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24/08/2019

Case e campagne bruciavan già, questo è il tedesco e la sua civiltà

di Luca Baiada

Il 23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, i tedeschi con la complicità di fascisti italiani massacrano 174 persone.

C’è un personaggio tipico, in queste stragi: il tedesco buono. Si rifiuta di sparare, nasconde, protegge. Nelle narrazioni orali è frequente, in quelle scritte svanisce o si ridimensiona in proporzione alla loro serietà. È sorprendente che, a distanza di tanti anni, su di lui non esistano trattazioni approfondite, ma solo cenni o studi per singoli casi.

G.T. nel 1997: «Il ’mi babbo lo preseno i tedeschi e lo portarono laggiù in Padule dove ammazzaron tutti. Un tedesco gli disse: “Tu diventare piccolo”: lo fece butta’ in terra, gli sparò due colpi di pistola a fianco e poi urlò a quell’altri. Il mi’ babbo ’un seppe mi’a di’ quel che avevan detto». V.T. nel 2004: «Vennero fucilati anche due tedeschi, almeno io l’ho sempre sentita raccontare così, che quel giorno lì si rifiutarono di sparare, vennero fucilati dagli stessi tedeschi assieme a quell’altra gente nell’aia di casa Simoni, perché si rifiutarono di sparare perché avevano i figlioli piccini a casa». Altre persone, sin dalle prime indagini, ricordarono gesti pietosi.

A Stabbia portano via otto persone da casa Pieri, per ucciderle poco lontano. Fra loro, il sedicenne Franco quando sente sparare si getta a terra; uno solo dei tedeschi si avvicina a finirli e lo colpisce in un punto non vitale. In realtà, se davvero avesse voluto risparmiarlo, avrebbe sparato in aria o nel terreno, e non ferendolo col rischio che gridasse richiamando l’attenzione degli altri. Franco Pieri si salva perché si finge morto.

Gino Simoni teme un rastrellamento di uomini e lascia il casolare. Ecco che lo fermano: no, gli dicono di andare a casa perché c’è pericolo, ma Gino va da un’altra parte. Quando tornerà a casa troverà ventitré corpi, anche quelli di sua moglie e sua figlia. Sono le premure del tedesco buono.

I racconti dei tedeschi agli italiani costretti ad alloggiarli sono stati letti come casi di umanità. A una donna un militare dice di essere stato nel Padule e di aver visto uomini, donne e bambini uccisi. A un’altra dicono di aver ucciso partigiani, uomini, donne, bambini. Non c’è nulla che non si sappia già, alcuni ammettono di aver partecipato, ma il bisogno di sentire nell’assassino un turbamento prevale sul senno. Si vedrà un soccorso persino in chi, dopo, dà una mano a raccogliere i cadaveri.

Le violenze nei poderi della fattoria Poggi Banchieri comprendono l’assassinio di cinquantaquattro contadini e il sequestro di molti altri, tenuti in sospeso fra la vita e la morte; gli scampati racconteranno storie con tedeschi commossi, fucili caduti di mano o lasciati sulla soglia, militari che mandano gli italiani da un colonnello, soli, perché chiedano a lui se devono morire, e altre versioni in cui la realtà sembra sospesa o stravolta.

Il racconto estremo per ribaltamento morale è a Massarella: Dante e Quinto Guidi sono uccisi, i loro occhi sono cavati e mostrati ai paesani. Ma corre una diceria: inizialmente due tedeschi ricevono l’ordine di uccidere, si rifiutano e sono fucilati (tutto falso); quindi l’incarico è affidato ad altri, che devono portare ai superiori gli occhi delle vittime, come prova. Aver cavato gli occhi diventa la base per congetturare bontà: due tedeschi così generosi da rimetterci la vita.

L’equivoco maggiore è su alcuni appunti, citati come diario. Il testo, che proviene dal tenente Leopold von Buch, della 26ª divisione corazzata della Wehrmacht, responsabile del massacro, il 23 agosto dice: «Ore 0 in marcia. Ore 5 approntamento. Ore 7 dispiegamento, niente partigiani. Donne e bambini. Compaiono in parte immagini schifose. Palude non praticabile, innumerevoli fossati profondi. Molte capanne con civili, evidenti profughi dai dintorni. Caldo pazzesco. Ore 14 fine». Scheussliche Bilder, immagini schifose, è stato tradotto come «immagini orrende», «episodi orripilanti» o «scene atroci», cioè come un turbamento morale. Il tenente, che da civile fa l’ingegnere, è irritato dall’afa ed è colpito nel senso estetico; non precisa se lo schifo che ha visto consistesse di vivi o morti, e tace sulla strage; ma i lettori vedranno un diario commosso. I malintesi linguistici fanno la loro parte. Nel film Kapò un internato nel Lager deve stare in piedi a un passo da una barriera elettrificata: se cade in avanti c’è la corrente, se indietreggia gli sparano. Un soldato si avvicina per spingerlo verso i fili, un altro lo ferma: «Nein, nicht so! Mal sehen wie es ausgeht!». Può sembrare umanità. Il soccorritore ha detto solo che vuole vedere come va a finire.

Un chiarimento che si è fatto attendere sino a quest’anno, riguarda un alsaziano costretto dai tedeschi ad arruolarsi, uno dei malgré-nous francesi che vissero la guerra su più fronti. Era in Padule con la 26ª divisione, negli anni successivi fu cheto coi familiari ma fece qualche confidenza al nipote. Proprio col nipote, coltivando una ricerca vibrante, è stata affrontata la narrazione bonaria in cui era avvolta quella giornata toscana di tanto tempo fa. La realtà l’ha scosso, ma sollevato dal dubbio.

Osservato meglio, il tedesco buono perde sostanza o svanisce, come se fosse destinato a essere visto solo con la coda dell’occhio.

C’è di mezzo la questione del gruppo e dello spaesamento: la casa del tedesco buono è sul confine. Pietro Clemente l’ha identificato col trickster tipico di tanta mitologia. Di certo c’è un fatto semplice e imbarazzante: lo stato d’animo dell’innocente, della vittima, del disarmato, messo di fronte a rapporti di forza mortali e mortificanti. Il tedesco buono dimostra la bontà di chi l’ha immaginato e la ferita nella sua autostima.

Poi, in certe generosità a scomparsa c’è il capriccio del violento, come nei Lager. Bruno Bettelheim nota l’imprevedibilità dell’ambiente e ipotizza nelle SS tecniche di annientamento degli internati: «Può essere questa la spiegazione del perché le SS oscillassero continuamente fra una durezza estrema e un allentamento della tensione. […] Era impressionante osservare con quale abilità le SS si servissero di questi meccanismi per distruggere la fiducia delle persone nella propria capacità di prevedere il futuro». Nathalie Zajde: «Se si intende fare impazzire qualcuno, renderlo completamente dipendente dal suo ambiente, se lo si vuole privare del proprio principio vitale, è sufficiente imporgli un vissuto di non-senso e di contraddizioni».

Ancora. Nel racconto Golia, di Beppe Fenoglio, ci si chiede cosa abbia fatto di male quel prigioniero simpatico: «A me niente, ma qualcosa avrà ben fatto a qualcun altro. Pensa un momento, Sandor, a tutto quello che hanno fatto i tedeschi in Italia. Ne hanno fatte tante, dico io, che per farle debbono essercisi messi tutti quanti sono, nessuno escluso, e quindi Fritz compreso». Marcello Venturi, Il nemico ritrovato, è rigoroso, però l’incontro col giovane tedesco, tanti anni dopo, lascia molte cose irrisolte. Nel Disperso di Marburg di Nuto Revelli il riferimento al tedesco buono è esplicito. Eppure parla di un militare, in Piemonte, soltanto tranquillo: non salva nessuno, accarezza i bambini e va a cavallo. Viene da pensare che anche la ricerca su di lui esprima un bisogno di bontà. Nel Basso Valdarno c’è una storia così simile al Disperso di Marburg che ho pensato a un plagio: la verifica mi ha messo di fronte a un cortocircuito sconcertante.

Hanno un peso l’inaccettabilità del sangue e la necessità di convivere col lutto; la bontà del carnefice serve a chi soffre per sopravvivere. Però.

Liliana Segre, nel convegno Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità: «E allora ti domandi: perché? È quel perché che non mi ha mai lasciato. È stato quello stupore per il male altrui, di cui parlo sempre quando parlo ai ragazzi». Lo stupore per il male altrui. La senatrice Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, non immagina bontà nei suoi aguzzini. In questo c’è la differenza fra serbare la morale e invece metterla a rischio, anche credendo di far bene. Chi non accetta il male deve restare col suo amaro stupore; chi immagina la bontà che non c’è, inventa un lieto fine. L’assuefazione al male o la sua confusione col bene sono un successo postumo della violenza. Ma gli scampati a un massacro non vanno accusati di debolezza etica; chi riflette con altri mezzi non deve considerare inadeguata la loro elaborazione.

Insomma, sia chiaro: nulla di ciò che è scritto qui corrisponde alla percezione dei contadini, dei pastori e degli sfollati uccisi nel 1944. Una decina erano benestanti, gli altri vivevano tra la frugalità e la più nera miseria. Avevano titoli di studio bassi, alcuni erano analfabeti, di parecchi non esiste una fotografia. La cultura di quelle comunità era fatta di legami familiari ampi e robusti, cristianesimo parrocchiale, riti e abitudini rurali che sanno di mondo pagano sopravvissuto fra le pieghe della storia. La loro versione di quanto accadde emerge faticosamente. Quando prende la parola è pura e gagliarda, come la ballata Popolo se m’ascolti, attribuita a un barrocciaio della Valdinievole e trasmessa a memoria; in un verso, senza l’uggia di bontà tedesche, fa: «Case e campagne bruciavan già, questo è il tedesco e la sua civiltà». Adesso, se quel mondo è sottoposto a ermeneutiche raffinate, subisce nuova violenza. Più l’interprete è sottile e più manovra una tecnologia sociale dominante, cioè assume la parte di un massacratore: sceglie cosa dire e tacere, seziona, distingue, sopprime e risparmia. Dunque il tedesco buono – è già stato scritto – è il più spietato dei nemici: uno specchio. Il tedesco buono sono io, e se catturo la tua attenzione, sei tu che leggi.

Ecco motivi in più per diffidare delle politiche riparazioniste. Nel 2008 la Cassazione ha ribadito che si può condannare la Germania a pagare risarcimenti per stragi e deportazioni, ma a Trieste c’è stato un vertice bilaterale con Berlusconi, Merkel, e i ministri degli esteri Frattini e Steinmeier. Da allora Berlino ha fatto ogni mossa legale per evitare il pagamento e ha preso a finanziare prodotti culturali, curando minuziosamente che nulla andasse alle famiglie colpite. La proporzione, fra la spesa che sostiene e il debito, per lo Stato tedesco è vantaggiosa, per gli italiani è una beffa. Ma il trucco funziona, alimenta la leggenda dei tedeschi che hanno fatto i conti col passato. La realtà è che la Germania ha investito bene una somma modesta per fabbricare una rispettabilità, facciata utile all’inadempimento di un debito enorme.

Come il tedesco buono lascia dietro di sé un’aura di salvezza, così la Germania buona, partecipando a incontri e prodotti culturali, miete consensi col sottinteso che chi fa obiezioni non ama la pace, la riconciliazione, l’Europa. Le parole dei diplomatici tedeschi e del notabilato italiano, alle commemorazioni, alle presentazioni di studi e alle inaugurazioni di monumenti, insistono su racconti, retoriche di esecrazione, propositi solenni per il futuro (il solito mai più), garanzie di amicizia; talora suggeriscono narrazioni revisioniste, spesso porgono ringraziamenti untuosi. In certi casi si tratta di iniziative che le amministrazioni hanno trascurato per anni, e che infine hanno chiesto a Berlino di pagare, ricevendo un’adesione zelante e furba. Un’industria della memoria muove il suo sottobosco affaristico, la società dello spettacolo trionfa, le famiglie restano a mani vuote. Solo a volte si accenna ai risarcimenti, per dire che sono materia prosaica o superata, velleità perdenti, azzardi, capricci.

È accaduto così anche per la strage del Padule, che ha visto una pubblicazione di un frate nel 1945, una di un giornalista nel 1974 e approfondimenti più precisi tanti anni dopo. Ancora adesso, di molte vittime si sa poco più che il nome. L’ultimo processo si è chiuso nel 2012 con due ergastoli e risarcimenti alle parti civili (solo per le provvisionali, quasi quindici milioni di euro). La Germania non ha consegnato i condannati, non ha pagato nulla e, forse agevolata dal fatto che il territorio è diviso fra cinque comuni, ha finanziato le iniziative più disparate. Varrebbe la pena – una pena, davvero – ricapitolarle, per capire cos’è il riparazionismo.

Rientra nelle attività riparazioniste, più in generale, anche il libro a cura di Gianluca Fulvetti e Paolo Pezzino, Zone di guerra, geografie di sangue, 2016, che fa parte dell’Atlante delle stragi, finanziato da Berlino, e che comprende Carlo Gentile, I tedeschi e la guerra ai civili in Italia. Gentile, che ha fatto parte della Commissione storica italo-tedesca voluta nel 2008 ed è nel comitato scientifico dell’Atlante, su Fucecchio sostiene che almeno qualche militare sembrerebbe essersi astenuto dalla partecipazione al crimine; lo dice citando se stesso, I crimini di guerra tedeschi in Italia. 1943-1945, 2015. Ma quel libro, a sua volta, si basa su dichiarazioni autoassolutorie dei militari e su memorialistica di parte, specialmente su uno scritto di Kurt Baden del 1985-1986 e su un altro di Georg Staiger del 1957; tutte fonti tedesche marginali, quasi introvabili e recepite senza critica. Di Staiger, si cita: «Sia concesso […] sperare che oggi l’accaduto sia perdonato e che ci sia permesso di inchinarci con rispetto insieme ai superstiti al cospetto delle vittime». Il perdono, l’inchino, il rispetto. Evidentemente già negli anni Cinquanta, in Germania, si ambiva a porsi dinanzi alle vittime sullo stesso piano dei superstiti, mentre la giustizia veniva insabbiata. Lo stesso Gentile, parlando della 26ª divisione, cede all’estetica del militarismo: «Raccoglieva le usanze di alcuni vecchi e prestigiosi reggimenti della guardia di Berlino e Potsdam e coltivava un’immagine di sé che si richiamava espressamente alla tradizione militare prussiana. Non a caso il suo contrassegno era una testa stilizzata di granatiere dell’epoca di Federico il Grande». Ancora: «L’omicidio intenzionale di donne e bambini mascherato da “lotta alle bande” non faceva parte del canone valoriale di tutti gli ufficiali della divisione». A lungo andare, la fabbricazione del tedesco buono ha preso posto in studi allineati sulle esigenze del mondo accademico, per poi mettersi comoda nella versione ufficiale finanziata dalla Germania. Il tedesco buono è tornato a casa e si è moltiplicato: la divisione buona, la Germania buona.

Un tempo, in Valdinievole si videro la bontà nell’ammissione dei fatti, un soccorso nella raccolta dei cadaveri, un salvatore in chi aveva sparato a un ragazzo; adesso sembra riparazione il finanziamento del ricordo.

Tutto questo somiglia ai meccanismi distruttivi della fiducia notati da Bettelheim e al vissuto di non-senso descritto dalla Zajde. La privazione del principio vitale può riguardare anche le comunità, non solo i singoli. Se è così, ripensandoci oggi, gli occhi cavati e mostrati all’osteria non dicono bontà tedesca pagata cara, ma cecità italiana comprata con poco. Questo, però, solo per gli osservatori ridotti a pubblico, perché la regia delle iniziative riparazioniste è più consapevole della realtà che vittima di suggestione. Il tedesco buono prova la bontà di chi l’ha immaginato. Invece la Germania buona può provare l’ingenuità di quelli che credono alle lacrime del coccodrillo, mentre lascia irrisolta la cattiva coscienza di chi il coccodrillo lo invita a cena, con le vittime nel menù.

Ma oggi è il momento di ricordare con affetto quei morti, quei diversamente vivi che ci chiedono di essere più vivi, anche per loro. Due nomi: Maria Malucchi e Carmela Arinci. Non apprezzarono il prestigio dei reggimenti di Potsdam. Neppure ammirarono la testa stilizzata dei granatieri di Federico il Grande: una, quattro mesi, era troppo piccola; l’altra, novantadue anni, era cieca. Sono da ricordare anche i loro parenti che attendono giustizia. La scelta su da che parte stare non è sul passato, riguarda noi.

In fondo, la condiscendenza nei confronti di chi ha massacrato gli italiani è come il fascismo: una prepotenza perdente, un’adunata euforica di depressione organizzata, con gli psicofarmaci offerti dai bulli festanti. La rassegnazione è afasia e va evitata, anche se il clima paludoso favorisce il demone meridiano dell’accidia.

Contro gli accidiosi, il più energico è un esule tosco; li ficca proprio in una palude, quella Stigia: «Fitti nel limo dicon: “Tristi fummo / ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, / portando dentro accidïoso fummo: / or ci attristiam ne la belletta negra”. / Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, / ché dir nol posson con parola integra».

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