Un paese senza più una classe politica. Di nessun orientamento (destra, centro, “sinistra”). Solo una piccola corte di nanerottoli con l’occhio incollato ai like o ai sondaggi, preoccupati di non sembrare perdenti pur essendolo, fin nel profondo del loro scarso essere.
Quella andata in scena ieri, dentro il Quirinale e nell’orgia di telefonate che accompagnano le “consultazioni” del presidente della Repubblica, è stato uno spettacolo anche peggiore di quello visto al Senato, per le dimissioni di Giuseppe Conte.
I tre principali raggruppamenti di parlamentari (eccessivo chiamarli “partiti”) hanno squadernato cento trucchi da antica Roma, miseria culturale, irresponsabilità e dilettantismo. In parti praticamente uguali.
Si trattava di rispondere a una domanda presidenziale in fondo semplice: volete fare un nuovo governo o andare a votare?
Salvini, che ha finalmente capito di essersi fregato con le proprie mani, ha chiesto il voto anticipato ma ha contemporaneamente offerto a Luigi Di Maio di fare il premier (per poter riprendere il vecchio gioco dell’“io comando e tu paghi il prezzo”). Sa che anche un “governo di garanzia elettorale”, che scriva la legge di stabilità e prepari il voto (in primavera, a questo punto), sarebbe per lui fatale. Uscito dal ministero dell’interno, infatti, non riuscirebbe più a monopolizzare i media tra una nave ong bloccata al largo e uno scippo fatto da “extracomunitari” (salvo poi magari scoprire che si tratta di italiani o statunitensi, come nel caso del carabiniere ucciso a Roma).
Il Pd è una federazione di cacicchi dove ognuno gioca per sé, polarizzata intorno a due interessi miserabili ma dominanti: Zingaretti non vedrebbe male il voto anticipato per liberarsi dei gruppi parlamentari nominati da Renzi, e quest’ultimo – ovviamente – prova ad utilizzare questa massa di manovra residua per ricavarsi un nuovo spazio politico, da cui convergere poi verso una formazione di “centro” molto spostata a destra.
I Cinque Stelle, tornati per un attimo, oggettivamente al centro del campo di gioco, sono tentati da tutte le sirene: fare un governo col Pd, tornare all’ovile con Salvini, prendere tempo in attesa di vedere, varie ed eventuali.
Nessuno che risponda a quella domanda semplice: vuoi fare un governo e insieme a chi? Inevitabile che un presidente formato in ben altra temperie politica, seppure in una posizione defilata se non secondaria, mettesse un limite temporale severo: cinque giorni per presentare un progetto serio, oppure si va a votare.
Come sempre, se si è creata una situazione del genere, è più importante capire perché, non limitarsi a irridere questi quattro truffatorelli senza qualità.
Diciamo spesso che da circa 30 anni a questa parte – dagli accordi di Maastricht in poi – chiunque vinca le elezioni politiche si trova nella impossibilità pratica di scegliere quale politica fare. L’“indipendenza” decisionale, infatti, si esercita in primo luogo sulle risorse economiche e finanziarie di cui il paese dispone. Se queste sono – definitivamente – nelle mani della tecnoburocrazia di Bruxelles, gli “eletti dal popolo” possono solo esercitare la fantasia su come nascondere questa impotenza sotto valanghe di “comunicazione”, falsi nemici, emergenze inventate o ingigantite (quella sui migranti ha assunto toni criminali e criminogeni), “riforme” minime su dettagli in fondo secondari (un diritto civile in più, uno sgravio fiscale aggiuntivo, un evento sportivo da ospitare, ecc.).
I trattati europei, infatti, non impongono soltanto tetti a quanto e come lo Stato può spendere, ma anche a chi sottrarre risorse (lavoratori, pensionati, malati, studenti, ecc.) e a chi destinare le poche che restano (alle imprese; sempre e con qualsiasi governo).
Trent’anni di questa ginnastica della simulazione di una “differenza apprezzabile” tra una formazione e l’altra hanno dissolto qualsiasi vero confine tra aree politiche (oltre un terzo degli eletti aveva cambiato casacca nell’ultima legislatura). Ma soprattutto ha cancellato qualsiasi senso di responsabilità o cultura della politica come “servizio” al paese (alla classe dominante, com’è ovvio).
Una genia di attorucoli e maneggioni di bassa lega si è dunque selezionata nel tempo come l’unica “adatta” (in senso evoluzionistico) a stare su questa scena fatta di fondali di cartone. Statisti, intellettuali, funzionari di qualità, ecc. sono stati progressivamente resi inutili, fastidiosi, buoni al più per “alzare il livello” in qualche talk show.
Un solo esempio per farci capire: i Cinque Stelle hanno messo la “riduzione dei parlamentari” quasi come unico punto discriminante per formare un governo. Con chiunque.
Uniscono dunque un punto di programma particolarmente misero e chiaramente “propagandistico” con una disinvoltura per le alleanze che neanche Andreotti esibiva con tanta noncuranza.
Perché misero? I “costi della politica” si possono ridurre in molti modi. La via più semplice era il taglio degli stipendi, effettivamente scandalosi in rapporto alla media del Continente. Bastava una legge ordinaria, a maggioranza semplice; un voto in ciascuna Camera e via...
E invece no. Si è scelta la via della riforma costituzionale, perché il numero dei componenti di Camera e Senato sono indicati nella Carta. Il che richiedeva ben quattro voti (due per ogni ramo del Parlamento) e, per non strozzare in modo autoritario il diritto alla rappresentanza politica, anche l’ennesima riforma della legge elettorale.
Incompetenza, furbizie, chiacchiere spacciate per alti valori (che differenza epocale c’è tra una Camera con 630 o 400 deputati?), ricerca ossessiva di un piccolo scalpo da mostrare ai propri elettori delusi. Come i “porti chiusi” di Salvini, soltanto per le navi Ong, mentre arrivano decine di barchini sopravvissuti alla traversata da Libia o Tunisia.
Potremmo fare altri cento esempi, ma sarebbe un viaggio inutile nella miseria.
Il livello delle varie figure borghesi di questo paese si specchia in questo cesso di rappresentanza politica, dilettantesca come i rapinatori di “Quel pomeriggio di un giorno da cani”.
Oltre 20 anni fa, ricordiamo, diversi industrialotti e protoleghisti del Nordest invocavano una “facoltà universitaria della sedia”, convinti che una simile barzelletta potesse far “crescere” i piccoli mobilifici locali. Ecco, ora abbiamo una “classe politica” all’altezza di quella richiesta, incapace di alzare lo sguardo al di sopra una poltrona istituzionale, vista solo come l’occasione per farsi gli affari propri (e dei propri committenti, come si è visto con il caso Siri).
Sarà il caso, infine, di tornare al più presto su molte delle corbellerie sparse come “senso comune” dal grillismo (uno vale uno, democrazia in rete, rotazione forsennata degli eletti, “legalità” come unico orizzonte valoriale, ecc.). È ora di liberare i cervelli dalle sostanze tossiche...
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