Inizia con un amarcord l’operazione d’un futuro afghano ammantato della retorica del passato. Così dopo The Times, il nostrano Corriere della Sera mostra in prima pagina un Ahmad Massud bambino accanto a papà Shah, il “leone del Panshir”, prima che due falsi giornalisti, di fatto kamikaze qaedisti, lo facessero saltare in aria con la scusa di un’intervista. Si richiama il progetto attuale dell’unico maschio Massud, che ha sei sorelle, è vissuto a Londra, ha studiato nel locale King’s College, ha ottenuto un master in politica internazionale, s’è pure formato nell’Accademia militare di Sandhurst, e dopo diciott’anni è tornato nel Panshir. Si dice che parli ai tajiki delle tribù locali, ponendosi nientemeno che il sogno di diventare un leader per l’intero Afghanistan, magari presentandosi alle presidenziali del prossimo settembre. Se non ci fossero di mezzo il nome e la seconda comunità etnica del Paese, che però non va al di là del 21% della popolazione, l’iniziativa non farebbe notizia. Perché nella realtà il progetto di Massud jr appare impraticabile, non tanto perché fuori dalla cinica agenda detta da Washington, che da oltre un anno patteggia coi talebani i prossimi passi per governare le varie province afghane, ma perché proprio i trascorsi politici di Massud padre, rievocano una doppia metastasi mai risolta che tuttora affligge quella nazione assieme all’occupazione straniera: lo strapotere del tribalismo etnico e dei signori della guerra.
La figura, pur celebratissima, di Shah Massud è divisiva per quel che fece, naturalmente non solo lui, dopo la resistenza alle truppe sovietiche che nel dicembre 1979 entravano a Kabul. Se negli anni della guerriglia si guadagnò gli onori delle cronache umiliando l’Armata Rossa nella nativa valle, accompagnato peraltro da un mujaheddin che i russi temevano ancor più, il dinamitardo Abdul Haq, il mito del cosiddetto “Che Guevara islamico” fu un’invenzione della stampa internazionale. Francese soprattutto, con cui Massud aveva facilità di comunicazione per la conoscenza linguistica, ma anche italiana, basata quest’ultima sui racconti di quell’ottimo narratore che è stato Ettore Mo, proprio sul Corsera. Shan Massud, accogliente, meditativo, acculturato diventava la figura dell’islamista buono; niente a che vedere con la perversione di Hekmatyar, il rude opportunismo di Dostum, i fanatismi opposti di sunniti (Sayyaf) e sciiti (Mazari). Eppure egli stesso era un signore della guerra, che detta così appare un’ovvietà visto che era un mujaheddin, ma egualmente un uomo di potere. L’altra faccia del leone venne fuori durante la guerra civile del quadriennio 1992-96, quando i Warlords per prendere Kabul, massacravano civili a non finire. Incuranti di sangue, lutti, distruzioni, per nulla diversi dagli invasori di ogni epoca. Altro che ideali, altro che Che.
Nel corso d’un reportage di alcuni anni addietro incontrammo testimoni vecchi e meno anziani di quei giorni tremendi. Ci diceva Ubaid Ahmad, membro della locale ong Hawca che si occupa di rifugio per donne abusate “Ero bambino, ma ricordo, ricordo tutto. Di nascosto m’affacciavo fuori di casa. Lo sguardo era calamitato dall’artiglieria che cannoneggiava sul fronte opposto. Sulla montagna occidentale era posizionata quella di Massud che batteva costantemente la spianata sottostante e le alture opposte occupate da Sayyaf e Mazari... Lì vivevamo in centinaia di migliaia. L’assedio durò quattro anni, il numero dei morti non si conoscerà mai. Cifre approssimative li avvicinano a 80.000. Anni addietro, durante gli scavi compiuti nella zona del Politecnico, vennero alla luce fosse comuni dov’erano interrati i cadaveri di probabili prigionieri. Tutti passati per le armi. Da chi non è facile stabilirlo per mancanza di testimonianze certe”. I partiti e le fazioni armate erano i soliti: Jamiat di Massud, Hezb di Hekmatyar, Ittehad di Sayyaf, Hezb di Mazari. Sempre loro, i signori della morte. Per chi volesse sapere anche a ritroso, sebbene da anni la vicenda sia conosciuta, l’Afghan Indipendent Human Rights Commission produsse una “Mappa dei conflitti afghani dal 1978” che elencava nomi e responsabili di decine di migliaia di vittime dall’epoca dell’invasione sovietica sino al 2001.
Nero su bianco c’erano i nomi di cinquecento uomini ai vertici della catena di comando, fra cui il ‘compianto’ Massud, Dostum (attuale vicepresidente di Ghani), due vicepresidenti dell’era Karzai: Fahim e Khalili e altri. Il rapporto finì nel dimenticatoio, il curatore Nader Nadery, rischiò la pelle. Venne allontanato da Karzai dopo che il vicepresidente Fahim in un incontro pubblico così lo accoglieva: “Dovremmo semplicemente crivellargli la faccia con trenta colpi”. Signori della guerra vecchi e rinnovati, niente di più. Accanto alle loro storie ci piacerebbe leggere sui grandi media quelle dell’oscuro lavoro di attivisti democratici che da anni, chiedono giustizia per gli orrori trascorsi e cercano un reale domani per la massa degli oppressi. Nei giorni di permanenza a Kabul nel 2013 visitammo la sede del Saajs (Social Association Afghanistan Justice Seekers). Raccontava la presidente Weeda Ahmad: “Il Saajs è nato nel 2007, dopo una grande manifestazione che i familiari delle vittime dei Warlords tennero nella capitale. Da anni raccogliamo testimonianze dei sopravvissuti alle stragi, abbiamo iniziato a Kabul e proseguito a Herat, ampliando il lavoro nelle province di Nangarhar, Parwan, Paktiya, Balkh, Bamyan. Non è stato facile, la gente non ci conosceva e non si fidava, temevano ritorsioni. Poi l’aiuto di abitanti, come il signor Esatollah, ci ha aperto molte più porte di quanto pensassimo. La gente chiede giustizia, ma la geopolitica internazionale frena, vanificando il lavoro svolto anche in collaborazione con Onu e Unama”. La geopolitica ripropone vecchi schemi, si chiamino taliban, Massud o attori di ripetute stragi (come l’ultima rivendicata dallo Stato islamico, con 63 vittime, 200 feriti durante un banchetto matrimoniale nella comunità hazara) di cui giunge notizia mentre scriviamo...
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