Per quanti sforzi i governi del G7 abbiano ostentato per proiettare un’immagine di relativa unità o, quantomeno, per evitare un nuovo fallimento pubblico, il vertice di Biarritz non ha fatto che confermare il rapido avvicinarsi di un possibile tracollo del sistema delle relazioni internazionali uscito dal secondo conflitto mondiale. Sotto la spinta di crescenti rivalità e divisioni tra le principali potenze del pianeta, prima fra tutte quella tra Washington e Pechino, i rappresentanti dei governi riuniti nel fine settimana in Francia non hanno nemmeno emesso un comunicato ufficiale unitario, essendo in grado di trovare un punto d’intesa solo nel riconoscimento della distanza che separa i rispettivi punti di vista.
Già la vigilia del summit aveva preannunciato uno svolgimento all’insegna delle scintille, con il presidente americano Trump impegnato ad attaccare il collega francese, Emmanuel Macron. Per l’inquilino della Casa Bianca, quest’ultimo aveva cercato di concentrare l’attenzione dei leader suoi ospiti su “questioni di nicchia”, come il cambiamento climatico, per dividere il G7 e isolare gli Stati Uniti.
La polemica è da collegare in primo luogo allo scontro provocato dalla tassa, allo studio a Parigi, che dovrebbe colpire i giganti americani della tecnologia, in risposta alla quale Trump ha minacciato l’imposizione di dazi sulle importazioni di vino francese. A sua volta, la vicenda ha riacceso il dibattito sul complicato accordo di libero scambio tra USA e UE, segnato da minacce e contro-minacce di tariffe doganali che rischiano di penalizzare soprattutto l’export automobilistico europeo.
Questo e altri episodi hanno dimostrato ancora una volta come la situazione sia estremamente tesa anche tra gli alleati sulle due sponde dell’Atlantico, oltre che tra le prime due potenze economiche del pianeta. È stata comunque la “guerra commerciale” tra USA e Cina a tenere banco a Biarritz. Ciò era d’altronde inevitabile, dopo che venerdì scorso l’amministrazione Trump aveva alzato nuovamente i dazi su centinaia di miliardi di dollari di merci importate dalla Cina in risposta alla ritorsione di Pechino contro le precedente misure di Washington. La Cina aveva cioè imposto dazi su 75 miliardi di beni esportati dalle aziende americane.
Lo scontro USA-Cina ha avuto i soliti risvolti contradditori anche nel corso del vertice, grazie ancora una volta alle posizioni pubbliche di Trump. La stampa USA ha dedicato ampio spazio alla risposta del presidente americano alla domanda di alcuni giornalisti su suoi eventuali ripensamenti in merito alle recenti misure punitive decise contro Pechino. Trump ha ammesso di averne e immediatamente sono sembrati emergere segnali di ottimismo sul fronte della guerra commerciale. Poco dopo, tuttavia, la Casa Bianca ha chiarito il concetto presumibilmente espresso da Trump, i cui “ripensamenti” consisterebbero invece nel non avere aumentato ancora di più i dazi imposti la scorsa settimana.
Nell’ennesima giravolta retorica del presidente, lunedì è arrivata poi un’altra dichiarazione che ha prospettato la riapertura delle trattative tra USA e Cina, dopo alcune telefonate che Trump ha sostenuto essere iniziate dalle autorità di Pechino. Gli alti e bassi delle relazioni tra Stati Uniti e Cina continuano a essere influenzati dai “tweet” di Trump e le rassicurazioni che quasi sempre seguono iniziative minacciose da parte di Washington servono a calmare momentaneamente i mercati e gli oppositori delle politiche commerciali della Casa Bianca nella comunità del business a stelle e strisce.
Gli sforzi di Trump in questo senso rappresentano in ogni caso un palliativo, visto che la situazione odierna appare decisamente peggiore rispetto a quella dello scorso anno o anche solo di qualche mese fa. Particolarmente preoccupante e indicativa della posta in gioco è stata la misura, minacciata nel fine settimana e poi temporaneamente sospesa, consistente nell’ordine alle aziende americane di interrompere le loro operazioni in Cina e di trasferirle negli Stati Uniti o altrove.
Il panico subito scatenato tra i vertici di queste stesse aziende ha determinato una parziale marcia indietro a Washington. Le dichiarazioni del segretario al Tesoro, Steven Mnuchin, del consigliere per l’Economia del presidente, Larry Kudlow, e dello stesso Trump hanno però in qualche modo rafforzato la minaccia, visto che tutti hanno fatto riferimento a una legge americana del 1977 che garantirebbe alla Casa Bianca i poteri necessari per mettere in atto una simile escalation contro la Cina.
L’uscita di Trump è stata minimizzata da molti negli USA, ma sarebbe in realtà la logica conseguenza delle politiche anti-cinesi perseguite finora. Lo svincolo delle compagnie americane dal mercato cinese risponde alla necessità di separare le economie dei due paesi come condizione per condurre una guerra efficace, e non solo di natura commerciale, contro il principale ostacolo alla supremazia americana nel pianeta.
Con questo obiettivo in cima alle priorità del governo di Washington, è evidente che una flessione dei profitti delle corporation USA o una nuova recessione appaiono come un prezzo ragionevole da pagare. L’atteggiamento di Trump resta comunque cauto fondamentalmente per due ragioni. In primo luogo, un rallentamento dell’economia americana in questo momento potrebbe costargli la rielezione, mentre uno scontro frontale con la Cina rischia di allontanare ancora di più gli Stati Uniti dai propri alleati in Europa, molti dei quali attratti o già coinvolti nei piani di sviluppo globale promossi da Pechino.
Emblematica a questo proposito è stata la richiesta fatta a Trump dal neo-primo ministro britannico, Boris Johnson, il quale ha docilmente chiesto a quello che dovrebbe essere il principale e indiscusso partner di Londra dopo la Brexit di “attenuare” i toni dello scontro con Pechino.
L’intreccio di interessi e tendenze contrastanti emerso al G7 di Biarritz non ha permesso tuttavia di individuare posizioni univoche e definitive sui vari temi all’ordine del giorno. Sempre il capo del governo conservatore britannico ha confermato le divergenze con l’Europa sulla Brexit, affermando tra l’altro l’intenzione del suo governo di non pagare i quasi 40 miliardi di sterline previsti da un processo di separazione tuttora avvolto nell’incertezza.
Allo stesso tempo, Trump ha promesso un grande e vantaggioso accordo commerciale con il Regno Unito, una volta che questo paese avrà abbandonato l’UE. L’allontanamento di Londra da Bruxelles è da tempo un obiettivo di Washington nel quadro delle divergenze, economiche e non solo, sempre più marcate tra Stati Uniti ed Europa. Che il consolidamento della partnership con il Regno Unito si compia senza ostacoli anche dopo l’eventuale chiusura del processo della Brexit è ad ogni modo dubbio, viste appunto le divergenze emerse tra i due alleati su varie questioni, a cominciare dall’approccio alla Cina.
L’assenza quasi totale di opinioni condivise è stata dunque la cifra anche del più recente G7. Dove le posizioni europee sono apparse relativamente compatte, sono state registrate divisioni con gli Stati Uniti di Trump, come sull’Iran e la visita a Biarritz su iniziativa francese del ministro degli Esteri della Repubblica Islamica, Mohammad Javad Zarif.
In altri casi, lo scontro è risultato evidente anche tra i membri europei del G7. Ad esempio, la Germania si è detta contraria alla proposta di Macron di sospendere la ratifica del trattato di libero scambio tra UE e alcuni paesi dell’America Latina se il presidente brasiliano di estrema destra, Jair Bolsonaro, non dovesse prendere provvedimenti efficaci per fermare gli incendi nella foresta amazzonica e, più in generale, per la salvaguardia di quest’ultima. Per Berlino le due questioni andrebbero piuttosto separate, soprattutto perché le compagnie automobilistiche tedesche si attendono enormi vantaggi economici dall’accordo.
Un’atmosfera di estremo pessimismo ha dunque pervaso anche il summit di Biarritz e la sensazione di cupezza percepita dietro l’ostentazione di normalità è stata accentuata anche dal consueto isolamento auto-imposto dai partecipanti, assediati a svariati chilometri di distanza da manifestazioni di protesta e, in generale, dall’ostilità di un numero crescente di persone in tutto il mondo.
In alcune dichiarazioni prima e durante il vertice, svariati leader hanno comunque riconosciuto la situazione di profonda crisi in cui versano le relazioni internazionali, se non addirittura la democrazia liberale e il sistema capitalistico, minacciati da tensioni sociali esplosive alimentate da disuguaglianze insostenibili.
Ciò che resta del tutto assente è però una qualche soluzione accettabile. Di fronte alla crisi e all’inasprirsi della competizione globale, la risposta delle classi dirigenti occidentali e di tutto il mondo continua a consistere, da un lato, nel rafforzamento dei poteri di controllo e di repressione sul fronte domestico e, dall’altro, nell’affermazione dei propri interessi economici e strategici a spese dei rivali internazionali.
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