta a tutti – anche ai propri lavoratori, con la precarietà delle leggi Hartz e un blocco salariale ultra decennale – come via per la “crescita” trainata dalle esportazioni. In pratica, si è pensato da quelle parti quasi 30 anni fa, va costruito un sistema basato sui bassi salari per rendere più competitive globalmente le nostre merci.
Tutto bene fin quando la “globalizzazione” avanzava a passo di carico, un disastro quando questa è finita dando il via a una competizione tra macro-aree continentali (Nord America, Unione Europea, Cina, Russia, paesi emergenti), rallentando gli scambia commerciali globali. Per una economia già in difficoltà con il dieselgate (che rivelava non solo pratiche industriali truffaldine, ma soprattutto una mancata innovazione tecnologica) la mazzata finale è arrivata con la “guerra dei dazi” avviata da Donald Trump e il fortissimo rafforzamento del mercato interno cinese. Per reggere questa condizione non basta più avere buone merci da piazzare a prezzi competitivi (i dazi li fanno aumentare d’autorità), occorre aver costruito un sistema stabile, con disuguaglianze in via di diminuzione (non in crescita, come in Occidente).
In questi ultimi due anni, insomma, sono stati erosi gli sbocchi esterni della produzione tedesca (e, quota parte, di tutte le economie Ue) e queste perdite non potevano essere compensate da una crescita del mercato interno, congelato da anni di bassi salari e precarietà contrattuale (che, ovviamente, impedisce persino i consumi a rate, ossia per l’acquisto di auto, case, beni durevoli, ecc).
Per la prima volta, dunque, il ministro delle Finanze Olaf Scholz – “socialdemocratico”, ma indistinguibile dall’ultraliberista Wolfgang Schaeuble che lo aveva preceduto – ha dichiarato di essere disponibile ad allargare i cordoni della borsa e aumentare la spesa pubblica, con interventi extra fino a 50 miliardi di euro. Ossia quanto la Germania aveva dovuto spendere oltre dieci anni fa, ai tempi della Grande Recessione esplosa con la crisi dei mutui subprime, dei “prodotti finanziari derivati” e il fallimento di Lehmann Brothers.
È la risposta più normale e scontata, in tempi di crisi. Se l’economia privata “non tira più”, l’investimento o comunque la spesa pubblica forniscono quel carburante supplementare necessario a creare un ambiente economico più favorevole.
Questo, però, è proprio quello che è stato impedito – da un decennio a questa parte – a tutti i paesi europei, per quanto in crisi potessero essere. Tagliare la spesa e il debito pubblico, anche in una fase di recessione, è stata una direttiva feroce e stupida, che ha distrutto interi paesi (la Grecia su tutti) e ha, appunto, subordinato interi comparti produttivi europei alle scelte e agli ordinativi provenienti dalla Germania.
Il rischio evidente, dal punto di vista tedesco, è che se ora Berlino viene meno alle regole di austerità altri paesi – tutti, in pratica – potrebbe chiedere a Bruxelles di essere autorizzati a fare altrettanto. Anche perché la Germania sta prendendo queste decisioni senza neppure consultare la Commissione Europea...
Lo sa bene lo stesso Scholz, che ha subito chiarito che non c’è paragone possibile con altri paesi perché la Germania ha ridotto il debito/Pil sotto il 60% in questi dieci anni di crescita. E gli altri no.
Dimentica ovviamente di ricordare che l’invidiabile – fino a questo punto – posizione tedesca è stata possibile non solo, o non tanto, per la forza industriale del paese, ma per un sistema di trattati continentali disegnati sulle esigenze di Berlino e a cui la Germania si è sottratta ogni volta che le è stato utile.
Per esempio, tutti conoscono la (stupida) regola del limite del 3% per il deficit pubblico (il margine di spesa annuale “in rosso”); ben pochi ricordano che tra le regole di Maastricht esiste lo stesso limite anche per il surplus. E che Berlino lo sfora sistematicamente da quando la regola è stata accettata da tutti.
È chiaro che in una economia continentale gestita secondo regole comuni, il surplus di un paese implica il deficit di qualcun altro. E se il paese in surplus non investe o non spende quel surplus, i deficit altrui sono destinati a restare od aumentare.
Non basta. Lo straordinario risultato nella riduzione del debito pubblico tedesco (entro i limiti del 60%) è stato possibile solo grazie alle politiche monetarie della Bce. Tra tassi zero e quantitative easing, infatti, la Bce ha potuto acquistare titoli di stato sul mercato secondario, ma con preferenza obbligata per quelli più “sicuri”. In questo modo i Bund tedeschi hanno visto scendere i rendimenti (gli interessi da pagare, annualmente e a scadenza) sotto zero. Il che significa: la Germania può rifinanziare il proprio debito pubblico senza spendere un euro, anzi guadagnandoci pure qualcosa.
Tutto questo meccanismo distorto e decisamente assurdo (non è “normale”, in nessun regime economico, che il debitore guadagni sui prestiti che riceve) ha provocato altri problemi serissimi, come la perdita di redditività per gli “investitori istituzionali” che acquistano grandi quantità di Bund (le banche tedesche, in primo luogo) e infine addirittura il fallimento di un’asta di titoli di Stato tedeschi. Come accade a volte solo per i paesi in default...
A smuovere il governo di Berlino sono stati numerosi altri problemi, a cominciare da quelli politici. Tra pochi giorni si vota in Sassonia e Brandeburgo, due regioni nella ex-Germania dell’Est, la parte più povera del paese e quella dove la crisi, anche occupazionale, è più avvertita.
Ma un grande peso, su tempi più lunghi, lo ha naturalmente l’autentico tracollo della produzione industriale (-1,5% su base mensile, a luglio, ma -5,2% rispetto a un anno), che entro pochi mesi si riverserà su tutta l’industria continentale (la produzione italiana, per esempio, è “contoterzista” di quella tedesca, non alternativa).
Dunque Berlino non ha più scelte. Deve investire denaro pubblico e allo stesso tempo cercare di impedire che altri paesi facciano lo stesso. Deve lasciar salire un po’ i salari interni, ma “raccomandare” agli altri di non farlo. Deve autorizzare la Bce a “lanciare denaro dagli elicotteri”, ma con una preferenza territoriale molto circoscritta al “grande Nord” europeo.
Deve insomma seminare contraddizioni palesi, evidenti, complicate da gestire. Sarebbe una buona occasione per colpire al cuore la governance europea... Ma non certo a chiacchiere.
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